Tutti i soldi del mondo
di Ridley Scott
con Michelle Williams, Mark Whalberg, Christopher Plummer
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 132'
Il patto con il diavolo Ridley Scott l'aveva fatto anni or sono, quando, dopo stagioni di successi, il regista di "Blade Runner" si era messo al servizio del cinema hollywoodiano, prendendo in subappalto i progetti pensati dai grandi Mogul americani. Per capire ciò di cui stiamo parlando, basterebbe leggere il curriculum vitae della Scott Free Production - fondata da Scott nel 1995 - ricca di blockbuster - Il gladiatore, "American Gangster, "Man on Fire", "Black Hawk Down" per non dire degli ultimi due "Alien" - che sono diventati tali anche in virtù dell'appoggio di quelle grandi Major che pochi mesi fa anno chiesto la testa di Kevin Spacey, il quale, caduto in disgrazia per i noti scandali sessuali, è stato sostituito dal collega Christopher Plummer, chiamato all'impresa di rigirare in poco più di una settimana la parte di Jean Paul Getty, ruolo cardine de "Tutti i soldi del mondo", uscito giovedì nelle sale italiane. Dunque, se, da un lato, non c'è da stupirsi della velocità con la quale il cineasta inglese ha accettato di tagliare il suo ex pupillo, facendo un favore a se stesso e ai suoi pigmalioni, che dalla mancata uscita del film avrebbero perso un sacco di denaro, dall'altro l'accaduto casca a fagiolo, perché in qualche modo regala al lungometraggio in questione un surplus di credibilità utile a rafforzare i concetti espressi dalla sceneggiatura firmata da David Scarpa. Ci spieghiamo meglio: "Tutti i soldi del mondo" è ispirato al rapimento di John Paul Getty III, nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty, avvenuto a Roma nel 1973. Un evento destinato a suscitare grande clamore in Italia e all'estero, sia perché il rapimento di persone non era a quei tempi una pratica così usuale, sia perché l'atto criminale andava a colpire il cuore del capitale economico attraverso il sequestro (e la relativa richiesta di riscatto) del parente di uno degli uomini più ricchi del mondo. Bisogna poi aggiungere che parte del pathos fu alimentato dalle affermazioni dallo stesso petroliere che, tanto ricco quanto avaro, dichiarò fin da subito l'intenzione di non cedere alle richieste dei rapitori, rifiutandosi di soddisfarne le richieste, e, in seguito, di tergiversare, nel tentativo di abbassare il prezzo del riscatto.
In prospettiva, e ancora prima di metterci le mani, un fatto del genere aveva tutte le caratteristiche per diventare un film. Da una parte, infatti, l'estenuante trattativa e il rischio di morte che pendeva sul giovane Getty bene si addiceva alla suspense e alle meccaniche tipiche del thriller, dall'altra, la figura del miliardario attaccato ai soldi invece che ai nipoti forniva agli sceneggiatori gli ingredienti per mettere in scena l'ennesima tragedia shakesperiana, con il monarca Getty pronto a sacrificare la vita di chi avrebbe dovuto sostituirlo nel governo delle compagnie petrolifere. E qui torniamo al discorso iniziale, e al contributo che Scott può fornire alla verosimiglianza della vicenda. Nel descrivere il primato dei soldi rispetto alle persone e nell'abolire qualsiasi principio estraneo alla fede del profitto economico, Scott rappresenta una cosa che conosce bene, avendo deciso in base allo stesso principio di sacrificare la performance di Spacey. Se appare esagerato affermare che il regista, attraverso il personaggio di Plummer, finisca per raccontare se stesso, è vero che nella sua accezione più autoriale il film di Scott incarni come meglio non si potrebbe un aspetto appartenente alla personalità del cineasta. Il quale, smessi per un attimo i panni del produttore, torna dietro la macchina da presa, rispolverando un senso dello spettacolo che trova nuovo slancio non tanto nel confronto con un preciso momento della Storia - appena abbozzati, gli anni Settanta del regista inglese sono un concentrato di glamour incapace di andare oltre l'estetica da spot pubblicitario - quanto nel confronto con le suggestioni messe in circolo dalla città di Roma, che Scott - memore de "Il gladiatore" - riporta agli antichi fasti attraverso la figura di Getty, come gli amati imperatori (di cui si sente successore) disposto a spendere ingenti fortune per circondarsi di bellezza e altrettanto crudele quando si tratta di difendere le prerogative del privilegio.
Ed è proprio la messa in scena di una doppia trasfigurazione - quella di Getty che si considera discendente di Adriano e quella di Roma, ritratta con un'opulenza in grado di ricollocarla a capo del mondo - a rivelare il nodo centrale del film, quello che sta a cuore al regista. Il rapimento di Paul Getty e l'estenuante trattativa interessano fino a un certo punto. Non è un caso se le parti più deboli sono quelle in cui il pensiero si trasforma in azione e il confronto tra le parti diventa il presupposto per alzare il ritmo e scatenare la tensione. A Scott preme innanzitutto entrare nella testa e nell'anima del mostro per sondare le differenze che lo rendono alieno tra gli alieni. In questo senso Getty e i suoi lacchè diventano l'emblema di un sistema (elitario e capitalistico) che salvaguarda se stesso, rimanendo sostanzialmente estraneo alle necessità degli altri. Alla stregua di chi li governa, i consulenti di Getty (tra cui il redivivo Timothy Hutton) professano di continuo la loro religione, sbandierando come un vessillo l'egoismo che li mantiene lontani da qualsiasi tipo di contaminazione emotiva. Come pure esemplare è, a un certo punto, la confessione di Getty, il quale, nel dichiarare di preferire l'immutabilità degli oggetti alla mutevolezza dei propositi umani, tocca uno dei punti più tristi e agghiaccianti di un film in grado di darci l'idea dell'oligarchia che oggi, come allora, continua a regolare le nostre vite. Senza dimenticare che, nella parte del cattivo, Plummer si candida alla vittoria dell'Oscar.
Carlo Cerofolini
(pubblicato da ondacinema.it)
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