Skyfall
di Sam Mendes (Usa/Gran Bretagna 2012)
con Daniel Craig e Javier Bardem
Di esperimenti come questo il cinema mainstream ne aveva già fatti, ma gli esiti erano stati ben al di sotto delle aspettative. I tentativi di rinnovare quel cinema con innesti di tipo autoriale non aveva mai soddisfatto le aspettative producendo operazioni spurie sia a livello commerciale che artistico. In questo caso poi si trattava di mettere le mani su un oggetto di culto che coinvolgeva la tradizione ed il mito. James Bond infatti nel corso degli anni era rimasto sempre identico a se stesso, con l’unica variante rappresentata dalle investiture che per motivi di anagrafe aveva alternato alla corte dei servizi segreti di sua maestà una schiera di attori le cui differenze fisiognomiche erano state sempre compensate da un identico fascino ed abilità professionale. Fino a “Skyfall” appunto che invece segna una cesura sotto il profilo della continuità, con un ritorno alle origini capace di portare alla luce aspetti nascosti della personalità dell’eroe, ed anche nel tono generale della storia, non più sbarazzino e leggero ma dominato da un senso di precarietà che si attaglia perfettamente allo spirito del tempo.
Ma andiamo con ordine e diciamo subito che “Skyfall” non fa mancare al pubblico il cotè di avventura e romanticismo a cui la serie aveva abituato: basta vedere la scena iniziale da subito adreanalinica e funambolica come si addice a tutti gli inizi del cinema d’azione più recente. Uno scatto repentino confezionato per ipotecare l’attenzione dell’ assemblea, seguito a brevi mano dai soliti risvolti romanzeschi, con morti organizzate a premessa di spettacolari resurrezioni, notti d’amore con donne belle ma letali, e cigliegina sulla torta un cattivo da fermare a tutti costi. Insomma la solita routine ben confezionata che però non varrebbe il prezzo del biglietto se non ci fosse dell’altro. Il quid in più che cambia le carte in tavola è rappresentato appunto dalla presenza di due personalità del cinema d’autore come Sam Mendes, già autore di film come “American Beauty” e “Revolutionary Road”, e Roger Deakins il fotografo da Oscar che tra gli altri ha illuminato buona parte delle ultime opere dei fratelli Cohen. Due pesi massimi al servizio di una sceneggiatura (originale) che decide di rischiare mettendo in primo piano il trascorrere del tempo ed esistenze in chiaro scuro. Il James Bond di Sam Mendes è un uomo usurato dal mestiere e forse in debito di fiducia verso il sistema che ha servito con cieca fedeltà. Accanto a lui non gli sono da meno altre pietre miliari della saga come M, il boss dell'azienda costretta a difendersi dai superiori che la vorrebbero già in pensione, al mitico M16 più volte additato nel corso del film come vecchio e superato, e di fatto fisicamente tolto di mezzo da un attentato che rade al suolo l’edificio in cui era ubicato; neanche gli approvvigionamenti sono più gli stessi se al posto degli stravaganti ma efficacissime armi segrete ci sono solamente una pistola ed una radio trasmittente. Insomma tutto è cambiato, come dice Q, anche lui trasformato in un nerd giovanissmo ed altamente informatizzato, a James Bond. Se la tastiera di un computer è più efficace di una squadra di uomini super addestrati a Bond ed i suoi amici non rimane altro che ritirarsi dalla mischia. Un dilemma questo che insieme ai cambiamenti epocali di cui il protagonista è vittima, ed insieme testimone, sono messi in scena da Mendes senza perdere di vista gli equilibri del film che deve comunque conservare le proprie caratteristiche naturali. Per far questo il regista lavora sulla messa in scena, riuscendo a trasportare il senso di alienazione e di perdità nella resa visuale della fotografia che disegna con un cromatismo instabile e magmatico uno scenario oscuro e straniante, che raggiunge il suo apice nella sequenza del grattacielo dove la sfida tra bene e male assomiglia ad un sogno ad occhi aperti, gioco di ombre psichedelico da cui nessuno sembra uscire vincitore. Oppure lavorando sulla recitazione degli attori, estroversa e disturbante quella del cattivo Bardem, di sottrazione e tutta interna quella dell'ombroso Craig. E poi organizzando la resa dei conti tra fuochi notturni ed i cieli stellati della landa scozzese dove si immagina ubicata Skyfall, la residenza ormai dismessa della famiglia Bond. E' tra le brume di quella natura ed i fumi della polvere da sparo che si consuma la rifondazione Bondiana, in cui la dimora familiare destinata a saltare in aria insieme ai ricordi del tempo passato è quanto di più efficace si possa pensare per eliminare gli ultimi rimasugli (anche edipici se è vero che ad un certo punto M sembra assumere una valenza materna nei confronti dell'orfano James Bond) di un trascorso ormai andato. Da vedere anche per chi non è un fan di questo cinema.
di Sam Mendes (Usa/Gran Bretagna 2012)
con Daniel Craig e Javier Bardem
Di esperimenti come questo il cinema mainstream ne aveva già fatti, ma gli esiti erano stati ben al di sotto delle aspettative. I tentativi di rinnovare quel cinema con innesti di tipo autoriale non aveva mai soddisfatto le aspettative producendo operazioni spurie sia a livello commerciale che artistico. In questo caso poi si trattava di mettere le mani su un oggetto di culto che coinvolgeva la tradizione ed il mito. James Bond infatti nel corso degli anni era rimasto sempre identico a se stesso, con l’unica variante rappresentata dalle investiture che per motivi di anagrafe aveva alternato alla corte dei servizi segreti di sua maestà una schiera di attori le cui differenze fisiognomiche erano state sempre compensate da un identico fascino ed abilità professionale. Fino a “Skyfall” appunto che invece segna una cesura sotto il profilo della continuità, con un ritorno alle origini capace di portare alla luce aspetti nascosti della personalità dell’eroe, ed anche nel tono generale della storia, non più sbarazzino e leggero ma dominato da un senso di precarietà che si attaglia perfettamente allo spirito del tempo.
Ma andiamo con ordine e diciamo subito che “Skyfall” non fa mancare al pubblico il cotè di avventura e romanticismo a cui la serie aveva abituato: basta vedere la scena iniziale da subito adreanalinica e funambolica come si addice a tutti gli inizi del cinema d’azione più recente. Uno scatto repentino confezionato per ipotecare l’attenzione dell’ assemblea, seguito a brevi mano dai soliti risvolti romanzeschi, con morti organizzate a premessa di spettacolari resurrezioni, notti d’amore con donne belle ma letali, e cigliegina sulla torta un cattivo da fermare a tutti costi. Insomma la solita routine ben confezionata che però non varrebbe il prezzo del biglietto se non ci fosse dell’altro. Il quid in più che cambia le carte in tavola è rappresentato appunto dalla presenza di due personalità del cinema d’autore come Sam Mendes, già autore di film come “American Beauty” e “Revolutionary Road”, e Roger Deakins il fotografo da Oscar che tra gli altri ha illuminato buona parte delle ultime opere dei fratelli Cohen. Due pesi massimi al servizio di una sceneggiatura (originale) che decide di rischiare mettendo in primo piano il trascorrere del tempo ed esistenze in chiaro scuro. Il James Bond di Sam Mendes è un uomo usurato dal mestiere e forse in debito di fiducia verso il sistema che ha servito con cieca fedeltà. Accanto a lui non gli sono da meno altre pietre miliari della saga come M, il boss dell'azienda costretta a difendersi dai superiori che la vorrebbero già in pensione, al mitico M16 più volte additato nel corso del film come vecchio e superato, e di fatto fisicamente tolto di mezzo da un attentato che rade al suolo l’edificio in cui era ubicato; neanche gli approvvigionamenti sono più gli stessi se al posto degli stravaganti ma efficacissime armi segrete ci sono solamente una pistola ed una radio trasmittente. Insomma tutto è cambiato, come dice Q, anche lui trasformato in un nerd giovanissmo ed altamente informatizzato, a James Bond. Se la tastiera di un computer è più efficace di una squadra di uomini super addestrati a Bond ed i suoi amici non rimane altro che ritirarsi dalla mischia. Un dilemma questo che insieme ai cambiamenti epocali di cui il protagonista è vittima, ed insieme testimone, sono messi in scena da Mendes senza perdere di vista gli equilibri del film che deve comunque conservare le proprie caratteristiche naturali. Per far questo il regista lavora sulla messa in scena, riuscendo a trasportare il senso di alienazione e di perdità nella resa visuale della fotografia che disegna con un cromatismo instabile e magmatico uno scenario oscuro e straniante, che raggiunge il suo apice nella sequenza del grattacielo dove la sfida tra bene e male assomiglia ad un sogno ad occhi aperti, gioco di ombre psichedelico da cui nessuno sembra uscire vincitore. Oppure lavorando sulla recitazione degli attori, estroversa e disturbante quella del cattivo Bardem, di sottrazione e tutta interna quella dell'ombroso Craig. E poi organizzando la resa dei conti tra fuochi notturni ed i cieli stellati della landa scozzese dove si immagina ubicata Skyfall, la residenza ormai dismessa della famiglia Bond. E' tra le brume di quella natura ed i fumi della polvere da sparo che si consuma la rifondazione Bondiana, in cui la dimora familiare destinata a saltare in aria insieme ai ricordi del tempo passato è quanto di più efficace si possa pensare per eliminare gli ultimi rimasugli (anche edipici se è vero che ad un certo punto M sembra assumere una valenza materna nei confronti dell'orfano James Bond) di un trascorso ormai andato. Da vedere anche per chi non è un fan di questo cinema.
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