Kubo e la spada magica
di Trevis Knight
animazione
USA, 2016
durata,101'
Floating, bumping, noses dodge a tooth
the fin a luminous
fangs all 'round the clown...
- S.Barrett -
Non battete ciglio, da ora/Prestate attenzione a quello che vedrete e ascolterete, per quanto insolito/Ed in più vi avverto... Così parlò, con intercalare baldanzosamente assertivo, il piccolo Kubo, trovatore armato di shamisen, malinconica fantasia e origami fatati, in un angolo al tempo ideale e verosimile di un remoto Giappone, allineando, in trasparenza, la propria vicenda al cuore metaforico della storia che lo vede protagonista, variazione a-passo-uno di uno degli archetipi fondanti l'immaginario di specie, ossia la necessità/piacere/meraviglia del racconto. Itinerario di scoperta, di sofferenze e d'agnizioni - il suo - che trova tra l'altro nella menomazione [Kubo è privo di un occhio sottrattogli dal potente nonno materno - The Moon King - arcigno mago deciso a privarlo anche dell'altro allo scopo di uniformarne a sé qualunque visione (So perché vuoi il mio occhio. Senza, non potrei guardare gli altri fin dentro l'anima...), in cambio di quella fantomatica eternità degli eletti che tanto somiglia alla morte; come, per dire, Nemo s'era ritrovato, diciamo così, in dote, una pinna difettosa] uno strumento tanto formativo del carattere, nel senso di una sua prematura torsione verso la fermezza di fronte alle avversità, quanto, paradossalmente, moltiplicatore del desiderio (quindi, d'ipotetica disponibilità) di altri e diversi punti di vista, spesso misconosciuti dalla prospettiva normale che si accontenta di guardare ciò che l'evidenza tradisce impedendo di vedere. Non è un caso, infatti, che lo sforzo di Kubo sia quello di narrare (nel caso, la proiezione del proprio vissuto di bambino cresciuto in fretta, privato degli affetti di base: quello del Padre, Hanzo, samurai leggendario, morto con valore per essersi opposto alla prepotenza - e all'inganno - delle forze del Male raffigurate, con il volto impenetrabile di una maschera beffarda, da due Sorelle, zie-fattucchiere-erinni e potenziali carnefici, a proporre, tra l'altro, una singolare attrazione/ripulsa nei confronti dell'istituto familiare; quello della Madre, crogiolo di prodigi e contraddizioni, folgorata sulla via dell'amore e della redenzione, moti interiori che le lasceranno ferite profonde e durature) allo scopo di vedere-come-va-a-finire. In altre parole, la vicenda si snoda ed evolve dal perno paradigmatico che da sempre intende in primis stabilire un nesso diretto fra visione come superamento dell'apparenza e un simulacro, per quanto imperfetto e instabile, di verità; quindi rinsaldare tale legame attraverso l'esercizio della memoria e, infine, porre le premesse per il dispiegarsi di nuove costruzioni dell'intelletto e delle passione (La fine di una storia è solo l'inizio di un'altra) da introdurre, nel nostro caso, ogni volta con un deciso colpo di bachi sulle corde [le strings del titolo originale, estremi materiali, emotivi nonché simbolici - uno di provenienza materna, un lungo capello incantato; l'altro d'origine paterna, il nerbo tensore dell'arco - attorno a cui Kubo fortifica la propria determinazione a resistere e l'intento di rendere ancora possibile lo stupore del mondo inteso come circolarità virtuosa di affabulazioni (Questo ci rende forti. I ricordi di coloro che abbiamo amato e perduto. Se teniamo le loro storie dentro i nostri cuori, non riuscirai mai - riferito a The Moon King - a portarcele via)], a scatenare il portento della promessa di un ennesimo inizio.
Simile corrispondenza si mantiene anche dal punto di vista formale/espressivo. Ad esempio, nelle sequenze - tra le più riuscite e suggestive - in cui Kubo da fondo alle peculiarità e alle astuzie del suo mestiere, innescando l'imprevista e sorprendente fantasmagoria dei cartoncini colorati viventi. Qui le soluzioni di regia assecondano, con estro stilizzato e capricciosa geometria (a stimolare una sintonia palpabile con l'ethos nipponico incline alla composizione in un'armonia superiore della componente ludico-dionisiaca con quella rigorosa-razionale), il momento lieto dell'inventiva coreografica e dell'improvvisazione fiabesca, secondo un caleidoscopio cromatico che tende a privilegiare il nitore autunnale degli ocra, degli arancio, dei gialli e dei rossi, in specie per ciò che attiene agli sfondi dove quello che, in parte e fatalmente, si smarrisce in fluidità (e lo stesso dicasi per i comunque più che comunicativi volti e le coordinate movenze dei corpi), si riguadagna in compattezza, in equilibrio d'insieme, in splendore nostalgico, in calore (si noti, per dire, l'esitante dolcezza con cui Kubo ravvia, in apertura, i lunghissimi capelli materni o ne sfiora riguardoso la spalla, prima di sederlesi accanto al tramonto. O, di contro, il brio con cui la sua mano sinistra rincorre l'estensione del manico dello shamisen...) e, parimenti, in semplicità, in virtù dell'artificio infantile capace d'assemblare, in una sorta di dispettoso diletto, materiali con la logica ordinaria incompatibili (Kubo mette insieme un'imbarcazione per mera giustapposizione d'innumerevoli foglie d'albero).
D'altro canto, è da notare l'efficacia e la funzionalità spettacolare - nonostante qualche passaggio meccanico e/o sbrigativo - dell'espediente retorico riguardante la trasfigurazione animalesca delle figure genitoriali, calate con agio e misura in un contesto arcaico per il quale la dimensione magica dell'esistenza è solo la faccia speculare di una medesima educazione interiore concepita alla stregua di un impegno quotidiano volto ad aprirsi alla molteplicità delle cose, ad imparare (o re-imparare: tanto la Madre, così il Padre, dapprincipio dimenticano scampoli della propria identità e del proprio ruolo) a vedere, per porre argine al caos. La Scimmia/Madre effigie di saggezza, di amorevole disincanto e di equanimità, da un lato; lo Scarabeo/Padre ritrovato, emblema dello slancio vitale, del coraggio e delle rigenerazione, contribuiscono mano mano - come accennato - a sostanziare l'innata tenacia di Kubo di opporsi alla volontà opalescente del Re Luna, alla sua inerzia omologatrice in direzione di una soddisfatta (quantunque sterile) cecità al mondo e alla vita, uguale e contraria, quest'ultima, per peso e determinazione, al sorriso irriverente ma fiducioso di un ragazzino che - solo tra i vivi - s'è guadagnato il diritto di pronunciare la parola fine, attingendo davvero a quelli che Proust chiamava i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è.
[Coda: In chiusura, Regina Spektor si cimenta con While my guitar gently weeps].
TFK
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