lunedì, luglio 20, 2009

STOP LOSS

Dopo un breve introduzione in cui un manipolo di soldati americani cade vittima di un imboscata che costerà la vita ad alcuni di essi, il film si sposta in America, dove assistiamo al ritorno a casa dei sopravvissuti ed alle celebrazioni che la comunità ha organizzato per salutare i suoi eroi. E’ un inizio molto forte dove la crudezza della guerra, ripresa alla maniera dei video che i soldati realizzano sul fronte e poi scaricano sulla rete, si sposa con la retorica dei festeggiamenti di un Paese che vuole esorcizzare le conseguenze delle scelte operate. Un ottimismo a tutti i costi che si riversa come un boomerang sui tre protagonisti, il sergente maggiore Brandon King (Ryan Philips) comandante della squadra e capo carismatico del gruppo, Tony Burgess e Steve Shriver (rispettivamente Joseph Gordon Levitt e Channing Tatum), suoi sottoposti e compagni di una vita, segnati per sempre da quell’esperienza e costretti all’isolamento da una sovrastruttura che identifica l’essenza americana con il patriottismo di propaganda dell’era bushiana. Un sistema che si compatta attorno ad un nazionalismo ottuso e ad atteggiamenti di onnipotenza ( come dimostrano gli slogan omofobici degli amici durante la festa) che non ammette ripensamenti ed è pronto a schiacciare chiunque si tiri indietro, con regolamenti come quello che da il titolo al film, lo “Stop Loss”, una sorta di richiamo coercitivo che rigetta la domanda di congedo di Brandon, traumatizzato dall’esperienza bellica, e lo obbliga a indossare nuovamente la divisa. La decisione di disertare e la fuga che ne deriva cambierà per sempre le vita dei tre ragazzi. Deciso a raccontare la guerra attraverso il punto di vista di chi vi ha preso parte, e desideroso di scuotere le coscienze con un reportage tanto crudo quanto violento, Stop Loss banalizza la complessità dei suoi temi con un intreccio costruito sui luoghi comuni del reducismo ed una serie di semplificazioni (la produzione MTV lascia pensare ad un operazione rivolta al pubblico giovanile) che annullano qualsiasi introspezione; perde di vista il nocciolo della questione (il fenomeno del richiamo coatto che finora ha reclutato 85000 persone ed ha costretto molti di loro alla clandestinità) per trasformarsi in un road movie che assomiglia ad una via crucis, in cui il dolore della famiglia che ha appena perso il figlio, il senso di colpa di chi non è riuscito a salvarlo e la voglia di vivere del reduce mutilato, vengono snocciolati come i grani di un rosario. In questo senso appare esemplare in negativo la scelta di un attore monocorde come Ryan Philips per un interpretazione che dovrebbe esprimere forza e sensibilità e che neanche una direttrice di attori come Kimberly Pierce (Boys don’t cry) riesce a rendere accettabile. Ultimo di una serie di film sulla guerra irachena, “Stop Loss” si pone in questa posizione anche sotto il profilo dal valore artistico, riducendo di molto le credenziali della sua autrice.

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