di David Cronenberg
con Julian Moore, Mia Wasikowska, Robert Pattison, John Cusak, Evan Bird
Stati Uniti d'America, Canada, Francia, Germania
genere, drammatico
durata, 95'
PRO
Cronenberg porta in scena una trama complicata e disvelata in una sceneggiatura senza picchi poetici, volutamente inserita nella diegesi di un mondo, quello delle stelle hollywoodiane, che paradossalmente tutto fa, tranne che brillare nelle rispettive dimensioni private dei personaggi (a sottolineare il tutto una fotografia da tipico immaginario del mondo VIP losangelino ). Nel suo nuovo percorso sperimentale, l’autore riprende in parte il discorso cominciato con Cosmopolis, e lo relega alle bassezze di uomini drogati dallo spettacolo, accentuando all’estremo le psicosi dei personaggi, che trovano il martoriamento più grande nel ritorno, inevitabile, dei fantasmi del passato, tra allucinazioni e realtà che decostruiscono l’impero mentale di ognuno. Il fuoco diventa l’elemento archetipico che muove la narrazione, tatuato attraverso le ustioni sul corpo di Agatha Weiss, personaggio più ansiogeno, inquietante e Cronenbergiano della pellicola.
Benjamin è un attore/bimbo prodigio di successo, il padre è uno psicologo/chiropratico che ha in cura un’attrice in cerca di successo, che a sua volta prenderà a lavorare come propria inserviente una ragazza sfregiata da orribili ustioni; quest’ultima si innamorerà di un autista di limousine, in realtà aspirante attore (interpretato da Robert Pattinson, quasi ormai attore feticcio del regista de “Il pasto nudo”).
Cronenberg porta in scena una trama complicata e disvelata in una sceneggiatura senza picchi poetici, volutamente inserita nella diegesi di un mondo, quello delle stelle hollywoodiane, che paradossalmente tutto fa, tranne che brillare nelle rispettive dimensioni private dei personaggi (a sottolineare il tutto una fotografia da tipico immaginario del mondo VIP losangelino ). Nel suo nuovo percorso sperimentale, l’autore riprende in parte il discorso cominciato con Cosmopolis, e lo relega alle bassezze di uomini drogati dallo spettacolo, accentuando all’estremo le psicosi dei personaggi, che trovano il martoriamento più grande nel ritorno, inevitabile, dei fantasmi del passato, tra allucinazioni e realtà che decostruiscono l’impero mentale di ognuno. Il fuoco diventa l’elemento archetipico che muove la narrazione, tatuato attraverso le ustioni sul corpo di Agatha Weiss, personaggio più ansiogeno, inquietante e Cronenbergiano della pellicola.
David Cronenberg è tra i pochi autori che, dopo una filmografia che ha regalato tanti capolavori (abbiamo citato prima “Naked lunch”), non si ferma e continua a sperimentare (similmente a Martin Scorsese, che ha spaccato la critica in due col recente “The wolf of wall street”), muovendo, in questo caso, burattini nel teatro microcosmico che è Hollywood. E se tutto questo per gli amanti del suo vecchio cinema può risultare un’operazione ectoplasmatica di un artista grande solo in passato, o peggio un’altra inutile invettiva contro il fallimento del sogno americano, Maps to the stars in realtà reinventa le cifre stilistiche di un sofista della cinematografia che, in questo caso, se non ha centrato il capolavoro, lo ha quantomeno sfiorato.
Antonio Romagnoli
Antonio Romagnoli
CONTRO
Hollywood brucia
e con lei quello che resta del sogno americano. Una favola nera che il
cinema è abituata a raccontarsi per esorcizzare i fantasmi di una crisi
che gli appartiene ancora prima di quella che ha colpito il resto del
mondo. Annunciata dai guru della comunicazione, la morte della
settima arte è diventata, alla pari di altre storie, materia di
spettacolo, venendo meno alla sua carica eversiva. A ricordarcelo ci
aveva pensato non più di un anno fa Seth Rogen che, nel blockbuster
"Facciamola finita" trasformava la mecca del cinema in una Sodoma e
Gomorra tutta da ridere, con attori e registi spazzati via per eccesso
di egoismo. Questo per dire di un eversione talmente frequentata da
diventare normale, e di una trama- quella di "Maps to the Stars"
incentrata su una famiglia votata al Dio spettacolo - simile a quelle
che l'hanno preceduta, con vizi privati e pubbliche virtù mostrati allo
spettatore in un trionfo di grettezza e scabrosità. A fare la differenza
nel film di Cronenberg non è quindi la novità dell'escursione
antropologica, ne tantomeno il carosello di deviazioni che testimoniano
il prezzo da pagare ai meccanismi dell'industria cinematografica; come
dimostra in maniera agghiaggiante la visita alla bambina malata da parte
di Benjie Weiss (un inquietante Evan Bird, autentica rivelazione), baby star affetto da problemi di tossicodipendenza, oppure, tornado al mondo degli adulti, l'atteggiamento di Havana Segrand (interpretata da una Julian Moore disperata e schizofrenica almeno quanto la Cate Blanchett di "Blue Jasmine"),
diva sul viale del tramonto che senza remore, e con molto cinismo, trae
vantaggio delle disgrazie altrui. A essere impareggiabile è invece la
dimensione di straniamento, e poi il distacco con cui il regista
canadese si rivolge ai personaggi.
Sospendendo
il giudizio e operando da entomologo, Cronenberg mette in scena un
teatro dell'assurdo, popolato da creature grottesce e inermi, destinate
per natura all'autodistruzione. Macerie di umanità in cui ritroviamo
intatta la poetica dall'autore, a incominciare dalla virulenza del corpo
fisico, presente nel film attraverso il peccato originale che il
personaggio di Agatha Weiss (Mia Wasikowska) si porta dietro fin dalla
nascità, e che non a caso entra in campo in occasione della morte del
bambino della collega di Havana, vittima innocente di una contaminazione
che da li in poi non risparmierà nessuno. E poi nell'assoluta alterità
delle dinamiche relazionali, deformate dal ghigno perverso e obbliquo
del regista, pronto a giocare con perbenismo e buone maniere,
sbeffeggiate da sequenze come quella della conversazione "escatologica"
tra Benjie e il suo amichetto, e dalla scena di Havana intenta a dare ordini alla sua assistente dal water su cui sta defecando. Un gran guignol di
sangue e dissolutezze, raffreddato dall'equilibrio geometrico di
inquadrature che trasformano le pulsioni della carne in sinapsi
cerebrali.
Dopo gli
esperimenti metalinguistici di "Cosmopolis" Cronenberg torna sulla terra
sporcandosi le mani con un copione volutamente "basso", in cui
situazioni e dialoghi (da soap opera) dovrebbero essere il propulsore
per una visione decante dell'esistenza umana. Lungi da essere un'opera
compiuta "Maps to the Stars" sembra più il frutto di un cambiamento
ancora in corso, e di una ricerca di alternative in via di definizione.
Lo si intuisce dalla risposta dell'autista, interpretato da Robert
Pattison che, alla domanda di Havana sui particolari della sua vita
sessuale, si disimpegna con un'affermazione - "sto sperimentando" - che
sembra il manifesto programmatico di un autore impegnato a riformulare
il suo cinema.
nickoftime
nickoftime
Nessun commento:
Posta un commento