E la chiamano Estate
di Paolo Franchi
con JM Barr, Isabella Ferrari
Italia, 2012
Nelle opere di un autore esiste sempre un segno di riconoscibilità che le rende uniche e speciali. E' questo una sorta di lasciapassare in grado di spezzare il muro dell'indifferenza, ed ancora il catalizzatore che intercetta il segreto nascosto dietro il telaio immaginifico e visuale dell' invenzione filmica. L'intensità della sua evidenza è la discriminante che stabilisce la profondità con cui questo elemento si imprime nei tessuti subliminali, permettendogli di entrare in sintonia con il divenire della storia. Una caratteristica che non dipende dall'intensità dell'applicazione, e che un regista ancora giovane come Paolo Franchi dimostra di avere già acquisito, se è vero che anche il suo terzo film, "E la chiamano estate", è caratterizzato come i precedenti da un'assenza che produce dolore. Così accadeva al personaggio de "La spettatrice"(2004) che mutuava l'esistenza osservandola nelle vite degli altri, ed in maniera diversa ma analogamente sofferta, nel successivo "Nessuna qualità per gli eroi" (2007), selezionato per l'appunto da Marco Muller, dove la scoperta di non poter avere figli, e la proiezione di una realtà passata o inesistente, diventavano lo specchio di qualcosa che non c'era. Una tendenza che Paolo Franchi ripropone anche nel suo ultimo "E la chiamano estate", dove a mancare tra Dino ed Anna è il rapporto sessuale che l'uomo rifugge nonostante sia profondamente innamorato della donna. Dilaniato dal senso di colpa, Dino si accoppia in maniera spasmodica con amanti occasionali, e nello stesso tempo contatta gli ex compagni di Anna per convincerli a ritornare con lei. Un percorso autodistruttivo che indirizza la coppia verso un abisso d'infelicità che sarà pagata a caro prezzo.
Che Paolo Franchi fosse poco interessato a forme di narrazione di tipo realistico era cosa nota. In questo caso però compie un ulteriore passo in avanti nei territori di un cinema psicanalitico che oramai sembra appartenergli di diritto, immergendo i due protagonisti all'interno di una dimensione sospesa tra sogno e realtà. L'immagine che apre il film sulle note della canzone che da il titolo all'opera, con la telecamera a fissare il movimento ondulatorio dell'acqua su cui la luna si riflette, e subito dopo la sequenza in cui vediamo Dino ed Anna all'interno della loro camera da letto, con una luce bianca talmente abbacinante da sfumare i contorni delle pareti, sono significative. I personaggi vi appaiono sospesi in un'atmosfera in cui il tempo non esiste, e dove gli elementi ancestrali e psicanalitici si sprecano. E' questo un momento importante perché e' qui che Franchi definisce le coordinate del film. Da quel momento in poi ciò che vediamo è la proiezione di quei minuti iniziali, con il presente della storia composto da continui sbalzi temporali appena segnalati dall'uso dei diversi formati di ripresa (fotografie, cellulare, camera digitale) e con una ricognizione sui personaggi in cui il processo di conoscenza si trasforma in una regressione ad occhi aperti, con ritmi e reiterazioni - di alcune sequenze, ma soprattutto delle parole della lettera con cui Dino si congeda da Anna - giustificati dalla consapevolezza che "E la chiamano estate" è innanzitutto un viaggio interiore alle radici di un dolore che nel mondo di Paolo Franchi sembra parte ineluttabile dell'esperienza umana. Autore senza compromessi, il regista è sempre coraggioso nelle sue scelte ma in questo caso a non funzionare non è tanto l'impianto formale, efficace anche se a rischio di maniera, ne il fatto che la sessualità del film appaia senza sostanza, privata della sua carnalità, perché la spiegazione potrebbe risiedere proprio nei motivi che abbiamo cercato di spiegare. Ad inceppare il meccanismo è invece una scrittura che toglie forza alle immagini, e che in molti passaggi si fa portatrice di ovvietà talmente scontate da suscitare la comicità involontaria . E' come se Franchi si trovasse a disagio con le parole e con la quotidiana più prosaica, quella che deve restare con i piedi per terra, e non deve essere certo un caso che il suo film migliore sia stato "La spettatrice" che di proprio delle parole riusciva fare a meno. Accolto con fischi e lazzi nella proiezione stampa "E la chiamano estate" è stato contestato anche nella conferenza post visione, con il regista laconico ed evidentemente disinteressato alle reazioni della platea. Il giudizio di chi scrive si posiziona in mezzo ai contendenti ritenendo che quello di Franchi sia un'opera incompleta ma non l'emblema della crisi del cinema italiano, a cui peraltro le opere di Franchi sembrano quasi non appartenere.
(ondacinema/speciale festival di Roma)
di Paolo Franchi
con JM Barr, Isabella Ferrari
Italia, 2012
Nelle opere di un autore esiste sempre un segno di riconoscibilità che le rende uniche e speciali. E' questo una sorta di lasciapassare in grado di spezzare il muro dell'indifferenza, ed ancora il catalizzatore che intercetta il segreto nascosto dietro il telaio immaginifico e visuale dell' invenzione filmica. L'intensità della sua evidenza è la discriminante che stabilisce la profondità con cui questo elemento si imprime nei tessuti subliminali, permettendogli di entrare in sintonia con il divenire della storia. Una caratteristica che non dipende dall'intensità dell'applicazione, e che un regista ancora giovane come Paolo Franchi dimostra di avere già acquisito, se è vero che anche il suo terzo film, "E la chiamano estate", è caratterizzato come i precedenti da un'assenza che produce dolore. Così accadeva al personaggio de "La spettatrice"(2004) che mutuava l'esistenza osservandola nelle vite degli altri, ed in maniera diversa ma analogamente sofferta, nel successivo "Nessuna qualità per gli eroi" (2007), selezionato per l'appunto da Marco Muller, dove la scoperta di non poter avere figli, e la proiezione di una realtà passata o inesistente, diventavano lo specchio di qualcosa che non c'era. Una tendenza che Paolo Franchi ripropone anche nel suo ultimo "E la chiamano estate", dove a mancare tra Dino ed Anna è il rapporto sessuale che l'uomo rifugge nonostante sia profondamente innamorato della donna. Dilaniato dal senso di colpa, Dino si accoppia in maniera spasmodica con amanti occasionali, e nello stesso tempo contatta gli ex compagni di Anna per convincerli a ritornare con lei. Un percorso autodistruttivo che indirizza la coppia verso un abisso d'infelicità che sarà pagata a caro prezzo.
Che Paolo Franchi fosse poco interessato a forme di narrazione di tipo realistico era cosa nota. In questo caso però compie un ulteriore passo in avanti nei territori di un cinema psicanalitico che oramai sembra appartenergli di diritto, immergendo i due protagonisti all'interno di una dimensione sospesa tra sogno e realtà. L'immagine che apre il film sulle note della canzone che da il titolo all'opera, con la telecamera a fissare il movimento ondulatorio dell'acqua su cui la luna si riflette, e subito dopo la sequenza in cui vediamo Dino ed Anna all'interno della loro camera da letto, con una luce bianca talmente abbacinante da sfumare i contorni delle pareti, sono significative. I personaggi vi appaiono sospesi in un'atmosfera in cui il tempo non esiste, e dove gli elementi ancestrali e psicanalitici si sprecano. E' questo un momento importante perché e' qui che Franchi definisce le coordinate del film. Da quel momento in poi ciò che vediamo è la proiezione di quei minuti iniziali, con il presente della storia composto da continui sbalzi temporali appena segnalati dall'uso dei diversi formati di ripresa (fotografie, cellulare, camera digitale) e con una ricognizione sui personaggi in cui il processo di conoscenza si trasforma in una regressione ad occhi aperti, con ritmi e reiterazioni - di alcune sequenze, ma soprattutto delle parole della lettera con cui Dino si congeda da Anna - giustificati dalla consapevolezza che "E la chiamano estate" è innanzitutto un viaggio interiore alle radici di un dolore che nel mondo di Paolo Franchi sembra parte ineluttabile dell'esperienza umana. Autore senza compromessi, il regista è sempre coraggioso nelle sue scelte ma in questo caso a non funzionare non è tanto l'impianto formale, efficace anche se a rischio di maniera, ne il fatto che la sessualità del film appaia senza sostanza, privata della sua carnalità, perché la spiegazione potrebbe risiedere proprio nei motivi che abbiamo cercato di spiegare. Ad inceppare il meccanismo è invece una scrittura che toglie forza alle immagini, e che in molti passaggi si fa portatrice di ovvietà talmente scontate da suscitare la comicità involontaria . E' come se Franchi si trovasse a disagio con le parole e con la quotidiana più prosaica, quella che deve restare con i piedi per terra, e non deve essere certo un caso che il suo film migliore sia stato "La spettatrice" che di proprio delle parole riusciva fare a meno. Accolto con fischi e lazzi nella proiezione stampa "E la chiamano estate" è stato contestato anche nella conferenza post visione, con il regista laconico ed evidentemente disinteressato alle reazioni della platea. Il giudizio di chi scrive si posiziona in mezzo ai contendenti ritenendo che quello di Franchi sia un'opera incompleta ma non l'emblema della crisi del cinema italiano, a cui peraltro le opere di Franchi sembrano quasi non appartenere.
(ondacinema/speciale festival di Roma)
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