mercoledì, giugno 04, 2014

THE CONGRESS

The Congress
di Ari Folman
con Robin Wright, Harvey Keitel, Paul Giamatti
Usa, 2013
genere, animazione, fantascienza
durata, 122'



 Il crepuscolo degli idoli, nella società occidentale, non ha avuto né l’onore né l’onere di vivere alcuna primavera consumatasi fino ad ora. Il cinema - con un ovvio occhio di riguardo ad Hollywood - in “The Congress”  diviene sintesi del meccanismo macrocosmico della massificazione che, con la somma contraddizione che ne alimenta l’avanzare, genera, per l’appunto l’idolo. Robin Wright, nel ruolo di se stessa, lascerà che l’industria cinematografica scannerizzi le sue espressioni, in modo tale da poterla far comparire in qualsiasi film, lasciando l’attrice al digitale e l’umana all’umano. Vent’anni dopo il mondo cambia, ognuno può sniffare il proprio idolo e vivere una realtà distorta sotto forma di animazione (tra l’altro stilizzati meravigliosamente i disegni, a metà tra i rosaelefanti di “Dumbo” e gli scenari apocalittici di “The Wall”).
Ed è sotto forma di animazione, ergo di percezione alterata, che viviamo la prosecuzione della tecnocrazia immaginata tra vent’anni dal regista Ari Folman. Espediente, quello del trip visivo, che va oltre il primo strato narrativo, identificabile nella critica alla mercificazione hollywoodiana ed all’ennesimo fallimento del sogno americano. In effetti la considerazione iniziale, sulla massificazione ed il suo prodotto opposto (l’Io), spinge ad alcune riflessioni che sarebbe ingiusto ed ingenuo, nei confronti del film, lasciare da parte. In primis quella, inevitabile, ricavata dal saggio – al limite della dottrina -  di Walter Benjamin, ovvero “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”; oltre a poter evincere una straordinaria visionarietà da parte dell’autore riguardo al futuro della macchina cinema, c’è da analizzare come questi si focalizzi sull’opera d’arte e non più sull’artista poiché, sempre in merito alla prefazione riportata sopra, la massificazione della fauna umana è comparata a quella della diffusione dell’opera stessa, il cui lato artistico non può prescindere dalle regole del mercato. Il poeta, quindi l’artista, gettava la sua corona nel fango per discendere nei sobborghi (andare alla voce Charles Baudelaire); l’opera d’arte, come il suo realizzatore – e di conseguenza anche il suo fruitore-  perde la propria aura, il qui ed ora, elementi per essa  imprescindibili fino a qualche secolo fa. Tutta questa digressione è volta ad esplicare come il film, parallelamente al saggio, non vada a giudicare negativamente il processo, magari con reminiscenze aristoteliche tipiche della scuola di Francoforte. Altro strato narrativo, ancor più sottile, è dedicato alla frammentazione dell’Ego, dove è condotta la stessa protagonista, prima con l’esperienza del figlio praticamente sordo e destinato a diventare cieco, e poi con l’alterazione visiva provocata dalla “sniffata”. Frammentazione, quella individuale, che non avendo un limite preciso, non si pone, diegeticamente (e, checché se ne dica, giustamente), alla palese comprensione narrativa. L’esperienza mistica sembra richiamare, in tutto e per tutto, quella di Aldous Huxley nella sua opera “Le porte della percezione”, dove il tentativo di esperienza mistica viene vanificato in partenza, essendo la distorsione della realtà una fase solo conoscitiva e dunque di passaggio (troverete a tal proposito dei passaggi interessanti nell’articolo di Antonio Merola sulla beat generation). Senza contraddirsi (filosoficamente parlando) l’autore, in un’opera più grande di quel che sembra, salva l’unico elemento immortale della materia umana: la coscienza.

Un film di difficile comprensione, dove la chiave di volta cambia continuamente posizione, nella diegesi stessa della propria evoluzione dinamica; due mondi, amaramente paralleli, che mettono in discussione l’intera realtà fenomenica.  Tra interpretazioni probabili ed improbabili, tutto diventa chiaro nell’immagine poetica del figlio e dell’aquilone: discorsi contorti sull’essenza si trasmutano in immagini semplici sull’esistenza, sintetizzabili (il richiamo a “L’aquila” di Battisti mi sembrava inevitabile) in un epitaffio firmato da Mogol: “Un’auto che va, basta già a farmi chiedere se io vivo”.
Antonio Romagnoli






 

1 commento:

Christian ha detto...

Per me un buon film, anche se Stanislaw Lem c'è solo nella seconda parte (quella animata)...