venerdì, novembre 22, 2013
IL TOCCO DEL PECCATO
"Il tocco del peccato"/"Tian zhu ding"/"
di: Jia Zhang-ke
con: Wu Jiang, Vivien Li, Lanshan Luo, Zhao Tao
- Cin/Gia 2013 -
Drammatico - 135 min
Se cupidigia, indifferenza, crudeltà sono afflizioni tipiche di una patologia che va cronicizzandosi in specie nelle società cosiddette "affluenti", allora la Cina contemporanea rappresenta - con i contrasti e le lacerazioni derivanti da un rigoglio economico in grado di condensare in un paio di decenni percorsi di sviluppo altrove miseramente abortiti o richiedenti generazioni intere - il laboratorio privilegiato per tenere sotto osservazione tali epifanie e cominciare ad interrogarsi sulle prospettive e i limiti di un modello che, paradossalmente, moltiplicando le possibilità materiali dei singoli comincia ad eroderne, nei termini di un angosciante e beffardo contrappasso, i presupposti stessi - comunità, convivenza, identità, benessere interiore - del loro stare al mondo.
Questo e' in gran parte ciò che emerge da un film teso e dolente quanto spietato nella sua concretezza, come "Il tocco del peccato" del poco più che quarantenne Jia Zhang-ke - miglior sceneggiatura a Cannes quest'anno, ancora co-prodotto dalla Office Kitano - affacciatosi in Occidente qualche stagione fa con il disadorno "Still life" (Leone d'oro a Venezia). La narrazione si sviluppa lungo i binari di quattro vicende - tratte dalla cronaca - che si sfiorano ma non s'incrociano mai ma che, allo stesso tempo, sono indissolubilmente legate dal clima esistenziale che le permea: un disagio interiore che si aggruma fino ad esplodere a contatto con l'inerzia silenziosa e impassibile dell'onnipresente "mercato" e delle sue "necessita'". La mediazione di ogni relazione umana - cosa che in Occidente e' da considerarsi oramai un dato metabolizzato anche nella sfera della psiche - attraverso il "gioco" neutro e impietoso del denaro, conduce senza possibilità di errore e con molto aleatori margini di redenzione, nel vicolo cieco e oscuro della violenza. Violenza senza mediazione, quasi senza coinvolgimento: quindi irriflessa, repentina, efferata.
Le considerazioni mosse da Zhang-ke nascono dalla consapevolezza di una contraddizione di base che nel paese asiatico emerge sin dal paesaggio: grattacieli filiformi di un colore grigio smorto si rincorrono su direttrici multiple e casuali a fagocitare un territorio rurale millenario - ridisegnato, per un verso, dai fianchi delle montagne sventrate per fare posto a sinuose arterie stradali; dall'altro, dall'irregimentazione forzosa del corso dei grandi fiumi - con l'ovvia conseguenza di una discrepanza di forme, di spazi, di prospettive, talmente contundente da rasentare un astrattismo strampalato ed ostile. Identica logica replicata su scala esponenziale si acconcia alle strutture urbane, cresciute su se stesse, senza posa, come superfetazioni soffocanti e importune. All'interno di tali percorsi "guidati", tentacolari, spersonalizzanti, con una loro nascosta, indefinibile (viste le proporzioni), quanto pervasiva violenza, l'animale umano si aggira ansioso e come braccato da una cieca ineluttabilità al Male, vaga eppure persistente. Tali elementi, associati a plumbei cieli invernali, a coltri di brume stagnanti miste alle particelle velenose delle attività industriali, al lucore freddo che avvolge le stamberghe dei villaggi accalcati sulle rive dei corsi d'acqua, e spinti a forza nella centrifuga del denaro, decuplicano il loro attrito fino a disintegrarsi. Ed e' proprio così che le vite di uomini e donne si sbriciolano cedendo, tra caso e inevitabilità, all'odore del sangue: antichi rapporti di forza nella dialettica di una "lotta di classe" ridotta a stanca aneddotica post-prandiale, s'azzerano nella semplice e sterile eliminazione fisica dei simboli (più occidentali dell'Occidente) dell'arroganza, della corruzione e della prevaricazione consumistica; una "nausea" indistinta ma tenace ("Solo quando sparo non mi annoio") si alimenta e temporaneamente si placa ripiombando nell'atonia, in una rapina e in un duplice omicidio gratuito; il desiderio di un rapporto autentico affonda nel disinganno e innesca fra gli equivoci un parossismo brutale e stupefatto; l'ingenuità frustrata e l'assedio del denaro come via di fuga spezzano da dentro le resistenze della giovinezza e dell'ingenuità e rendono impraticabile ogni alternativa che non sia quella estrema che conduce ad uno schianto.
La Cina - dice Jia Zhang-ke - e' oggi un tormento muto che scava dentro un più generale immenso lavorio, sempre più frenetico, sempre più avido, sempre meno umano. La rigidità sociale, la compartimentazione dei ceti, perno del suo "Celeste" Impero, declinate nei giorni del denaro e del profitto purchessia, ratificano una sorta di perversa "legge naturale", un altro "peccato" originale, nelle forme della rinascita della condizione semi-schiavile e soprattutto dell'emarginazione individuale (fisica, psicologica, emotiva), fenomeni che nella compostezza e nel fatalismo al limite della rassegnazione icasticamente cinese, assumono contorni perversi, raggelanti, che chissà se la coscienza moderna ha ancora la capacita' e la voglia di riconoscere e affrontare.
TFK
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3 commenti:
La struttura narrativa frammentata diluisce la tensione e la grammatica emozionale. L'umanesimo del regista ne è il qualche modo ammorbidito. La durezza della storia un po smorzata dalla ricerca estetica. Un pò forzato parlare di Tarantino cinese come si legge in qualche titolo di giornale
Gran film, memorabili le metafore del mondo animale (quasi ogni personaggio è associato a un animale-totem: tigre, serpente, uccello...). Una curiosità sul titolo, ho letto che "Touch of sin" è un omaggio al classico "Touch of zen" di King Hu.
Film all'apparenza discontinuo - qua e la' s'avvertono cali di tensione, dovuti, a parer mio, in buona parte ad un "passo" verbale e gestuale lontano (per quanto ancora ?) dal "botta e risposta" ossessivo a cui siamo avvezzi - ma durissimo nella sostanza. La riflessione di Zhang-ke e' lucida e impietosa: la Cina sta assumendo con rapidità sorprendente le fattezze di uno specchio in cui si fa sempre più fatica a riconoscersi (o in cui ci si riconosce fin troppo). L'esito e' che si resta attoniti (vd. finale). Confermo l'osservazione di Chris sul titolo.
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