“Denti da Squalo” di
Davide Gentile racconta un’isola che non c’è in cui il segreto è di accettare
di essere bambini. Del suo esordio cinematografico abbiamo parlato con il
regista del film.
“Denti da Squalo” è
distribuito di Lucky Red.
La prima sequenza è
costruita all’insegna di una forte soggettivazione. La deformazione dei suoni,
la presenza di echi e voci lontane, ma anche la disposizione delle figure nello
spazio dell’inquadratura introducono a una visione che coincide con quella di
Walter, l’adolescente protagonista di Denti da squalo.
Assolutamente sì, Denti
da squalo è un viaggio interiore che nella scena iniziale è interrotto in
maniera metaforica dalla voce di un bambino che chiama il papà. Sono le prime
parole che sentiamo e non poteva essere altrimenti.
La lontananza di quella
voce non è solo fisica, ma anche emotiva. Esprime la condizione di Walter,
prostrato dalla scomparsa del padre.
Il fatto di vedere lui e
la madre in spiaggia vestiti di nero in una giornata d’estate fa intuire che è
successo qualcosa di brutto. I fiori in macchina lo confermano. Diciamo che è
stata una suggestione che ho voluto dare a inizio film per poi introdurre
l’argomento.
Il mare, la mamma che
guarda il figlio e questi che in qualche modo cerca di elaborare da subito la
mancanza del padre. Quando tornano a casa Walter si ricorda del genitore
attraverso la fotografia della torre e da lì decide di andare incontro al suo
destino.
A proposito di
suggestioni, sempre nella sequenza della spiaggia ho trovato efficace il
contrasto tra la staticità di Walter e un’occupazione generale dello spazio che
anche in cielo – per la presenza degli aquiloni – è espressione di leggerezza e
libertà. Isolare il protagonista dal resto del contesto ti permette di raccontarne
al meglio la sua solitudine.
Oltre al suono, che hai
giustamente menzionato, c’è anche l’aspetto visivo, ovvero la macchia di colore
scuro all’interno di un contesto chiassoso e colorato com’è l’estate italiana.
Quindi, sì, con la prima e l’ultima scena – anch’essa ambientata in spiaggia –
si voleva in qualche modo riassumere il percorso esistenziale del bambino,
inizialmente estraneo al mondo e alla fine, integrato, con un amico e con
quella leggerezza adolescenziale che dovrebbe sempre esserci nella vita,
appunto, di un bambino.
A proposito delle
sequenze ambientate in spiaggia, in quella iniziale il mare per Walter è
qualcosa di respingente, materializzando i limiti e le costrizioni della sua
condizione. Al contrario, in quella conclusiva, in cui lo vediamo entrare in
acqua, questo diventa il simbolo della liberazione dal male e della ritrovata
armonia con la realtà.
L’acqua rappresenta tante
cose, a cominciare dall’incontro con il padre, reso difficile dall’accettazione
della morte del genitore. Come dicevi, all’inizio l’acqua rappresenta un
limite, poi, nel finale, quando lo squalo viene restituito al suo habitat
naturale, il mare diventa il simbolo della liberazione dal dolore, lenito
dall’entrata in acqua di Walter. Consapevole che la vita non è sempre bella,
Walter ne accetta anche i lati negativi e decide di crescere.
Il film è pieno di
situazioni e di segni che rimandano a una dimensione ancestrale. Lo è la villa
e il suo castello, da te introdotti come un luogo magico, sottolineando il
trapasso da una realtà quotidiana a un’altra, del tutto eccezionale. Nascosta
all’interno di una folta vegetazione, l’accesso alla villa assomiglia a una
sorta di foresta oscura dantesca dalla quale ha inizio il viaggio nell’anima
del protagonista. L’acqua della piscina rafforza questa sensazione.
Tutto vero. Se hai notato
all’inizio è torbida, poi quando Walter inizia ad ambientarsi, prendendo
confidenza con l’ambiente, l’acqua si schiarisce.
In questa direzione va
anche la presenza dello squalo che in natura è quanto di più primitivo e
primordiale ci possa essere.
Sono d’accordo con te.
Questa cosa l’abbiamo sviluppata assieme agli sceneggiatori fin dal primo
momento. Ritengo molto azzeccata la scelta di un linguaggio più metaforico,
simbolico e a volte anche sensoriale, utilizzato per raccontare le sensazioni
di questo bambino. Inoltre c’è la fascinazione e la paura per questa torre e
per la discesa negli inferi rappresentati dall’inconscio del bambino. Non a
caso ogni volta che va in quel luogo incontra suo padre o sente il fischio che
glielo ricorda. Il film è pieno di questi elementi. Non pretendo che tutti
arrivino a ricollegare il puzzle ma forse riguardandolo una seconda volta ci si
riesce.
La villa è una sorta di
isola che non c’è che tu ricostruisci attraverso lo sguardo di Walter. Va da sé
che Denti da squalo è un mix di fantasia e realtà, del reale e della sua
deformazione. In questo senso la villa e i suoi personaggi ti permettono di
rendere narrativo ciò che non lo è. L’interiorità di Walter si riversa sullo
schermo attraverso una serie di azioni e fatti coerenti alla struttura che
presiede il racconto.
Sì. Poi, sai, questo è il
mio primo film e una cosa su cui ho puntato molto era l’atmosfera. Il tono di
mistero che aleggia in quella villa, con lo squalo che lo riassume alla
perfezione, penso rimanga sempre presente. Sono anche contento delle diverse
interpretazioni che ognuno ha del film. Alcuni mi hanno chiesto se lo squalo
era reale oppure no. Entrambe le ipotesi aggiungono qualcosa al film e mi piace
lasciare alla sensibilità dello spettatore la maniera con cui sciogliere
l’enigma. Sono contento che tu mi stia portando a dialogare sulla linea di
confine che divide la realtà dall’apparenza perché abbiamo costruito il film su
questa dialettica.
A proposito dei vari
livelli di racconto, esemplare è quello relativo allo squalo. In superficie ci
appare come una figura minacciosa e invincibile. Al contrario quando Walter
scende nelle segrete della villa lo vediamo sotto altre vesti, costretto a una
cattività che lo rende meno pauroso. La sequenza di cui si parla, secondo me,
permette di capire bene il modo in cui avete costruito il film.
Apprezzo molto la
profondità del tuo pensiero perché mi permette di entrare nel cuore del film e
dare conto di suggestioni assolutamente volute. Il rapporto tra Walter e lo
squalo all’inizio è complicato e violento, poi si tramuta in curiosità. È
questa a portarlo di nuovo nella villa e poi a fargli prendere cura del
famigerato ospite. Questo per dire che anche lo squalo, in quanto personaggio,
ha un suo sviluppo durante la storia. Non avendo espressività e non volendo
renderlo umano ne abbiamo preservato l’aspetto selvaggio e predatorio. La sua
evoluzione l’abbiamo mostrata attraverso il bambino, con la liberazione dello squalo
che coincide con quella dal dolore per la morte del genitore. In quel momento
Walter scopre di non poter fare tutto da solo e che l’unica persona in grado di
aiutarlo è la madre. In quel momento accetta di essere un bambino, perché Denti
da squalo ci parla del fatto che certi percorsi di crescita vanno aiutati e non
affrettati. In questo senso il film è un coming of age all’inverso, perché alla
fine Walter non diventa un uomo, ma torna a essere bambino. Le esperienze gli
confermano che è bello fare le cose tipiche della sua età.
Nel progressivo sviluppo
del rapporto tra il bambino e lo squalo lo spettatore è in grado di seguire la
progressione del percorso di consapevolezza interiore compiuto dal giovane.
Assolutamente sì. Diciamo
che il punto di svolta si verifica alla prima apparizione del padre, che di per
sé è una cosa abbastanza classica. È lui a incoraggiarlo nel suo percorso di
crescita, dicendogli di decidere se essere un pesce qualunque o un predatore.
Da lì, secondo me, comincia a incalzare la dinamica di crescita e di violenza,
che però è raccontata in maniera molto candida. Walter scoprirà che quel mondo
sta facendo male a lui e allo squalo.
Non solo le immagini, ma
anche il montaggio è costruito sull’eco della vicenda esistenziale del
protagonista. Come la prima parte, più statica, riflette l’impasse dovuto alla
perdita del genitore, così, la seconda, quando Walter si getta nella mischia,
risulta più cinematica. È stata una soluzione che avete ricercato?
Sì, ed è stata motivo di
discussione con Lucky Red, i produttori del film, spaventati da un inizio più
intimo e rarefatto. In realtà ho insistito, sia in montaggio che con loro: ne
abbiamo parlato e alla fine siamo stati tutti d’accordo sulla necessità di
avere una sorta di introduzione a un tema che portava con sé un lutto così
importante, come lo è per un bambino la perdita del genitore. Una condizione
che si doveva raccontare anche con il silenzio. Se ci fai caso nei primi dieci
minuti non ci sono dialoghi. Questa cosa mi è piaciuta molto perché introduce
nell’atmosfera del film, presentando i personaggi nella loro condizione
iniziale, ovvero con la tristezza e l’incapacità che impedisce la condivisione
dei sentimenti. Se ci fai caso, nella prima parte le conversazioni tra Virginia
Raffaele e Walter sono sempre volte a negare il ruolo della madre. In ogni
occasione il bambino trova una scusa per negare qualsiasi tentativo di dialogo.
Volevo che si creasse questo meccanismo iniziale di pausa, di silenzio e di,
come l’hai chiamata tu, staticità.
Due passaggi meglio di
altri rendono la capacità con cui la fanciullezza è in grado di reinventare la
realtà. Il primo trasfigura la paura dell’ignoto costruendo intorno alla
visione del coltello insanguinato il timore del ragazzo di essere capitato
sulla scena di un delitto. Nel secondo, invece, Walter chiamato a dimostrare la
sua lealtà al capo della gang di ragazzini pensa di essere impiegato come
corriere della droga, salvo scoprire che così non è.
Ho cercato di uscire
fuori dagli stereotipi con cui viene per lo più raccontata la criminalità della
periferia di Roma. Non volevo replicare l’humus criminale di Suburra.
Considerando che parlavamo di microcriminalità e di ragazzi, volevo che il male
fosse simbolico e il contesto – come hai detto tu – ludico. Neanche il Corsaro,
interpretato da Edoardo Pesce, lo è: quando picchia qualcuno, quest’ultimo è
più cattivo di lui. In generale non mi interessava ricalcare l’immagine molto
sfruttata della criminalità del litorale romano. La prova che lo fa entrare
nella gang rappresenta una sorta di battesimo del fuoco, anche se poi Walter
scopre che era tutta una presa in giro.
Oltre alle valenze di cui
abbiamo detto la presenza dello squalo è legata alla figura del padre. Un
legame confermato dal modo in cui filmi la prima apparizione dell’uomo, mostrato
subito dopo aver staccato da una carrellata sullo squalo intento a dirigersi
verso di lui. Come l’animale, anche il padre di Walter, a un certo punto, ha
capito di essere prigioniero del suo potere.
È una correlazione che il
film spiega un poco alla volta. Per esempio con la conversazione tra Walter e
il Corsaro, in cui l’uomo gli spiega che lo squalo rappresenta il lascito del
padre prima di congedarsi dalla criminalità. Così facendo quest’ultimo è il
simbolo sia del genitore che dell’amicizia con il Corsaro, visto che entrambi
venivano chiamati “i due squali”. In generale tutto il film contiene una serie
di piccoli dettagli che poi danno un’immagine completa dell’intero quadro.
Il modo in cui concepisci
le apparizioni del padre a me ha ricordato molto quelle de L’uomo dei sogni.
Seppur in un contesto differente, anche lì gli incontri tra padre e figlio
avvengono in uno spazio che è un po’ un luogo dell’anima.
A dire la verità è un
film che non ho mai visto. C’erano diverse tecniche per raccontare
l’apparizione di un fantasma. Alla fine per questioni di semplicità, anche
produttive, e per non coinvolgere troppo la post produzione con gli effetti
visivi, ho optato per la scelta più facile, ovvero l’apparizione di un uomo di
cui capiamo subito l’identità. A livello tecnico ho adottato la soluzione più
semplice e intuitiva, quella che permetteva allo spettatore di capire e alla
produzione di risparmiare soldi.
Parliamo dei tuoi film di
riferimento, i film di riferimento di Davide Gentile.
Non sono mai stato uno di
quei bambini che guardava film e diceva che un giorno avrebbe fatto il regista.
In realtà questa passione l’ho scoperta dieci anni fa per necessità, nel senso
che non avevo grandi aspirazioni, sogni o desideri. Mi si è presentata davanti
l’occasione di girare un video e da lì mi sono appassionato, costruendomi prima
una carriera pubblicitaria, poi cinematografica. Dunque non ho il tipo di
formazione di chi ha studiato o letto libri o manuali. La regia mi è arrivata
un po’ così dal nulla e l’ho costruita in modo istintivo. Negli ultimi anni ho
visto un sacco di film che mi sono piaciuti ma ce n’è uno in particolare che
sento mi rappresenti. Parlo di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, un film in cui
è possibile trovare dramma, patina sociale, ironia e anche action. E poi i
dialoghi sono scritti benissimo.
Hai iniziato come regista
pubblicitario quindi sai che, soprattutto negli anni novanta, ci sono stati una
serie di registi come Adrian Lyne, Tony Scott, che hanno cavalcato l’onda con
uno stile mutuato dai videoclip. Rispetto a questi registi come ti poni? Te lo
chiedo perché allora sembrava imprescindibile avere una formazione di quel
genere mentre oggi è molto più raro.
Chiaramente stiamo
parlando di mostri sacri. Spike Jonze era il regista che seguivo all’inizio
della mia carriera pubblicitaria. Her è uno dei film che più mi ha toccato
nella vita perché forse in quel momento mi parlava in modo specifico essendomi
appena lasciato con la mia fidanzata. Come mi pongo? Generalmente mi stupisce
il fatto che registi pubblicitari di bravura strepitosa non passino al cinema.
Una ragione possono essere i soldi, che nella pubblicità sono molti e
difficilmente replicabili in altri campi. Io ho deciso che a un certo punto
volevo testarmi in questo nuovo territorio e adesso non voglio più farne a
meno, nonostante continui a coltivare i miei rapporti con il campo di
provenienza. Peraltro questo mi permette di sperimentare, incontrando ogni
volta collaboratori davvero bravi.
Oggi posso dirti che si
tratta di due mondi a sé. Lo scetticismo nei miei confronti non è mancato. Per
riuscire a fare questo film sono andato tre mesi avanti e indietro da Milano
per incontrare i produttori e mostrare loro quello che ero come persona perché
a livello istintivo, e anche un po’ superficiale, venivo visto come un esteta e
non come una persona capace di raccontare una storia di sentimenti.
Alla fine hai dimostrato
di saper mettere la fluidità dello stile al servizio della storia. Soprattutto
sei riuscito a trovare un equilibrio tra confezione e contenuto.
Sono d’accordo e mi fa
piacere sentirmelo dire. Per riuscirci ho deciso di concentrarmi esclusivamente
sulla recitazione e sui personaggi, sapendo che per indole non mi verrà mai
fuori una brutta inquadratura. I miei collaboratori sono stati determinanti:
nello specifico la costumista Sara Costantini, il montatore Tommaso Gallone, la
mia producer personale Claudia Amendola. Loro tre mi hanno dato la serenità e
anche la professionalità per riuscire a focalizzarmi su quello che stavo
raccontando. Tutti gli altri collaboratori sono stati ovviamente importanti: il
direttore della fotografia non lo conoscevo e l’ho incontrato una volta prima
di vederci, ma ci siamo subito capiti. Alla fine la coesione del mio gruppo è
stata una delle carte vincenti del film.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)