mercoledì, gennaio 03, 2018

IL RAGAZZO INVISIBILE - SECONDA GENERAZIONE

Il ragazzo invisibile - Seconda generazione
di Gabriele Salvatores
con Ludovico Girardello, Ksenia Rappoport, Galatéa Bellugi 
genere,
Italia, 2017
durata, 90'


I limiti del cinema italiano sono a volte strutturali, dovuti alla difficoltà di reperire i soldi necessari a realizzarne le ambizioni. Talvolta però ci si mette anche una forma di autocensura che, per molteplici ragioni, impedisce agli autori di esprimere le proprie potenzialità. Una sudditanza di cui non soffre Gabriele Salvatores, frequentatore di generi e di produzioni ad alto tasso di competitività, come quella che fa capo alla saga del ragazzo invisibile, arrivata al secondo episodio sulla scia del plauso registrato dal capitolo iniziale. Dopo averne raccontato le origini, Salvatores e il suo  “Il ragazzo invisibile - Seconda generazione” avevano il compito di consolidare la linea tracciata dal prototipo, evitando, come capita alle seconde volte, di rappresentare un momento di transizione in vista  dell’atto conclusivo della potenziale trilogia. Per sfatare questa legge  non scritta Salvatores compie una piccola rivoluzione, facendo mancare al protagonista le poche sicurezze della sua ancora giovane vita, a cominciare dalla presenza della madre adottiva (Valeria Golino), tolta di mezzo da un tragico incidente ancora prima che il film abbia inizio. E poi, disseminando lungo il percorso di formazione del ragazzo invisibile una serie di sorprese che riguardano soprattutto il rapporto con la sua nuova famiglia rappresentata dalla madre naturale (Yelena interpretata da Ksenia Rappoport) e dalla sorella Natasha, anch’ella dotata di poteri sovrannaturali e con la quale Michele è destinata a incontrarsi in vista di una nuova e misteriosa missione. 



Supportato da effetti speciali che nulla hanno da invidiare al corrispettivo americano, “Il ragazzo invisibile - Seconda generazione” si muove tra novità e déjà vu. Delle caratteriste appartenenti alla prima abbiamo appena detto mentre del secondo vale la pena sottolineare la presenza di temi e luoghi tipici dei prodotti Marvel. Si pensi, per esempio, alla visione del potere inteso come diversità che imprigiona e fa soffrire, come apprendiamo nel flashback in cui il film ci racconta le vicissitudini di Yelena e di quelli che come lei vengono imprigionati in una sorta di lager per essere manipolati da chi vuole trasformarli in macchine da guerra. Oppure, alla scelta di fare del Marocco - uno dei luoghi prediletti dalle storie di super eroi - il punto di partenza del filone narrativo  dedicato al fantastico e all’avventura, quello relativo alla missione di Michele e del super gruppo di cui entra a fare parte. La formula di Salvatores resta sempre la stessa, e consiste nell’adattare le estetiche super eroistiche a un impianto che non vuole perdere le caratteristiche della propria identità identità italiana ed europea. Se Gabriele Mainetti era riuscito a innestare i temi del suo “Jeeg Robot” nel contesto fortemente caratterizzato delle borgate romane, il regista di origine campana sceglie un approccio più sfumato (si gira sempre a Trieste ma la città non viene mai apertamente menzionata) in cui l’adozione di una scenografia lontana dalle architetture contemporanee (le linee degli edifici sono quelle antiche di ville, castelli e segrete) punta a costruire attorno al film una mitologia fuori dal tempo. Il risultato però funziona solo in parte, perché se è vero che il film fila via senza intoppi , c’è da dire che la regia di Salvatores appare troppo neutra e corretta per incidere sull’immaginario dello spettatore, perennemente in attesa di un colpo di coda che neanche il tragico finale riesce ad assicurare.
Carlo Cerofolini

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