30 Torino Film Festival
Torino 30
di Mikael Marciman
Tutto il mondo è paese, ed anche un festival come quello di Torino notoriamente allergico alle sirene delle moda si è lasciato ingolosire dal potenziale mediatico di un film come “Call Girl” che, raccontando la corruzione morale della classe politica svedese coinvolta nella metà degli anni 70 in uno scandalo a luci rosse, con prostitute minorenni in primo piano, finisce per ritornare sul luogo del delitto per gli inevitabili rimandi alla cronaca nazionale. Analogie che non riguardano solamente un contesto caratterizzato dal ricorso continuo allo stordimento sessuale dei festini con ragazze chiamate a partecipare come oggetti di consumo – sottolineato dalle telefonate indirizzate alla maitresse pronta a soddisfare le richieste dei clienti a proposito dei requisiti fisiognomici delle ragazze – ma anche un momento politico, allora come oggi piu’ che immiserito dai vizi privati e dalle pubbliche virtù di ministri dalla doppia morale, in televisione pronti ad affermare la necessità del “repulisti” ma di nascosto pronti ad avallare con il loro comportamento l’esatto contrario. Nella storia raccontata dall’esordiente Mikael Marciman lo sfondo storico, con le rincorse ad un elettorato da conquistare a suon di proclami (siamo in piena corsa elettorale) serve più che altro da contrappunto per raccontare un vissuto meno glamour, con la vicenda delle due ragazzine disadattate e circuite dall’organizzazione che le farà prostituire, a farla da padrone. Una discesa all’inferno inizialmente focalizzata sugli anelli deboli della catena, le due adolescenti innanzitutto, seguite nelle ragioni che le allontaneranno dalla loro giovinezza, ma anche sulle altre “girls”, riprese di sfuggita ma nel loro insieme in primo piano nel ricreare l’atmosfera di un mondo ripiegato su se stesso ed impermeabile a qualsiasi sollecitazione esterna, e successivamente decentrata sui rappresentanti delle istituzioni e del potere: i politici innanzitutto, anonimi ma letali nel muovere le fila di nascosto, e le forze dell’ordine, chiamate a rappresentare un ordine in parte compromesso. Un doppio filo che il regista segue rifacendosi al cinema americano degli anni 70, da Pakula (“Tutti gli uomini del presidente”) a Pollack ed al Coppola de “La conversazione” (nel ricorso ossessivo e morboso alle registrazioni telefoniche ), ma anche nella fredda precisione della ricostruzione storica a “La talpa” di Tomas Alfredson. Un intento lodevole, soprattutto per la capacità di quei modelli di coniugare spettacolo ed impegno, che però viene meno a causa di una sceneggiatura troppo debole (la forza della new Hollywood nasceva proprio dalla scrittura) sia nello sviluppo dell’intreccio, confusionario quando si tratta di mettere in fila i risultati dell’indagine portata avanti da una sorta di Serpico scandinavo, che in quello dedicato ai rapporti tra i vari protagonisti, risolti con un reiterata proposizione della condizione di odio-amore che le due giovani protagoniste nutrono nei confronti di quel lavoro e nelle conseguenti reazioni dei loro sfruttatori. In questo modo il film finisce per girare a vuoto con ripetizioni che tolgono spazio alla conoscenza degli altri personaggi, uno su tutti quello di Dagmar Glans, tenutaria sulla cui personalità il film fa solo degli accenni che poi non approfondisce. Le musiche d’epoca, i pantaloni a zampa d’elefante ed interpreti funzionali non riescono a compensare la delusione.
Torino 30
di Mikael Marciman
Tutto il mondo è paese, ed anche un festival come quello di Torino notoriamente allergico alle sirene delle moda si è lasciato ingolosire dal potenziale mediatico di un film come “Call Girl” che, raccontando la corruzione morale della classe politica svedese coinvolta nella metà degli anni 70 in uno scandalo a luci rosse, con prostitute minorenni in primo piano, finisce per ritornare sul luogo del delitto per gli inevitabili rimandi alla cronaca nazionale. Analogie che non riguardano solamente un contesto caratterizzato dal ricorso continuo allo stordimento sessuale dei festini con ragazze chiamate a partecipare come oggetti di consumo – sottolineato dalle telefonate indirizzate alla maitresse pronta a soddisfare le richieste dei clienti a proposito dei requisiti fisiognomici delle ragazze – ma anche un momento politico, allora come oggi piu’ che immiserito dai vizi privati e dalle pubbliche virtù di ministri dalla doppia morale, in televisione pronti ad affermare la necessità del “repulisti” ma di nascosto pronti ad avallare con il loro comportamento l’esatto contrario. Nella storia raccontata dall’esordiente Mikael Marciman lo sfondo storico, con le rincorse ad un elettorato da conquistare a suon di proclami (siamo in piena corsa elettorale) serve più che altro da contrappunto per raccontare un vissuto meno glamour, con la vicenda delle due ragazzine disadattate e circuite dall’organizzazione che le farà prostituire, a farla da padrone. Una discesa all’inferno inizialmente focalizzata sugli anelli deboli della catena, le due adolescenti innanzitutto, seguite nelle ragioni che le allontaneranno dalla loro giovinezza, ma anche sulle altre “girls”, riprese di sfuggita ma nel loro insieme in primo piano nel ricreare l’atmosfera di un mondo ripiegato su se stesso ed impermeabile a qualsiasi sollecitazione esterna, e successivamente decentrata sui rappresentanti delle istituzioni e del potere: i politici innanzitutto, anonimi ma letali nel muovere le fila di nascosto, e le forze dell’ordine, chiamate a rappresentare un ordine in parte compromesso. Un doppio filo che il regista segue rifacendosi al cinema americano degli anni 70, da Pakula (“Tutti gli uomini del presidente”) a Pollack ed al Coppola de “La conversazione” (nel ricorso ossessivo e morboso alle registrazioni telefoniche ), ma anche nella fredda precisione della ricostruzione storica a “La talpa” di Tomas Alfredson. Un intento lodevole, soprattutto per la capacità di quei modelli di coniugare spettacolo ed impegno, che però viene meno a causa di una sceneggiatura troppo debole (la forza della new Hollywood nasceva proprio dalla scrittura) sia nello sviluppo dell’intreccio, confusionario quando si tratta di mettere in fila i risultati dell’indagine portata avanti da una sorta di Serpico scandinavo, che in quello dedicato ai rapporti tra i vari protagonisti, risolti con un reiterata proposizione della condizione di odio-amore che le due giovani protagoniste nutrono nei confronti di quel lavoro e nelle conseguenti reazioni dei loro sfruttatori. In questo modo il film finisce per girare a vuoto con ripetizioni che tolgono spazio alla conoscenza degli altri personaggi, uno su tutti quello di Dagmar Glans, tenutaria sulla cui personalità il film fa solo degli accenni che poi non approfondisce. Le musiche d’epoca, i pantaloni a zampa d’elefante ed interpreti funzionali non riescono a compensare la delusione.
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