martedì, agosto 13, 2013
Film Telecomandati: FANDANGO
"Fandango"/id.
di: K. Reynolds.
con: K. Costner, J. Nelson, S. Robards, C. Bush, B. Cesak, S. Amis.
- USA 1985 -
90 min
Il Vietnam - la sua istanza di morte prematura, il presentarsi come cesura inattesa dei sogni della giovinezza - e' uno di quei conti che non torna mai. Tantomeno al cinema che, pur aggredendolo da ogni parte (anzi, forse, proprio per questo), non ha fatto che esaltarne l'irriducibile contraddizione nei modi di un racconto tanto circostanziato (ipercritico, filologico, documentaristico, ribellistico-reducista, allegorico, melodrammatico, intimista, trash), volto cioè, comunque, alla comprensione in vista di un ipotetico superamento o efficace rimozione, quanto, nei fatti, edificatore di una "persistenza della memoria" che ha finito per stratificare nell'immaginario collettivo fino ad incistarlo il conflitto nel sud-est asiatico come metafora stessa oltreché della moderna "sporca guerra", della fine di una stagione della vita. In questo generosissimo e problematico solco, già sul crinale del rimpianto e con semenze di commedia agro-dolce, si colloca anche "Fandango", opera prima di K. Reynolds, datata 1985, messa in cantiere sotto l'egida robusta e complice di Spielberg e, come sovente accade a quelle latitudini, frutto maturo della dilatazione di un'idea germinata ai tempi del college.
Siamo ad Austin, Texas, nel 1971. Più precisamente, siamo in quel vacuum molto americano, senza coordinate psicologiche precise, tra la fine della colonia protetta della carriera scolastica e il mare aperto dell'esistenza, sulla cui pretesa di meraviglia e sulle cui ambizioni s'infrange, abbattendole in parte, la prima ondata di "realtà" nella forma della chiamata alle armi verso le giungle indocinesi. Una sveglia, verrebbe da dire... Allora non resta che mollare tutto (altro atout tipicamente americano), fidanzata/promessa sposa compresa, radunare gli amici e partire. Partire per scappare. Per farsi un'idea. Magari per fare il punto della (propria) situazione. Una scusa vale l'altra (anche se, alla fine, spesso, si scopre che non sono scuse). Non peggiore di tante e' quella di puntare verso il Messico per trovare e disseppellire il "vecchio Dom" (che si scoprirà essere un bottiglione di Dom Perignon), messo sotto terra anni prima, quando del futuro ci si poteva prender gioco semplicemente perché "futuro" era solo una parola e bastava l'incoscienza e l'allegria a toglierla dai piedi. Ora e' già tempo di scimmiottare ciò che il futuro e' venuto a riprendersi, ingaggiando uno scontro a colpi di petardi dentro un cimitero perso nel nulla, e di cominciare a pensare alla morte e a come tutto sul serio finisca, passeggiando attoniti tra i resti di un set in rovina ("Il gigante" di Stevens).
Reynolds ripropone molti archetipi fondativi dell'inconscio a stelle e strisce - la giovinezza, l'amicizia, l'iniziazione alla violenza, il viaggio come strumento di liberazione e conoscenza, la rinuncia come approdo all'età adulta - aderendovi con occhio partecipe (era poco più che trentenne all'epoca) ma come già rammaricato, offuscato da un velo di tristezza e frustrazione, non lontano dallo sguardo altrettanto affettuoso quanto lucido del Lucas di "American graffiti" (1973) o dalla virile disillusione del Milius di "Big Wednsday" (1978), e solo un attimo prima che il panorama deflagri, come, ad esempio, nell'"Electra glide" di Guercio (1973): tutte esperienze queste non a caso sotterraneamente insidiate dalla prospettiva vietnamita, potenziale, imminente o già in parte metabolizzata a forza e rigettata. Goliardia, irrequietezza, avventura e sentimento s'intrecciano così in un andirivieni fatto d'improvvise e quasi nervose esplosioni di vitalità (scherzi, nonsense, sfide estreme), di riflessioni oramai non più derogabili o riducibili a riti di passaggio (quale valore dare a se stessi; il sacrificio di un amore non più recuperabile: la fuga come scommessa su una vita nuova), ogni cosa moltiplicata alla "n" nel contesto stupefacente, naturalmente lisergico, "letterario" della wilderness americana con tutti i suoi luoghi più o meno comuni (il deserto; le highways; la fauna stramba; i motel e le pompe di benzina; i villaggi di quattro case; i fiumiciattoli; i canyons), entro cui poter, legittimamente, inscrivere il proprio inno ad imperitura memoria, tipo dichiarazione d'intenti o - chissà - malinconica epigrafe: "A noi, perdio ! A noi, a Dom e ai privilegi della gioventù ! A quello che siamo e a quello che eravamo. E a quello che saremo".
Impossibile tacere su una colonna sonora strepitosa che riesce ad inanellare - tra tanti - "Born to be wild" (Steppenwolf); "It's too late" (C. King); "Badge" (Cream); "It's for you" (P. Metheny group); "Can't find my way home" (Blind Faith) e "Saturday night's alright for fighting" (E. John) che apre le danze su immagini serratissime della Cadillac della banda lanciata sull'asfalto sabbioso, quasi un videoclip a parte. Da ricordare ancora - ma per il tenore opposto - la scena del ballo finale, romantica e struggente, che rimanda al titolo del film e vede impegnati un ancor di belle speranze Costner (poche e interlocutorie le esperienze fin li' accumulate) e l'incantevole Suzy Amis (per un certo periodo moglie di Sam Robards), circonfusi da un alone di morbida luce preserale e dal ritmo alterno delle note andaluse.
("Fandango", mercoledì 14/08, IRIS, ore 21 ca.)
TFK
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