L’âge atomique
di Hélén Klotz
con, Eliott Pacquet, Dominik Wojcik, Niels Schneider, Mathilde Bisson, Clèmance Boisnard
Francia, 2012
genere, drammatico
durata, 67’
Secoli su secoli dimenticando il mondo
e ancora
secoli su secoli dimenticando il mondo
Attimo per attimo dimenticando tutto
e ancora
attimo per attimo dimenticando tutto
Con te
con te
con te
con te
con te
- Scisma -
E’ raro ma esiste, coincidendo per lo più con l’acme della prima giovinezza, quell’istante - lirico, inerme e perentorio - in cui la vicinanza tra spiriti affini sposa lo stupore del mondo nella magia di una tregua irripetibile tra sé e l’esistenza. Victor/Pacquet - simil fratello corrucciato del Casablancas degli Strokes - e Rainer/Wojcik - specie di Baudelaire in giubbotto di pelle e alcool da due soldi in corpo - vivono siffatta epifania durante una fredda notte spesa tra i boulevards e i ponti di Parigi alla ricerca di una compagnia affettuosa (Victor: “L’ingenuità è bellissima. E’ rara al giorno d’oggi”); di una rivelazione decisiva (Rainer: “Adesso è l’ora magica. L’ora blu. L’ora in cui la città delle luci trema in un’alba risonante a Madrid o a Vienna”): entrambi in fuga dalla desolazione consustanziale alla modernità e dalle inquietudini senza sbocco di un’età precocemente avveduta.
In palese contrasto con la deriva realista cara a una consistente parte della cinematografia contemporanea, l’esordiente (al lungometraggio) figlia d’arte Klotz avvolge la sua storia entro una bolla di impermeabile eppure nervosa indeterminatezza, come se i rari eventi, colti sul farsi più che narrati - i giochi di seduzione abortiti o fallimentari all’interno di una discoteca; la contesa dai risvolti filosofici poi degenerata in rissa con un gruppo di coetanei; il girare a vuoto registrando un progressivo restringimento di prospettive che risuona ben oltre le contingenze di un’evasione sottratta alla routine - pretendessero comunque l’orizzonte di una verginità oramai fuori contesto, spettro beffardo che alligna in ogni sguardo deluso, in ogni slancio troncato sul nascere dalla ipocrisia e dal fatuo ribellismo altrui, generatore automatico di stupide umiliazioni: nel candore gentile scambiato per debolezza, e alla quale solo il dettato senza tempo dell’incedere poetico e il reame irriducibile del sogno (Reiner: “Dormo male in questi giorni. Non so cosa fare. Così ho ricominciato con la poesia. Leggo tutta la notte e mi addormento recitando brani che ho imparato a memoria. E’ il modo che ho per sognare”) sono in grado di restituire una voce sincera utile a rendere conto dell’inadeguatezza e del profondo senso di solitudine che traspira da un vero immaginato, progettato e realizzato al fine esclusivo di statuire una dimensione meramente materiale dell’esperienza umana, ossia, di fondo, una quinta amorfa e servizievole - per quanto spietata - cieca e muta a istanze che di fronte a quel fine riluttano, terreno fertile, d’altro canto e banalmente, per i semi di quella disperazione tanto furente quanto inane, oramai davvero incistata fin dentro gli atomi delle nuove generazioni.
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TFK
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