giovedì, luglio 09, 2009
APPALOOSA
Virgil (Ed Harris) e Everett (Viggo Mortensen) sono due cowboy che si guadagnano da vivere ripristinando la legalità laddove necessario: tutelare la legge è un mestiere che ha sgualcito le loro facce, ha consumato la loro anima ma in compenso ha consolidato la loro amicizia. Brevi soste e lunghe peregrinazioni scandiscono un percorso umano ed esistenziale che assomiglia più ad una fuga dalla vita che ad un bisogno materiale. In questo senso Appaloosa rappresenta il luogo dell’epifania, dove si rinnova il ritorno alla realtà dei due protagonisti, altrimenti destinati ad un oblio fatto di lunghe cavalcate e dormite all’adiaccio. E’ lì che i due forestieri, dominati e quasi annullati dalla maestosità del paesaggio si riappropriano della loro natura: un apparizione che sconvolge gli equilibri e costringe la civiltà a rielaborare l’idea stessa della civile convivenza: così il personaggio di Ed Harris, all’inizio del film accetta l’incarico a patto di riscrivere la legge, di diventare egli stesso il parametro di essa. Un inizio forte che punta tutto sul carisma dei due attori e su un frasario rarefatto, come si addice a chi non è avvezzo alla mondanità: sequenze importanti perchè portatrici dei valori fondanti di quel mondo e proscenio che ci presenta i protagonisti, due tipi con una fisicità costretta da una gestualità ridotta al minimo ed uno sguardo che tradisce un interiorità tormentata. Harris li mette in primo piano ed al centro dell’inquadratura, con la telecamera che li incornicia e sembra volerli fissare per sempre nella memoria attraverso l’assoluta mancanza di movimento della mdp. Accanto a loro, insieme ma distinta anche nel modo di recitare, tutto affidato ad una mimica facciale evidente e zuccherosa, troviamo il personaggio di Renè Zelwegger, una donna falsamente ingenua ed adatta, per decoro ed istruzione, ad ammaliare un tipo come Virgil, desideroso di una promozione sociale che il mestiere gli ha sempre precluso. La sua entrata in scena, per quanto necessaria all’evoluzione della storia, risulta debole dal punto di vista drammaturgico, con scene che vorrebbero rivelare l’umanità dei protagonisti ed invece ne depotenziano l’alone mitico, abilmente costruito nella prima parte del film. Terribile con il suo cappello nero e lo sguardo di ghiaccio, Harris diventa quasi macchiettistico nella parte del novello innamorato. Si salva in parte Viggo Mortensen risparmiato da una sceneggiatura che lo mantiene distante da tali situazioni e gli offre i momenti clou del film, (il bacio malandrino con la donna dell’amico, il duello che definirà vincitori e vinti e pure una visione dal “boduoir” a conferma di una virilità che non può essere messa in dubbio) fino all’epilogo che rilancia il mito della frontiera ed apre nuovi scenari per Everett, che si avvia solitario verso quella Wilderness che lo ringhiotterà fino alla prossima avventura. Consapevole dei suoi limiti, Harris fa di necessità virtu’, privilegiando l’inquadratura stretta e la ripresa fissa che esalta le capacità attoriali ma esclude la dialettica con l’ambiente, urbano e naturale, e con esso l’afflato che ne deriva. La sensazione è quella di un western con il passo troppo corto per stare dietro ai rimandi che un film western dovrebbe avere e che invece Appaloosa riesce solo ad evocare.
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