venerdì, agosto 29, 2014
DOGTOWN AND Z-BOYS (II)
di: Stacy Peralta
USA - Documentario
2001 - 90 min
Seconda Parte
Quello di Jay Adams, ad esempio. Tredicenne super biondo ed esile, sguardo corrucciato quanto beffardo; interprete personalissimo di un modello imprevedibile e sorprendente, in grado di portare al limite estremo piroette eternamente sul filo di concludersi nello smacco della caduta: mini 'silver surfer' metropolitano, in maglietta, calzonacci e scarpe di gomma. Leggero, silenzioso, preciso e indifeso, come può esserlo l'epitome persino ovvia di quel portento talmente naturale da essere quasi involontario ma del tutto inerme una volta enucleato dal suo elemento naturale (Adams e' l'unico dei Z- boys a non avere con calcolo "messo a frutto" le proprie doti, allontanandosi pian piano dai riflettori e apponendo nome e cognome in esergo al già corposo cast della grande-tragedia-americana a suggello di una parabola spezzatasi troppo in fretta per via di abusi di alcool e droghe a fatica arginati). Non a caso, le sequenze relative ai suoi azzardi anti-gravitazionali sono di preferenza contrappuntate dalla chitarra e dalla voce di Hendrix: "There goes ezy, ezy rider/ riding down the highway of desire/He says the free wind takes him higher/Tryin' to find his heaven above/But he's dyin' to be loved" ("Ezy rider"). E: "You know, you're a cute little heartbreaker/Foxy/You know, you're a sweet little lovemaker..." ("Foxy Lady"). O, di contro, quello di Tony Alva - alto, longilineo ma piuttosto prestante, testa castana riccioluta e piglio strafottente - caratterizzato da una non comune combinazione di potenza di spinta, perfetta distribuzione del peso e insospettabile scioltezza muscolare e tempestività di riflessi. E, più o meno in uno slargo intermedio fra i due, quello dello stesso Peralta - californiano 'doc', complessione regolare, incarnato chiaro, lineamenti efebici, capelli giallo-ananas lisci, lunghi, tronchi sulle spalle, da ragazzina petulante: occhi chiari abbastanza da confermare un'altra mezza dozzina di stereotipi, eppure di difficile decifrazione a causa di uno sguardo assai vispo cui sembra non sfuggire nulla - composto, sempre disinvolto, agile pure negli snodi più complicati. Meno energico di Alva e meno estroso di Adams ma puntuale ed elegante, a rendere palpabile l'ipotesi di una specie di "classicità" innata, predisposta pero' ad evolversi e a rimodularsi man mano che si esprime.
L'affermarsi di un canone inedito, l'imporsi di qualunque "sentiero nuovo", e' spesso il frutto inaspettato e magico della concatenazìone di avvenimenti indipendenti da un esplicito atto volontario, la cui eventuale tenacia nel perseguirlo, pero', e' come se, alla lunga, brigasse a predisporre gli eventi su una certa linea. Chiaro che non si parla di una regola scolpita su chissà quale marmo nobile; d'altra parte, se e' vero che non sempre e non tutto va a finire in malora, diventa sensato affermare che un'estate particolarmente siccitosa - oltre a far serpeggiare il panico nelle carni molli dei pezzi grossi di un sostanzioso spicchio di California e aver fatto fibrillare un po' le statistiche circa la microcriminalità e il vandalismo - porto' con se' anche il secondo grande rivolgimento all'interno del piccolo universo dello 'skate', ulteriore crinale fra un prima e un dopo, che vide di nuovo lo Z-Team ballare al centro del palcoscenico. Tra le non poche fissazioni ascrivibili all'"amico americano" (non solo abbiente), c'è di sicuro quella che stagna nel cortile di casa perfettamente pareggiato dal tagliaerba almeno fino a quando non s'aggruma attorno al progetto di costruzione di una piscina privata. In piena arsura e con l'acqua razionata, i-buchi-a-mattonelle-celesti della California del Sud, in quell'estate dei Settanta, si svuotarono ben presto, lasciando il posto a strani reperti di archeologia para-industriale nella foggia di discariche domestiche a cielo aperto. Il nesso era evidente, se non altro all'occhio ricettivo di uno 'skater': la buona novella era li' che andava messa alla prova. Comincia così il tour (illegale: pur sempre di violazione di domicilio, si trattava) delle vasche abbandonate delle zone nei dintorni di Venice e, con ogni probabilità, l'inserto più intimo e più affascinante dell'intero lavoro di Peralta. Sulle prime, non sembra accadere granché: ragazzini mezzi nudi e abbronzati fanno su e giù, avanti e indietro, sul lastricato di una piscina preventivamente ripulita e asciugata. Qualcosa, pero', a guardar bene, si nota. Rannicchiati o in piedi sulla tavola, i gesti si sono ridotti all'osso; si sono fatti essenziali, fin quasi all'astrazione, come già pronti per un''affiche' pubblicitaria o un dipinto. Scorrevolezza assoluta, cioè; pressoché nessuna frizione o forzatura: filamenti inerziali invisibili a rincorrersi, ad intrecciarsi nell'aria, e poco altro. Tutto che appare morbido, intimamente collegato da un'energia profonda e calma, tanto presente e viva quanto indifferente alla necessita' di manifestarsi, come se, ad un certo punto, un pugno di adolescenti fosse "semplicemente" entrato nella dimensione di un peculiare moto perpetuo ("Senza pensieri, senza pena" - A.Rimbaud -). Anche in questa breve reiterazione e' il commento musicale che viene in soccorso al tentativo sincero ma nulla esclude fallace di dare concretezza e forma razionale a qualcosa in bilico tra rivelazione e suggestione. In altri termini: se le parole possono essere inadeguate, mai chiave interpretativa fu più "logica" ed efficace del "liquido sonoro" di "Us and Them" dei Pink Floyd a scivolare fra una geometria e l'altra: "Up and down.../And in the end it's only round and round and round...". Da questo istante, creare "scherzi" mai visti diventa sul serio un gioco. Alva, per dire, prende prima ad insinuarsi poco al di sopra di un faretto d'illuminazione (sul fianco di una vasca piuttosto larga) e un tanto al di sotto del bordo, di li' a poco imitato dagli altri. Quindi - col resto del gruppo ad incrementare il medesimo slancio - comincia a rasentare il bordo vero e proprio, staccando in aria due ruote dal profilo. Al giro successivo, ecco che ne sospende tre, lasciando lo 'skate' in equilibrio su una sola ruota. Infine, abbandona del tutto i limiti fisici della piscina, piegato a fisarmonica sulla tavola, le mani aggrappate al centro dell'attrezzo: assistiamo, nel caso, all'ideazione - o, come ha sottolineato lo stesso Alva, alla reinterpretazione - dell'"aerial trick".
Il 1975 e' l'anno in cui si compie il disastro in Vietnam, mentre ancora non e' stato nemmeno pre-digerito il grosso boccone del Watergate, con annesso contorno di un Presidente caldamente invitato a togliersi dai piedi. Buttando un occhio al Cinema, escono, tra gli altri, "Barry Lyndon", "Lo squalo", "Killer élite", "Nashville", "Qualcuno volo' sul nido del cuculo". Eppero' e' anche, nel suo piccolo, l'anno in cui lo Zephir Team si presenta al Campionato di Skate di Del Mar (Ca) e sconvolge il mondo della tavola-a-ruote. Riviste e telecamere cominciano a riportare sempre più di frequente notizie riguardanti una combriccola di giovanissimi che maneggia/padroneggia lo 'skate' come nessun altro. E' il momento dell'onore delle cronache e dell'emergere netto di ciò che la compattezza dell'insieme celava nell'indistinto: le sfumature dei caratteri, le inclinazioni della personalità, le ambizioni, le ritrosie. Alva e Peralta si dimostrano da subito più pronti degli altri a farsi gestori in prima persona di quella che adesso chiameremmo "immagine". Irruente il primo, accorto e dotato di una qual sollecita dimestichezza organizzativa, il secondo, i due prendono, attraverso un programma serrato di esibizioni, interviste, promozioni di accessori e lancio di proprie linee di abbigliamento e attrezzatura, a scalare i vertici di uno sport di nicchia ma, in quel frangente, riproiettato verso l'espansione, quindi suscettibile di rivalutazione in campo industriale prima, in quello finanziario poi. E' il successo, come si dice in questi casi. Ed e' - come non fa che ripetersi in altrettanti - la fine. Lo Z-Team tende sempre di più a diventare un marchio. Fatalmente le strade dei singoli, un po' alla volta, si separano. Ci si vede meno e quasi senza scampo in occasioni ufficiali. A fianco di coloro che paiono in grado di valutare e (sempre in apparenza) controllare il "nuovo corso", ci sono quelli (Adams) che non sanno o non vogliono mettersi li' ad imparare la "piega" imposta dai domatori del circo di massa. Altri ancora che, banalmente, restano ai margini perché poco coinvolti o poco interessati. E' un po' l'eterno scontro fra il "principio di piacere" e quello "di realtà" che pure il lavoro di Peralta, a tratti, tradisce, raccontando questo strappo decisivo per manciate d'immagini molto convenzionali, al limite della didascalia da rotocalco sportivo, quasi che la smagliante successione di quinte sempre diverse - gare, trofei, pose per foto, conferenze stampa, 'happening' promozionali et. - rimontata e riordinata bastasse a scongiurare e - a posteriori - a rimuovere, l'esiziale carico di dispersione che tale concorso di circostanze aveva innescato. Cionondimeno, le cose non erano più le stesse ("Quando i sentimenti non c'entrano più tanto, si da al denaro molta più importanza" - E.Hemingway -). E non lo ridiventeranno. Alva e Peralta proseguiranno le loro carriere assecondando - tra ovvi alti e bassi - la buona inerzia inaugurata a Del Mar. Alva crea una propria etichetta di 'skate' e abbigliamento personalizzato: ad oggi figura per consenso unanime tra i migliori 'skaters' di tutti i tempi. Peralta assembla una squadra, partecipa a diversi film sullo 'skateboard'; si fa notare anche nella serie "Charlie's Angels", finendo poi col dedicarsi alla sceneggiatura e alla regia. Molti cambieranno casa e lavoro; qualcuno continuera' a costruire tavole. C'è chi proverà a tirare avanti, chi se la passera' male e chi - senza clamore - farà altro. Magari, forse, e' anche per questo che rivedere Jay Adams - appena scomparso ("I've been first and last/Look how the times goes past/But I'm all alone at last" - N.Young, "Old man" -) - sfrecciare chino sul suo 'skate', mentre lentamente attorno a lui oggetti e corpi via via assumono le tonalità acide di una serigrafia di Warhol, somiglia molto da vicino non all'eventualità di assistere alla sospirata realizzazione di un'utopia negletta - ne sono state fraintese fin troppe, di utopie - quanto alla sottile e rara impertinenza di un proposito che ha trovato il modo di spogliarsi dei suoi orpelli più triti e consolatori e, depositandosi poco a poco, di punteggiare in maniera persistente di variopinti e flessuosi e inconsueti brandelli di se' ("Love lost, such a cost/Give me thing that don't get lost..." - N.Young, id. -) quel bizzarro e misterioso punto interrogativo che chiamiamo realtà. "Life is (really) better in the sun".
TFK
Fine
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento