Locke
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.
La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.
La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
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