mercoledì, maggio 21, 2014

A PROPOSITO DI GODZILLA



Compulsando manuali di criptozoologia e' naturale imbattersi in creature il cui fascino e' riconducibile di gran lunga più alla loro aura semi-leggendaria, alla stranezza ibrida delle forme, ad una qual inconfessabile attrattiva teratologica, che alla plausibilità scientifica delle rispettive esistenze. Non si spiegherebbe altrimenti il permanere sistematico - per quanto laterale - della presenza di tali "fenomeni" all'interno delle tradizioni delle Culture più diverse, nonche', parallelamente, il loro insistere nell'affacciarsi dai rivoli più dimenticati della clessidra del Tempo. A tanto sfoggio d'immaginario - che e' anche, se non soprattutto, come accennato, un pungolo dispettoso del desiderio - non si sottrae l'universo xenomorfo che si affianca alla più "familiare" figura della oramai sessantenne super lucertola/drago Godzilla (Gojira) nella recente versione proposta da Gareth Edwards, finendo addirittura per rappresentare - a conti fatti - il principale, se non unico, motivo d'interesse e parziale epifania dell'opera.


Nel caso, siamo dalle parti di protoblatte in livrea grigio-piombo e a dieta radioattiva. Meno prestante, l'esemplare maschio sopperisce alla stazza con lo slancio d'immense ali membranose (tra il pipistrello e il corpo-rombo della pastinaca) atte a voli radenti o a picchiate verticali. Sul terreno, zampe lunghissime ed esili costringono ad un'andatura sgraziata da artropode ingobbito/fiaccato dal combinato disposto delle proprie dimensioni a contatto con un elemento incongruo (gli spazi metropolitani), svantaggio sottolineato da strepiti acuti intercalati da scansioni gutturali simil contatore geiger. Di pari fantasiosa contaminazione, le estremità: teste piatte e appuntite, rostri adunchi e dentoni a volte dispari, giù giù fino al ventre/incubatrice fosforescente (ecco la femmina/regina/mater, sola analogia diretta con l'eponimo "Alien", assieme alla carcassa riesumata che scimmiotta le "paratie vertebrali" dell'astronave extraterrestre in Scott/Cameron), pregno di generazioni ansiose di divorare. Nell'insieme, membra, movenze ed "espressioni" in tensione mimetico-citazionista tra il furore senza mediazioni, quasi senza volto ma con pretesa di scarno realismo di "Cloverfield'; la possanza impacciata che alimenta lo spasmo distruttore di "Pacific rim" e la crudeltà stilizzata e "perversa" dei sado-insetti di "Starship troopers".


Di concerto ad esse - quasi a margine, verrebbe da dire, pronuba una sceneggiatura al fenobarbital - si muove sia il mondo degli uomini (con i suoi ovvi addentellati ripartiti più o meno equamente tra responsabilità verso l'ambiente - la manipolazione del vivente ribadisce ancora l'incauto affannarsi e progettare attorno al "piccolo sole" dell'atomo - verso i propri simili - genitori, figli, mariti e mogli, divisi dall'incombere di una tragedia di definitiva perentorietà che riflette, seppur su scale e contesti diversi, medesimi abissi d'indifferenza, di protervia, d'insensatezza, entrambi condannati a produrre e riprodurre "mostri" - e verso la società - immagine/calco della nostra infinita transizione, infida illusione a base di benessere e del terrore di perderlo) sia quello dello stesso "Re Lucertola", vertice biologico di un equilibrio arcaico per sempre distrutto, immanenza "simile ad un dio" (seppur priva della spavalda "sensualità" del rettile/modello nell'assai sbeffeggiato tentativo di Emmerich) a cui diventa persino banale delegare - e con una neanche tanto dissimulata rassegnazione - il compito di ripristinare il perpetuarsi (ma davvero per quanto ancora ?) di quell'"ordine"/transizione al cospetto di un tutt'altro che improbabile insediarsi dell'ennesima genia brutale, sorda ad ogni dialogo quanto proverbialmente famelica.

Edwards, incline ad una visione "fantastica" in grado di coniugare l'aderenza al dato evidente, "materiale" della storia (qualcosa affine alle concretezze desolate di "District 9") ad un respiro soffuso ma netto che ha l'ampiezza di una composta malinconia intrisa di moderato ottimismo (come si evinceva dal suo singolare esordio "fatalmente" intitolato "Monsters", del 2010), diluisce via via, in questa sua prima avventura nei "grandi numeri" - per denaro a disposizione, impegno produttivo, durata, Godzilla stesso, già ribattezzato dalla grancassa pubblicitaria "il più imponente colosso mai apparso sullo schermo" - la presa emotiva sui gangli fondamentali della scrittura cinematografica, accomodandosi ben presto in una sorta di "meraviglioso routinario" (peraltro assai frequentato), pianificato ed eseguito secondo le stazioni e i tempi che assommano, alternandoli in un andirivieni meccanico e blandamente cadenzato, caratteri tipici e situazioni da "monster/disaster movie": perplessità, larvati sensi di colpa e ubbie accademiche; esauste frenesie militari; siparietti domestici tra rassicurazione di prammatica e mestizia sottopelle. Ogni cosa organizzata in funzione (accessoria) degli scontri tra i giganti, anch'essi, alla fin fine, come perplessi, quasi trascinati loro malgrado in un certame che ha ben poco di epico, snaturato com'e' da un terzo incomodo interessato e reso oltremodo goffo dall'incerto arrancare tra voragini e grattacieli sbriciolati.

Liquidati ciononostante i "conti di specie", Godzilla, ricomposta la regale imperturbabilità, dispensa una mezza occhiata in tralice ad una comunità "sapiens" più smarrita che sollevata per poi riguadagnare le immensità marine: liberazione (di certo temporanea) dalle pastoie "umane" che a noi spettatori viene comunque preclusa, se non nella dimensione di un sommesso e paziente esercizio di oblio.

TFK

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