martedì, novembre 27, 2012

Siegel/Eastwood: due nel mirino (4)

Al 1979, anno della loro ultima collaborazione - "Fuga da Alcatraz"/"Escape from Alcatraz" (coproduzione Malpaso) - Siegel arriva dopo aver firmato un altro capolavoro noir "Chi ucciderà Charlie Varrick ?"/" Charlie Varrick", 1973, con un memorabile Walter Matthau. Quindi l'amaro, in tutti i sensi (fu l'ultimo film per John Wayne), "Il pistolero"/"The shootist", 1976 e una movimentata spy-story con Charles Bronson, "Telefon"/id., 1977. Mentre Eastwood, dopo avere esordito alla regia nel 1971 con "Brivido nella notte"/"Play Misty for me", in cui aveva regalato un piccolo cameo proprio a Siegel,
aveva portato a termine lavori di un certo peso che andavano consolidando la sua fama anche nell'ambito registico: "Lo straniero senza nome"/"High plains drifter", 1973, recitazione e regia; "Una calibro 20 per lo specialista"/"Thunderbolt and Lightfoot", 1974, di M. Cimino; "Il texano..."/"The outlaw Josey Wales", 1976, recitazione e regia e "L'uomo nel mirino"/"The gauntlet", 1977, recitazione e regia. "Fuga da Alcatraz" e' centrato sulla figura di Frank Morris/Eastwood, uomo dal solido passato criminale, noto alle autorità per aver portato a compimento diverse evasioni, "ricompensato", per così dire, con un
trasferimento alla prigione di massima sicurezza di Alcatraz (un'isoletta
accidentata nella baia di San Francisco), detta "The Rock", all'interno della quale, appena giunto, dopo essere stato "normalizzato" (denudato e visitato) e ridotto a numero da una delle innumerevoli procedure standard, quella dell'immatricolazione (l'altra, ossessionante, e' la "conta" ripetuta più volte al giorno), la prima cosa che si sente dire e', più o meno: "Da qui e'
impossibile fuggire". Morris non risponde e nell'imminenza di lasciare
l'ufficio del direttore Warden, autore del suddetto monito/minaccia (un
maligno Patrick Mc Goohan, attore inglese divenuto celebre per la serie televisiva
"Il prigioniero", 1967), sottrae, non visto, uno dei suoi tagliaunghie a lato
della scrivania. Evidentemente lui non e' dello stesso avviso.


Tratto dal romanzo di J. Campbell Bruce "Escape from Alcatraz: farewell to the Rock" e
sceneggiato da Richard Tuggle - che successivamente (1984) scriverà e dirigerà (Eastwood
attore) "Corda tesa" - l'opera che ricostruisce l'autentico tentativo di fuga (riuscito) del giugno del '62 che condusse alla chiusura del penitenziario,
rappresenta una lettura estrema e per certi versi una sintesi del "filone carcerario", pur fatti salvi tutti i suoi luoghi (il cortile, le docce, la biblioteca, la mensa, i laboratori), così come i suoi cliché (la divisione
per gruppi etnici; le gerarchie, con in testa il direttore spietato; i tipi
umani: il violento, l'inerme, il depresso et.). Reitera, inoltre, la scommessa di
Siegel di tratteggiare il carattere e lo spirito di un uomo "contro" - contro
il Sistema ma pure contro la rassegnazione e la spersonalizzazione che
un'istituzione particolare come quella del carcere finisce (molti dicono
scientemente) per infondere/imporre - nonché si distingue come uno dei suoi
più felici tentativi di coniugare la logica e la linearità del racconto con
l'asciuttezza spinta sin quasi all'astrazione della messa in scena. Si
vedano, ad esemplificazione di quanto detto, i primi dieci minuti di pellicola: buio,
vento, pioggia, facce dure e scavate. E lampi di luce, una sirena, il rumore
dei passi, lo sbattere dei cancelli. Una, due frasi. Campi lunghi e bruschi
primi piani. Nient'altro. Puro Siegel. Perché e' proprio questo che colpisce
del film e lo rende ancor oggi attuale: tutti i pochi - e prevedibili -
avvenimenti che si svolgono nella prigione (angherie e risse comprese) sono
di qui in poi mostrati con inquadrature rapide ma fluide o con stacchi frequenti
ma consequenziali, grazie anche ad un Eastwood perfettamente controllato nel
suo aplomb "granitico", come se avvenissero nella testa del detenuto Morris.
Come se, cioè, tutti i gesti, i movimenti, i dettagli, fossero utili per
essere catalogati e immagazzinati allo scopo di andarsi a collocare sulla scacchiera
che lui ha intenzione di allestire in vista dello "scacco matto" futuro. Per
tale motivo - se e' vero che e' di una partita a scacchi che stiamo parlando
e una partita a scacchi abbisogna innanzitutto di tempo - almeno tutta la prima
parte del film segue i progressi, le incertezze e i passi indietro del
"gioco" di Morris con una - sembrerebbe - insolita "lentezza" per Siegel, se essa non
fosse magistralmente funzionale al rigore geometrico della storia e
all'efficacia della struttura visiva, merito enorme della quale, ancora una
volta, va ascritto a Bruce Surtees, capace di giocare con la luce e di
distribuirla densa, corposa e allo stesso tempo nitidissima nei toni bruniti
e nelle gradazioni dell'azzurro. Secca e quasi tagliente nelle scene
all'aperto. Spessa, opprimente nei corridoi, nelle celle, nell'ufficio del direttore. In
equilibrio tra i due estremi nei laboratori, nelle docce, nella mensa. I tre
e passa anni impiegati da Morris/Eastwood e gli altri due galeotti (i fratelli
Anglin, interpretati da Jack Thibeau e Fred Ward) che decidono di
spalleggiarlo per arrischiare la mossa decisiva, scorrono davanti ai nostri occhi come un
lungo e accurato "ragionamento", come uno sforzo di concentrazione razionale
e una prova di fermezza di volontà (in antitesi anche allo svuotamento dal di
dentro della non-vita carceraria) che, nella ricercata economia di parole e
di gesti, si dimostrerà più solido della pietra della prigione, svelandone oltre
la sostanziale disumanità, la futile inadeguatezza, ossia l'inutilità senza
appello. Così, una volta che la "strategia di gioco" e' decisa, passare
all'azione e' questione di metodo e di riflessi, cosa che non richiede molto
tempo, anzi pretende rapidità e precisione. Coerentemente, Siegel, descrive
la fuga vera e propria di Morris e gli altri durante una delle tante notti
sempre uguali per chi e' recluso, in pochi minuti, con discrete e semplici riprese.
I tre, sistemati i manichini sulle brande, si avviano per cunicoli interni
guadagnati sbriciolando giorno dopo giorno i muri marci con attrezzi di
fortuna: superano un'inferriata che apre la via al soffitto, si calano,
scavalcano due recinzioni, gonfiano un improvvisato canotto, indossano
incerate impermeabili e nuotando spariscono nel buio. Poche inquadrature in tutto.
Fine. Morris sopravviverà ? Non lo sappiamo. Il film non lo dice. Ma non e' questo
il punto. Egli ha comunque vinto perché nei fatti più coriaceo, più "razionale"
dell'Autorita', dell'Istituzione (entità entrambe ritenute "razionali" per
definizione). Il fiore bianco trasportato dalla risacca ai piedi di un
frustrato direttore messosi personalmente a dirigere le ricerche nella baia,
e' il simbolo delicato e beffardo che Siegel indica a noi spettatori per dire -
apertura singolare in un cinema inquieto, impastato da sempre di pessimismo -
che all'uomo, a patto di non arrendersi, di rimanere lucido, non e' per forza
preclusa un'alternativa, una "liberazione".
di TheFisherKing

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