domenica, agosto 30, 2015
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
FILM TELECOMANDATI: L'ARTE DI VINCERE - MONEYBALL
L'arte di vincere - Moneyball
di Bennett Miller
con Brad Pitt,
Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman
Usa, 2011
genere, drammatico, sportivo
durata, 126'
Cinema e sport non sono quasi mai un connubio vincente. A
limitarne l'efficacia giocano soprattutto due fattori: la mancanza di empatia
verso discipline attraversate da regole complicatissime, per di più alimentate
da una tradizione che riguarda solo pochi adepti. E poi l'accostamento con una
visione della vita che rispecchia un punto di vista prevalentemente maschile. Ed
anche "Moneyball" occupandosi di un manager di una squadra di
baseball alle prese con la scommessa di rendere competitiva una compagine
allestita con pochi mezzi e molta inventiva, non si distacca dal quadro appena
descritto.
Eppure dopo qualche minuto ti accorgi che pur continuando a
parlare di tattiche e di mercato nella speranza di compiere il miracolo, il
personaggio di Billy Beane nella sua (titanica) impresa di competere con i
moloch di uno sport che anche in America ha subordinato il gesto atletico al
potere dei soldi, appartiene di diritto alle grandi figure romantiche che prima
il cinema e poi la letteratura hanno saputo rendere immortali. Icaro
contemporaneo per la voglia di infinito racchiusa nel sogno di invertire le
sorti di una sconfitta annunciata, Billie è il capitano di una nave alla caccia
della balena bianca, con il mitico cetaceo sostituito dall'altrettanto
leggendario titolo delle world series che nel mondo del baseball rappresenta il
successo più alto a cui si possa aspirare. Ed è proprio nel tentativo riuscito
di ricostruire la vicenda emotiva e psicologica che scandisce le varie fasi di
questa rincorsa, come al solito costellata dallo scetticismo e dalla mancanza
di fiducia che da sempre circonda il visionario, che il regista compie il suo
capolavoro consegnandoci una vicenda che riesce a fare a meno dell'esibizione
muscolare ed estetica.
Rinunciando al campo da gioco ed alle discussione tecniche,
Miller ci parla di uomini e della paura di non essere all'altezza delle proprie
aspettative e di quelle degli altri. Una sfida con se stessi e con il proprio
inconscio che il film rende in maniera pragmatica, mostrandoci il protagonista
spesso in solitudine, a rimembrare i fantasmi di una promessa mancata (Billie
ha smentito il pronostico di chi ne aveva prefigurato una carriera da star) o
ad immaginare i risultati di partite che si ostina a non guardare per mantenere
le distanze di chi ha paura di innamorarsi di nuovo dell'oggetto del proprio
desiderio.
E poi circondandolo di figure sospese in una linea d'ombra
che impedisce loro di reagire alle difficoltà di una carriera ormai logora, o
mai decollata. Oppure di compagni d'avventura poco glamour come Peter Brand, il
genio della statistica che aiuterà Billie a convertire i numeri in giocatori da
comprare. Dal fisico corpulento e completamente assorbito dal suo mestiere
Peter è nella sua dimensione monotematica (ogni sua apparizione è legata ai
motivi del suo mestiere) emblema di un mondo chiuso in se stesso, alla ricerca
continua della prestazione. L'epilogo seppur rimandato nella conclusione alle
cronaca dei nostri giorni dove il manager Billie Beane non ha smesso di
inseguire la sua chimera, suggella nella scelta del protagonista, le ragioni di
un film che ragiona sul senso della vita. Immerso in chiari scuri caldi e
leggermente autunnali "Moneyball" è un esempio di come il cinema
classico sia ancora il modo per raccontare gli uomini e le loro storie. Brad
Pitt è perfetto nel tratteggiare i mezzi toni di uno spirito inquieto ma
deciso. Come lui tutti gli altri, in un ensemble di rara efficacia attoriale.
Questa sera in onda:
Cult, ore 21
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Film Telecomandati,
recensioni
sabato, agosto 29, 2015
HUNGRY HEARTS
Hungry Hearts
di Saverio Costanzo
con Adam Driver, Alba Rorhwacher
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 118'
L’incipit di un film, alle volte, può avere lo stesso valore
del prologo di un testo teatrale. E l’apertura di “Hungry Hearts” difatti, costituita
da una sequenza con inquadratura unica della durata di cinque minuti e più,
sembra già celare dietro l’apparenza di commedia francese l’impaziente
inquietudine che verrà a galla nel corso della narrazione. È un avvio quasi
letterario quello che Saverio Costanzo sceglie per il suo quarto
lungometraggio, caratterizzato quindi da un’ambizione – e dunque da un livello
di rischio – non indifferente.
La storia narra della relazione tra Mina e Jude, relazione
che si incrinerà irrimediabilmente dopo l’arrivo del figlio, vista l’ossessione
da parte della madre nel non far mangiare il figlio, facendogli quindi
rischiare la morte per malnutrizione.
Se il regista nel suo percorso cinematografico aveva già
passato l’esame della messa in scena, si trova ulteriore conferma della sua
indiscutibile abilità estetica, qui caratterizzata dall’uso delicato di una
camera a mano sempre pronta a seguire movimenti e micro-espressioni dei
personaggi. Mentre la struttura drammaturgica regge in parte il gioco,
nonostante la mancanza di contenuti e le numerose dissolvenze che vanno ad
evidenziare i solchi temporali presenti all’interno dell'impianto narrativo – scelta questa
che rischia di far perdere la carica emozionale dell’avvio a conclusione – la reale
problematica del film sta nell’interpretazione di Alba Rohrwacher che, assolutamente
non all’altezza del compagno di scena, oltre a non riuscire nel trovare un’interessante
modulazione della voce, offre un’interpretazione monodimensionale privando il
proprio personaggio della complessità che invece avrebbe richiesto e che
avrebbe sicuramente dato al film uno slancio maggiore.
Va comunque detto che “Hungry Hearts” dev’essere visto se
non altro per il coraggio col quale Costanzo ha tentato un’operazione almeno
negli intenti poetica e disperata, e non è cosa da poco.
Antonio Romagnoli
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recensioni
venerdì, agosto 28, 2015
A BLAST
A Blast
di Syllas Tzoumerkas
con Angeliki Papoulia, Vassilis Doganis, Maria Filini
Greca/Germania/Paesi Bassi,2014
genere, drammatico
durata, 83'
Così è la vita. In una giornata che il mondo del cinema avrebbe preferito evitare, con la morte del mai troppo compianto Robin Williams associata alla notizia del mancato arrivo a Locarno di Roman Polanski, "costretto" a rinunciare all'invito degli organizzatori per far tacere le polemiche innescate dalla sua eventuale presenza, dispiace constatare l'opportunismo di molte testate giornalistiche, pronte a riaccendere la spina sulla materia cinematografica solo in occasione degli eventi più dolorosi. Perchè se la coerenza fosse il principio discriminante nella scelta dei soggetti più interessanti, non c'è dubbio che un opera come "A Blast", del regista greco Syllas Tzoumerkas, con la sua bruciante attualità, dovrebbe occupare le prime pagine dei giornali. Il film infatti affonda il coltello nella ferite della "questione" greca, raccontando la storia di una crisi familiare in cui pubblico e privato si confondono in un malessere esistenziale che diventa tragedia, quando Maria (Angeliki Papoulia, attrice feticcio di Yorgos Lanthimos,) moglie e madre di tre figli e i suoi famigliari, devono affrontare il dissesto finanziario dell'azienda, coperta di debiti a causa del mancato pagamento delle tasse. Una scoperta improvvisa, che spezza il delicato equilibrio psicologico della donna, prostrata dalla lontananza del marito, imbarcato per motivi di lavoro, e condizionata da un'attitudine esistenziale, inquieta e insoddisfatta.
Partendo dal titolo che, anticipando il doppio binario - politico e psicologico - in cui si muove il film, fa riferimento ai disordini sociali scoppiati all'indomani della bancarotta del paese, e insieme all'esplosione di rabbia che da un certo punto in poi caratterizza i rapporti tra i vari personaggi, "A Blast" conferma la tendenza del cinema greco a interiorizzare gli avvenimenti contemporanei, rileggendoli attraverso i comportamenti di nuclei umani ristretti e oppressi all'interno di spazi, geografici e psicologici, claustrofobici. Anche in questo caso infatti la realtà storica rimane per lo più fuori campo (anche se in maniera meno esplicita rispetto a esempi precedenti),con i tumulti e le contraddizioni che emergono tra le righe di un tessuto umano instabile, e macchiato fin dal principio da un peccato originale che risale, guarda caso, a precise responsabilità genitoriali. Senza voler spingere troppo in direzione di una metafora sin troppo scontata, che fa dell'istituzione famigliare l'equivalente della comunità statuale, "Blast" ha il pregio di rimanere indipendente dalle riflessioni di cui si fa inevitabilmente carico, trovando nel contingente della sua storia la benzina per fare ardere l'animo dello spettatore.
Assecondando il deragliamento emotivo della protagonista, la struttura narrativa procede in maniera sincopata, e con inversioni temporali tra passato e presente che destabilizzano il pubblico, investito da un ego affamato d'esistenza. In analogia con i film dei colleghi che lo hanno preceduto (Lanthimos, Avranas)anche "A Blast" usa i corpi come fonte di rivolta utilizzando quello dei personaggi come terminale di una frustrazione che diventa ribellione da ogni convenzione. Da qui le caratteristiche di un'opera che porta l'Eros e il Thanatos dell'amplesso amoroso all'interno di una pansessualità sfrenata e disinibita. In questo senso la scena nell'internet caffè, in cui Maria guarda video porno circondata dallo sguardo esterafatto della congrega maschile, è significativa di un individualismo sfrenato, che alla luce di quanto sembra dirci il regista, rimane l'unica forma di difesa nei confronti dell'orrore del tempo presente. Ci sarebbe da aggiungere che Tzoumerkas gira in maniera divina, con soluzioni che aprono le immagini a un senso che non si esaurisce in ciò che vediamo ma che scava nell'animo dello spettatore. "Blast" è un pugno nello stomaco che può servire a risvegliare la coscienze.
(pubblicato su onacinema/speciale 67 festival di Locarno)
di Syllas Tzoumerkas
con Angeliki Papoulia, Vassilis Doganis, Maria Filini
Greca/Germania/Paesi Bassi,2014
genere, drammatico
durata, 83'
Così è la vita. In una giornata che il mondo del cinema avrebbe preferito evitare, con la morte del mai troppo compianto Robin Williams associata alla notizia del mancato arrivo a Locarno di Roman Polanski, "costretto" a rinunciare all'invito degli organizzatori per far tacere le polemiche innescate dalla sua eventuale presenza, dispiace constatare l'opportunismo di molte testate giornalistiche, pronte a riaccendere la spina sulla materia cinematografica solo in occasione degli eventi più dolorosi. Perchè se la coerenza fosse il principio discriminante nella scelta dei soggetti più interessanti, non c'è dubbio che un opera come "A Blast", del regista greco Syllas Tzoumerkas, con la sua bruciante attualità, dovrebbe occupare le prime pagine dei giornali. Il film infatti affonda il coltello nella ferite della "questione" greca, raccontando la storia di una crisi familiare in cui pubblico e privato si confondono in un malessere esistenziale che diventa tragedia, quando Maria (Angeliki Papoulia, attrice feticcio di Yorgos Lanthimos,) moglie e madre di tre figli e i suoi famigliari, devono affrontare il dissesto finanziario dell'azienda, coperta di debiti a causa del mancato pagamento delle tasse. Una scoperta improvvisa, che spezza il delicato equilibrio psicologico della donna, prostrata dalla lontananza del marito, imbarcato per motivi di lavoro, e condizionata da un'attitudine esistenziale, inquieta e insoddisfatta.
Partendo dal titolo che, anticipando il doppio binario - politico e psicologico - in cui si muove il film, fa riferimento ai disordini sociali scoppiati all'indomani della bancarotta del paese, e insieme all'esplosione di rabbia che da un certo punto in poi caratterizza i rapporti tra i vari personaggi, "A Blast" conferma la tendenza del cinema greco a interiorizzare gli avvenimenti contemporanei, rileggendoli attraverso i comportamenti di nuclei umani ristretti e oppressi all'interno di spazi, geografici e psicologici, claustrofobici. Anche in questo caso infatti la realtà storica rimane per lo più fuori campo (anche se in maniera meno esplicita rispetto a esempi precedenti),con i tumulti e le contraddizioni che emergono tra le righe di un tessuto umano instabile, e macchiato fin dal principio da un peccato originale che risale, guarda caso, a precise responsabilità genitoriali. Senza voler spingere troppo in direzione di una metafora sin troppo scontata, che fa dell'istituzione famigliare l'equivalente della comunità statuale, "Blast" ha il pregio di rimanere indipendente dalle riflessioni di cui si fa inevitabilmente carico, trovando nel contingente della sua storia la benzina per fare ardere l'animo dello spettatore.
Assecondando il deragliamento emotivo della protagonista, la struttura narrativa procede in maniera sincopata, e con inversioni temporali tra passato e presente che destabilizzano il pubblico, investito da un ego affamato d'esistenza. In analogia con i film dei colleghi che lo hanno preceduto (Lanthimos, Avranas)anche "A Blast" usa i corpi come fonte di rivolta utilizzando quello dei personaggi come terminale di una frustrazione che diventa ribellione da ogni convenzione. Da qui le caratteristiche di un'opera che porta l'Eros e il Thanatos dell'amplesso amoroso all'interno di una pansessualità sfrenata e disinibita. In questo senso la scena nell'internet caffè, in cui Maria guarda video porno circondata dallo sguardo esterafatto della congrega maschile, è significativa di un individualismo sfrenato, che alla luce di quanto sembra dirci il regista, rimane l'unica forma di difesa nei confronti dell'orrore del tempo presente. Ci sarebbe da aggiungere che Tzoumerkas gira in maniera divina, con soluzioni che aprono le immagini a un senso che non si esaurisce in ciò che vediamo ma che scava nell'animo dello spettatore. "Blast" è un pugno nello stomaco che può servire a risvegliare la coscienze.
(pubblicato su onacinema/speciale 67 festival di Locarno)
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67 festival di Locarno,
anteprime. recensioni
giovedì, agosto 27, 2015
GHOST WORLD
Ghost world
di Terry Zwigoff
di Terry Zwigoff
con: Tora Birch, Scarlett Johansson, Steve Buscemi, Brad Renfro, Ileanna Douglas, Bob Balaban
Usa, 2001
genere, commedia
durata, 110'
"A change would do you good".
- S.Crow -
L'adolescenza e' per il cosiddetto mondo adulto un
po' quello che democrazia e diritti umani sono per il mercato: vitali e
indispensabili - sebbene problematici - punti di riferimento
(materiali, filosofici, simbolici), fino a quando non si piazzano di
traverso. Allora le cose si complicano, le soluzioni si allontanano e i
conflitti aumentano.
"Ghost world", capitolo terzo nella personale commedia umana di
Terry Zwigoff, autore di scarsa prolificità come non aduso a cantare
nel coro, di traverso ci si mette subito e prepotentemente, gettando uno
sguardo sull'età acerba tanto poco incline all'edulcorazione,
quanto ancor meno consolatorio. Lungi sia dalle secche della trimurti
goliardico-sentimental- sportiva e dal binomio degli arricchimenti prodigiosi e dei miraggi caramellati, connaturati, quasi - quelle e questo - alla teen comedy americana,
sia dalla desolata patologia dell'emarginazione violenta e
dell'abiezione (sviluppatasi a ridosso degli anni '90 come contraltare
realistico-sociologico non di rado contrassegnato da caratteri
allucinatori mirati a demolire qualunque ipotesi sul genere tempo delle mele
e in un pugno di film incarnata - e, alla fine, addirittura pagata - ad
esempio, da uno come Brad Renfro, qui in una sconsolata parte di
contorno), l'opera va a collocarsi in una particolare terra-di-mezzo -
invero poco frequentata, pensiamo, tra gl'impavidi, al M.Lehmann di
"Heathers", del 1988 o al T.Solondz di "Welcome to the dollhouse" del
1995 e di "Palindromes", del 2004 - all'interno della quale sagacia e
precoce disillusione, disgusto per l'ovvio e inclinazione naturale alla
caricatura (da usare anche come strumento di difesa) hanno la meglio
sulle tipiche ubbie connesse alla popolarità, all'ossessione di
apparire, alla stessa urgenza di acquisire i rudimenti della formazione
culturale (da un sistema scolastico, poi, la cui certificazione
ufficiale del raggiungimento di un certo status sulla scala del
sapere - a dire, nel caso, il diploma o le annesse ingiunzioni ad
accollarsi rognosi corsi estivi - e' utile solo ad essere ridotta in
pezzi un attimo dopo essere stata conseguita).
Così come sarcasmo e
insofferenza, solitudini improvvise e malinconie senza approdo, sanno
farsi beffe comunque di consuetudini e atteggiamenti normali colti
in doloroso anticipo nella loro essenza di triti e umilianti luoghi
comuni nel migliore dei casi indirizzati verso l'incognita oscura del
quieto vivere. Alla stessa maniera ma in controcanto, rudezza di
linguaggio, una sessualità allo stesso tempo blandita e maneggiata con
diffidenza, una qual apatia - ciascuno di tali modi di essere, a suo
modo, leva già calibrata sull'osservazione critica dell'esistenza -
scimmiottano e si sostituiscono, diversamente declinandoli, allo slancio
e all'irruenza della giovinezza, con esiti a volte tragici
nell'allusione, per dire, ad un definitivo ripiegamento nell'astio: in
ogni caso sconcertanti per lucidità e precisione di analisi, oltreché
per una capacita' d'irrisione a cui non sono estranee scaltrezza e
cinismo.
Del
resto, coerenza vuole che un giudizio riferito ai propri pari età
oscillante tra antipodi apparenti come "semideficienti" e "ritardati",
pronunciato da due esemplari dell'altra meta' del cielo sodali da
sempre, in un contesto suburbano difficile dire se semplicemente
iperrealista o depresso senza remissione (il mondo fantasma e' da
intendersi in primis come corrispettivo fisico di un paesaggio che
sembra aver barattato in via non revocabile la trasformazione ragionata
dei suoi agglomerati con il declino a cromie brillanti della
post-modernità) preveda un certo numero di difficoltà psicologiche e
pratiche, di disagi, di frustrazioni, una volta che, per un motivo o per
l'altro, la decisione e' quella di tenervi fede ribadendolo. Proprio la
collisione, infatti, con un altro possibile aspetto del citato mondo fantasma, ossia quello dei rapporti falsi e superficiali (in specie quelli dei grandi ma
non solo: il tenore generale e' tarato sul metro per cui tutti usano
tutti), di quelli episodici o interessati, di quelli apertamente brutali
o sottilmente prevaricatori, a compilare una mappa fallimentare delle
relazioni umane - straziante, grottesca, come che sia di fatto percorsa
da linee che tendono a circoscrivere il sospetto di una ineliminabile
inettitudine di fondo - irrigidisce e sconcerta vieppiù le prese di
posizione di Enid/Birch e Rebecca/Johansson, liceali s'è detto argute,
fuori posto in un mondo perlopiu' - e di gusto - ottuso, latrici
peraltro di un proprio modo di porsi in esplicito attrito con lo
stereotipo muliebre dominante mai disposto a spingersi troppo oltre il
tipo cheerleader, da un lato e quello modella in erba, dall'altro, a cui, quasi d'incontro, si potrebbe dire, si risponde a colpi di caschetto nero, occhiali a montatura variabile, mise ricercatamente
arzigogolate e anfibi per Enid (una Birch paffuta, dalla carnagione
simil lattea e gli occhi vispissimi); chioma castana, pullover sottile
girocollo su shorts dal taglio maschile e mocassini di foggia robusta
per Rebecca (la futura stella Johansson, qui guardinga, quasi goffa ma
sempre come sul punto d'imporre finalmente un'esuberanza da troppo
inibita causa circostanze avvilenti), a testimonianza, rafforzando anche
da fuori l'anomalia intrigante di una narrazione inusuale, di un
erotismo genuino, svagato, un tanto bislacco, nondimeno feroce, di
sicuro non cool (neanche a dirlo ben presto scalzato, almeno lungo le traiettorie della carriera della Johansson, da un più opportuno divismo
studiato a tavolino, accomodante tanto verso le blande esigenze del
palato medio, quanto verso quelle più ferree e subdole del glamour da
copertina e della pubblicità), che Zwigoff dosa in una mistura ancora
in grado di giocare sia sull'allusione finto ingenua, sia su una
provocazione esplicita e diveritita perché a riparo da controprove
imminenti indesiderate o imbarazzanti.
Assieme
all'ironia pungente e a sprazzi di comodo fatalismo, questa sorta di
flusso vitale represso, un po' contorto e incontrollato - intriso certo
di candore, di malizia opportunista, eppure alimentato da una spinta in
direzione opposta a ciò che si presume (o ci si e' piegati a
considerare) inamovibile: una curiosità autentica, quindi
(Enid-lingua-lunga si fa cacciare da un lavoro ma tenta, benché le venga
poi scippata, la via di una borsa di studio; Rebecca comincia a
guadagnare per metter su casa) - percorre in sotterranea le vicende
delle due ragazze (le quali, in genere, di romantico o mirifico hanno
ben poco, dipanandosi nelle pieghe di un tran tran cristallizzato dal
gelo dei suoi poli attrattivi di consumo - diner, centri
commerciali, simulazioni di "tipiche tavole calde anni '50" - e tra le
ansie contraddittorie e le irresolutezze di tipi umani sempre ad un
passo dal crollo nervoso o dall'accasciarsi in una stranita
rassegnazione - estremi non lontani dal mood interiore di certi
personaggi di George Saunders -), arrivando, alla lunga, a preservarne
l'identità dall'appiccicume del quotidiano nella forma di una
marginalità matura perché accettata infine come contributo personale
alla riduzione della conflittualità. Lo stesso rapporto dispari di Enid
con Seymour (un affranto e querulo Buscemi ad emblema di un giovane vecchio patetico
e insoddisfatto, collezionista di rari 78 giri - uno dei quali, tra
l'altro, "Devil got my woman", 1931, di Skip James, diventa un delizioso
tormento per Enid - a cui pero' non sfugge il bandolo della propria
condizione: "Non sei in grado di avere nessun tipo di rapporto e allora
ti riempi la vita di questo", le dice, durante una noiosa serata tra
cultori di vecchi dischi, alludendo alla comune mania catalogatrice)
vive e prolifera solo in virtù dello squilibrio che la petulanza,
l'obliqua malia e il corrosivo brio negativo della teenager inocula
nelle fibre spossate di un arreso uomo-massa, restituendogli persino la
forza di osare ciò che fino a quel momento egli aveva relegato
nell'inconcepibile: frequentare una coetanea.
E' così che Zwigoff - in collaborazione con Daniel Clowes, co-sceneggiatore e autore del comic book dal
quale il film prende le mosse - riesce, con avvertita naturalezza e
senza concedere alla sue protagoniste facili scappatoie ma modulando
accorte variazioni sul registro delle emozioni di base (stupore,
delusione, rabbia, aspettazione, et.), la' dove molti altri tentativi si
arenano nelle agnizioni gratuite o nelle catastrofi sbrigative: rendere
motivatamente seducente una visione pessimista (e dall'epilogo incerto)
della realtà, delle prospettive personali, del proprio posto in un
mondo butterato che nemmeno somiglia più ai colori (pieni) e agli umori
(aspri) di un romanzo disegnato intelligente e triste.
TFK
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cult,
recensioni
FILM TELECOMANDATI: LOCKE
Locke
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
In onda questa sera:
Cult, ore 1930
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
In onda questa sera:
Cult, ore 1930
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Film Telecomandati
mercoledì, agosto 26, 2015
LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: LA BELLA GENTE
La bella gente
di Ivano de Matteo
con Elio Germano, Monica Guerritore, Antonio Catania
Italia, 2009
drammatico
durata, 98'
"Non importa se bene o male, l'importante è che se ne parli".
di Ivano de Matteo
con Elio Germano, Monica Guerritore, Antonio Catania
Italia, 2009
drammatico
durata, 98'
"Non importa se bene o male, l'importante è che se ne parli".
Sembra
questo l'algoritmo sul quale si fonda il successo di un film come "La
bella gente", opera del 2009 diretta da Ivano de Matteo che in seguito
ad una pesante censura ha trovato una distribuzione, dopo aver fatto il
giro del mondo, sugli schermi nostrani.
Affermazioni,
queste, dettate dal fatto che l'inconsistenza formale e contenutistica
del film - si narra di una famiglia tipicamente italo-borghese che
decide di aiutare ed accogliere una prostituta - salta all'occhio già
dai primi minuti. L'inesistente coerenza visiva, difatti, è il tappeto
rosso sul quale sfilano una drammaturgia lacunosa e colmata malamente
con un ingombrante uso della colonna sonora, nonché una direzione degli
attori che si concentra solo sul ruolo della ragazza ucraina, unico
personaggio che difatti riesce a restituire qualche briciola di dignità
alla pellicola, confermando, per altro, le mediocri doti attoriali di un
attore in voga come Elio Germano.
Sembra
invece - ed è ancor più grave - che sia completamente caduta nel
dimenticatoio, o peggio del tutto ignorata, l'intera centenaria
dialettica circa l'ipocrisia-medio-borghese, che anche tra i pensatori
nostrani - si vedano i vari Pasolini, Svevo o, nello specifico
cinematografico, con tutti i difetti del caso, Moretti - ha trovato
sempre nuovi spunti per non diventare un argomento riesumato dalla tomba
del già-detto: la vaporosità con la quale de Matteo tocca determinati
punti basterebbe a catalogare "La bella gente" come un prodotto di serie
b che senza il controproducente proibizionismo tutto italiano sarebbe
caduto nell'oblio della propria cedevolezza.
Antonio Romagnoli
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anteprime. recensioni
FILMTELECOMANDATI: LA VITA FACILE
La vita facile, di Lucio Pellegrini
con Stefano Accorsi, Pier Francesco, Vittoria Puccini
Italia, 2011
genere, commedia, drammatico
durata, 102'
con Stefano Accorsi, Pier Francesco, Vittoria Puccini
Italia, 2011
genere, commedia, drammatico
durata, 102'
Finalmente un bel film italiano. Dopo una serie di prodotti
che solleticano la fantasia televisiva del pubblico nostrano, infarcendolo di
un qualunquismo che usa la risata come mezzo per dissuaderlo da qualsiasi
iniziativa critica, ecco spuntare all’orizzonte il film che non ti aspetti,
realizzato da un regista “alternativo” come Lucio Pellegrini, poco prima nelle
sale con l’ennesimo rifacimento dei soliti ignoti, e qui pronto a raddoppiare
con un'altra uscita che però si discosta e non di poco dalle sue esperienze
precedenti.
Film della maturità si potrebbe dire, se la parola non
rappresentasse un ipoteca su un futuro ancora da scrivere, per la presenza di
personaggi che con la giovinezza e le loro scelte sono chiamati a fare i conti.
Ma soprattutto film con la “F” maiuscola per la volontà di costruire una storia
che non si ferma al glamour dei suoi interpreti, Accorsi e Favino - come dire
un pezzo importante della nouvelle vague italiana - all’effetto delle loro
battute, e che soprattutto non usa il malessere della società per imbastirci
sopra una serie di speculazioni di ovvio qualunquismo.
La vicenda di Luca e Mario divisi da una donna ma
soprattutto da una visione del mondo quantificata dalla distanza tra le
strutture fatiscenti dell’ospedale africano gestito dal primo ed i corridoi
asettici della clinica in cui opera il secondo, è il pretesto per fare il punto
su una generazione che ha messo da parte amore ed ideali politici per trovare
il proprio posto nel mondo. Così quando Mario con la scusa di aiutare l’amico
si trasferisce in Africa, le ragioni di quella diversità ma soprattutto la
natura delle loro personalità diverranno la chiave per un esperienza catartica,
capace di portare a galla antiche ipocrisie risolvendole alla luce di un
confronto giocato in una terra che non ammette vie di mezzo.
Ambientato quasi interamente in un paesaggio africano che
non diventa mai stereotipo, La vita facile smentisce il suo titolo
presentandoci un’umanità perennemente in affanno, intrappolata in una
dimensione di precarietà che seppur a diversi livelli, Mario impegnato a
mantenere un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità e Luca medico
senza frontiere e senza mezzi, si rivela l’unica costante in un pluralismo di
caratteri ed aspirazioni. Enfatizzando il contrasto tra la vastità degli spazi
naturali con i limiti degli interni borghesi oppure anteponendo lo stile di
vita frugale ma sincero del personale impegnato nella missione umanitaria con
quello affettato e di convenienza del mondo imprenditoriale, Pellegrini rende
ancora più evidente la grettezza dei nostri tempi. Ma il vero capolavoro lo
compie quando lavorando sulle psicologie dei personaggi (basterebbe pensare al
personaggio di Ginevra ago della bilancia e punto di raccordo tra i due amici)
permette alla storia di trasformarsi in una specie di thriller esistenziale
dopo averci abituato ad un tono a metà strada tra il dramma e la commedia. Ed è
proprio nelle sfumature dei toni, ben sintetizzate dalla complementarità
caratteriale dei due protagonisti, Favino estroverso e farabutto, Accorsi
ingenuo ed idealista, ma anche dalla comune debolezza (entrambi in un fuga,
entrambi soggiogati dalla stessa donna) che La vita facile riesce a dirci
qualcosa di diverso, a sollevarci il dubbio che forse è proprio nella
comprensione della fallibilità che si nasconde la ricetta della nostra
rinascita. Sbaglio quindi sono. E’ questa la nuova "eresia" a cui
anche noi ci uniamo volentieri.
In onda questa
sera:
Canale 5, ore 23,50
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Film Telecomandati
martedì, agosto 25, 2015
EDEN
Eden
di Mia Hansen Love
con Félix de Givry, Pauline Etienne, Vincent Macaigne, Hugo Conzelmann
Francia, 2014
genere, drammatico
durata, 131'
Che quella elettronica sia una musica che si addice ai gusti dei francesi è cosa nota almeno a partire dagli anni settanta, per la presenza di un’artista come Marc Cerrone, vero e proprio precursore del movimento attraverso una serie di dischi che furono in grado di rivaleggiare con i mastodonti della disco music americana. Una tendenza, che negli anni a venire è riuscita a resistere alle mode del momento, arrivando a conquistarsi la propria fetta di mercato grazie al successo internazionale del progetto artistico che fa capo ai Daft Punk, esponenti di punta della cosiddetta France House. Come carta assorbente il cinema prende atto dello scarto e solo in questa stagione ci presenta due film che in modi diversi testimoniano quanto abbiamo appena detto. Del primo, “The Fighters - addestramento di vita” diretto da Thomas Cailley abbiamo parlato solo qualche mese fa e in questa sede basterà ricordare quale sia sia stato il peso delle sonorità elettroniche nell’economia generale della messinscena; del secondo invece che è anche l’oggetto della nostra recensione ci apprestiamo a farlo non prima di aver ricordato che “Eden” diretto dalla regista Mia Hansen Love arriva nella sale a quasi quattro anni di distanza da quell’ “Amore di gioventù” che aveva colpito per la lucidità con cui raccontava l’educazione sentimentale della sua giovane protagonista. E proprio dal ricordo di quel film che sembra partire la Hansen Love, raccontando in qualche modo un’altra storia di formazione in cui però, a fornire gli strumenti dell’apprendistato è, manco a farlo apposta lo scenario musicale, che a partire dai novanta vede crescere e imporsi il fenomeno musicale legato appunto ai Daft Punk, veri e propri numi tutelari di Paul, adolescente il cui percorso di crescità esistenziale segue di parì passo quello artistico, rappresentato appunto dal tentativo di diventare un dj di fama internazionale attraverso la creazione di una proprio etichetta musicale.
Alle prese con una sceneggiatura che ancora una volta ha a che fare con esperienze di vita vissuta - questa volta per interposta persona, attraverso le vicissitudini capitate al fratello Sven che qui collabora in fase di scrittura - la Hansen Love non si limita a illustrare la biografia del personaggio, con gli alti e bassi che ne accompagnano i suoi sogni e le sue delusioni ma ne da un interpretazione in chiave drammaturgica, che si mantiene in equilibrio - attraverso la presenza dell'elemento musicale rappresentato dalla colonna sonora prodotta dal protagonista - tra il referto sociologico (con la descrizione dell'underground musicale e del panorama culturale entro cui si muove Paul) e il diario privato, in cui trovano spazio le relazioni sentimentali del ragazzo così come gli scompensi emotivi che derivano dalle asperità della posta in palio.
L'effetto più evidente è quello di una passione se non raffreddata, almeno tenuta a freno dalla mancanza di quel sensazionalismo alla belli e dannati che di solito contraddistingue i ritratti degli artisti o presunti tali. In questo modo, il leit motiv costituito dallo slogan "sesso, droga e rock and roll", seppur presente nella dipendenza chimica di Paul e nelle manie depressive del suo amico e collega, viene spogliato da qualsiasi tipo di compiacimento estetico e vojeristico. Così facendo, l'eccezionalità raccontata da "Eden" e la giovinezza che così bene gli corrisponde, diventano significative di una crescita esistenziale che potrebbe essere uguale a quella di chiunque altro. Senza bisogno di quella leggittimazioni ideologiche e politiche di cui la Hansen Love riesce a fare a meno e che, almeno in patria, non le consento di essere menzionata con la reputazione che invece meriterebbe.
di Mia Hansen Love
con Félix de Givry, Pauline Etienne, Vincent Macaigne, Hugo Conzelmann
Francia, 2014
genere, drammatico
durata, 131'
Che quella elettronica sia una musica che si addice ai gusti dei francesi è cosa nota almeno a partire dagli anni settanta, per la presenza di un’artista come Marc Cerrone, vero e proprio precursore del movimento attraverso una serie di dischi che furono in grado di rivaleggiare con i mastodonti della disco music americana. Una tendenza, che negli anni a venire è riuscita a resistere alle mode del momento, arrivando a conquistarsi la propria fetta di mercato grazie al successo internazionale del progetto artistico che fa capo ai Daft Punk, esponenti di punta della cosiddetta France House. Come carta assorbente il cinema prende atto dello scarto e solo in questa stagione ci presenta due film che in modi diversi testimoniano quanto abbiamo appena detto. Del primo, “The Fighters - addestramento di vita” diretto da Thomas Cailley abbiamo parlato solo qualche mese fa e in questa sede basterà ricordare quale sia sia stato il peso delle sonorità elettroniche nell’economia generale della messinscena; del secondo invece che è anche l’oggetto della nostra recensione ci apprestiamo a farlo non prima di aver ricordato che “Eden” diretto dalla regista Mia Hansen Love arriva nella sale a quasi quattro anni di distanza da quell’ “Amore di gioventù” che aveva colpito per la lucidità con cui raccontava l’educazione sentimentale della sua giovane protagonista. E proprio dal ricordo di quel film che sembra partire la Hansen Love, raccontando in qualche modo un’altra storia di formazione in cui però, a fornire gli strumenti dell’apprendistato è, manco a farlo apposta lo scenario musicale, che a partire dai novanta vede crescere e imporsi il fenomeno musicale legato appunto ai Daft Punk, veri e propri numi tutelari di Paul, adolescente il cui percorso di crescità esistenziale segue di parì passo quello artistico, rappresentato appunto dal tentativo di diventare un dj di fama internazionale attraverso la creazione di una proprio etichetta musicale.
Alle prese con una sceneggiatura che ancora una volta ha a che fare con esperienze di vita vissuta - questa volta per interposta persona, attraverso le vicissitudini capitate al fratello Sven che qui collabora in fase di scrittura - la Hansen Love non si limita a illustrare la biografia del personaggio, con gli alti e bassi che ne accompagnano i suoi sogni e le sue delusioni ma ne da un interpretazione in chiave drammaturgica, che si mantiene in equilibrio - attraverso la presenza dell'elemento musicale rappresentato dalla colonna sonora prodotta dal protagonista - tra il referto sociologico (con la descrizione dell'underground musicale e del panorama culturale entro cui si muove Paul) e il diario privato, in cui trovano spazio le relazioni sentimentali del ragazzo così come gli scompensi emotivi che derivano dalle asperità della posta in palio.
L'effetto più evidente è quello di una passione se non raffreddata, almeno tenuta a freno dalla mancanza di quel sensazionalismo alla belli e dannati che di solito contraddistingue i ritratti degli artisti o presunti tali. In questo modo, il leit motiv costituito dallo slogan "sesso, droga e rock and roll", seppur presente nella dipendenza chimica di Paul e nelle manie depressive del suo amico e collega, viene spogliato da qualsiasi tipo di compiacimento estetico e vojeristico. Così facendo, l'eccezionalità raccontata da "Eden" e la giovinezza che così bene gli corrisponde, diventano significative di una crescita esistenziale che potrebbe essere uguale a quella di chiunque altro. Senza bisogno di quella leggittimazioni ideologiche e politiche di cui la Hansen Love riesce a fare a meno e che, almeno in patria, non le consento di essere menzionata con la reputazione che invece meriterebbe.
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anteprime. recensioni
lunedì, agosto 24, 2015
JOKER - WILD CARD
Joker - Wild Card
di Simon West
con Jason Statham, Stanley Tucci Michael Angarano
Usa, 2015
genere, action, thriller
durata, 92'
Ogni volta che esce un film d'azione interpretato da Jason Statham non ci si può non chiedere come mai un attore come lui, in grado di districarsi in film in cui oltre ai muscoli bisogna avere anche fascino, carisma e un pizzico d'ironia (Spy ne è la prova) si ostini a farsi coinvolgersi da progetti come "Joker", remake di un lungometraggio - Black Jack (1996) - tutt'altro che memorabile interpretato da Burt Reynolds, in cui il nostro ancora una volta è chiamato a recitare la parte del cavaliere con molte macchie ma senza paura, costretto a vendicare le offese subite dalla fanciulla di turno. Nella fattispecie si tratterà di pareggiare i conti con un trio di energumeni legati a una potente famiglia malavitosa di Las Vegas. Ovviamente ci scapperà il morto e Statham non si lascerà sfuggire l'occasione per sfoggiare le sue abilità combattentistiche. Il punto però non è tanto questo, perchè "Joker" è pur sempre un film d'azione che vive soprattutto sul dinamismo e sulla fisicità del sua star. A non convincere è la qualità - si fa per dire - di una sceneggiatura che non riesce a fare di meglio che presentare una serie di duelli alla O.K Corral, senza curarsi minimamente di approfondire quelle sfaccettature del personaggio (per esempio il suo vizio per il gioco) che nelle intenzioni della sceneggiatura dovrebbero giustificarne le scelte morali . Così facendo il film diretto da un Simon West al minimo sindacale, procede attaccandosi a quello straccio di plausibilità fornita dalla vendetta del maltolto, anche nel momento in cui, nella seconda parte della storia, la trama si incanala in risvolti che poco centrano con i motivi di quella premessa. Per tutti, pubblico compreso, un occasione persa.
di Simon West
con Jason Statham, Stanley Tucci Michael Angarano
Usa, 2015
genere, action, thriller
durata, 92'
Ogni volta che esce un film d'azione interpretato da Jason Statham non ci si può non chiedere come mai un attore come lui, in grado di districarsi in film in cui oltre ai muscoli bisogna avere anche fascino, carisma e un pizzico d'ironia (Spy ne è la prova) si ostini a farsi coinvolgersi da progetti come "Joker", remake di un lungometraggio - Black Jack (1996) - tutt'altro che memorabile interpretato da Burt Reynolds, in cui il nostro ancora una volta è chiamato a recitare la parte del cavaliere con molte macchie ma senza paura, costretto a vendicare le offese subite dalla fanciulla di turno. Nella fattispecie si tratterà di pareggiare i conti con un trio di energumeni legati a una potente famiglia malavitosa di Las Vegas. Ovviamente ci scapperà il morto e Statham non si lascerà sfuggire l'occasione per sfoggiare le sue abilità combattentistiche. Il punto però non è tanto questo, perchè "Joker" è pur sempre un film d'azione che vive soprattutto sul dinamismo e sulla fisicità del sua star. A non convincere è la qualità - si fa per dire - di una sceneggiatura che non riesce a fare di meglio che presentare una serie di duelli alla O.K Corral, senza curarsi minimamente di approfondire quelle sfaccettature del personaggio (per esempio il suo vizio per il gioco) che nelle intenzioni della sceneggiatura dovrebbero giustificarne le scelte morali . Così facendo il film diretto da un Simon West al minimo sindacale, procede attaccandosi a quello straccio di plausibilità fornita dalla vendetta del maltolto, anche nel momento in cui, nella seconda parte della storia, la trama si incanala in risvolti che poco centrano con i motivi di quella premessa. Per tutti, pubblico compreso, un occasione persa.
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recensioni
HAPPY HOUR E IL PUDORE DELLA MACCHINA DA PRESA: INTERVISTA A RYUSUKE HAMAGUCHI
Abbiamo incontrato Ryusuke Hamaguchi, regista di
"Happy Hour", uno dei film più belli presenti in questa edizione del
festival di Locarno
Si lo conosco avendone letto parte delle opere e, in particolare, "Il giardino dei ciliegi" che, è quella che più mi è piaciuta. Se ho capito il significato della sua domanda, posso dirle che apprezzo lo scrittore ma non fino al punto da essermi fatto influenzare nella stesura del film.
A proposito della lunghezza del suo lungometraggio, le chiedo in che misura un minutaggio così corposo (317') è stato necessario alla narrazione della storia
Al termine di ogni visione questa è una delle domande più ricorrenti. Inizialmente il motivo è nato dalla sceneggiatura. Eravamo convinti che la fluvialità della vicenda fosse la maniera migliore per permettere alle attrici di entrare nel proprio ruolo e di capire le emozioni dei rispettivi personaggi. Successivamente, in fase di montaggio e come spettatore, ho sentito che quella lunghezza era l'unico modo per raccontare la storia che avevamo in testa. Il produttore è stato d'accordo e quindi non ho dovuto fare alcun taglio rispetto al montaggio originale.
Nella vita dei personaggi il sesso è vissuto come una mancanza e quindi mi chiedevo se fosse questa la ragione per cui lei non lo mostra in nessuna scena.
Una delle ragioni può derivare dalla mia cultura e dal fatto di essere giapponese. Però il tema del film non era il sesso, che è presente come tante altre cose della nostra vita, quanto piuttosto la difficoltà che abbiamo nell'esprimere i sentimenti più intimi e personali. D'altro canto nella vicenda il sesso è vissuto con frustrazione ma io non ho mai sentito la voglia di girare una scena di questo genere. Ci sono registi che hanno girato magnifici film sull'argomento. Io però mi sento vicino ad autori come Ozu e soprattutto Cassavetes, il quale affermava che la mdp doveva restare fuori dall'intimità delle persone. Aggiungo che per me è fondamentale la posizione della macchina da presa e che nella scene di sesso non c'è modo di trovare il posto giusto per iniziare a filmare.
Nel film ci sono scene molto rapide e altre piuttosto statiche. Questo mi fa pensare a uno stile a metà strada tra fiction e documentario
Io non faccio alcuna distinzione tra le due modalità. So solo che ci sono cose che i personaggi non posso fare a meno di perdere la loro credibilità. Per questo ho scelto di alternare alcuni inserti di pura fiction, necessari a far progredire la storia, e altri, con una drammaturgia più debole, indispensabili all'approfondimento di certe situazioni.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)
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68 Festival di Locarno,
interviste
domenica, agosto 23, 2015
KENJI MIZOGUCHI, MAESTRO DEL MELODRAMMA MODERNO
In un momento di rinnovato interesse per il cinema classico giapponese (ne è dimostrazione il successo di pubblico della rassegna dedicata a Yasujirō Ozu in programmazione nelle sale cinematografiche italiane), la Cineteca Italiana di Milano ha realizzato, con intelligente tempestività, un omaggio, scegliendo sei opere degli anni 50, a Kenji Mizoguchi, altro grande maestro, che, insieme ad Akira Kurosawa, fa parte di quella imprescindibile triade di autori del cinema giapponese conosciuta da ogni cinefilo. L’occasione è ghiotta per i fortunati che ne possono approfittare per (ri)scoprire un autore immenso che ha regalato al cinema dei veri e propri capolavori, delle perle di pura bellezza estetica, e ha reso grande la Settima arte.
Kenji Mizoguchi nasce a Tokyo alla fine dell’Ottocento da una modesta famiglia di artigiani e muore a Kyoto nel 1956 per un attacco di leucemia fulminante, quando ancora era in piena attività. La sua sterminata filmografia ha inizio nel 1923 ed è composta da ottantacinque film che attraversano la storia del proprio paese e dell’evoluzione tecnica del cinema. Dei suoi primi quarantasette film (in gran parte del periodo del muto) solo due sono arrivati a noi, e se già negli anni 30 e 40 Mizoguchi era considerato un maestro in patria, nel resto del mondo s’inizia a conoscerlo dopo la vittoria di “Rashomon” di Akira Kurosawa alla Mostra Internazionale dell’arte cinematografica di Venezia nel 1951, che alza il sipario al pubblico occidentale sulla ricca filmografia giapponese. In effetti, negli anni seguenti, Mizoguchi partecipa alla Mostra lagunare con tre opere considerate universalmente dei capolavori (e compongono l’omaggio riservato dalla Cineteca): “Vita di O-Haru, donna galante” (1952), “I racconti della luna pallida d’agosto” (1953), “L’intendente Sanshō” (1954) che si aggiudicano il Leone d’argento a dimostrazione dell’attenzione riservata all’autore nipponico.
Nel cinema di Mizoguchi troviamo una rappresentazione delle vicende di quei ceti popolari, frequentati in prima persona dal regista, con personaggi soprattutto femminili che affrontano le avversità del destino a testa alta nella loro sofferenza. Le protagoniste delle sue storie sono forti ed eleganti nella rappresentazione delle proprie disgrazie, vissute sempre con grande dignità, siano esse nobildonne decadute o cortigiane, figlie e mogli con padri o mariti che in qualche modo le sfruttano come oggetto di possesso, ridotte a merce di scambio, dove il denaro diventa l’unico obiettivo di uomini che giocano un ruolo predominante in una società patriarcale e maschilista.
Un esempio di questi temi amati dal regista lo abbiamo con “Vita di O-Haru, donna galante”, tratto da un romanzo della letteratura giapponese del Seicento, dove viene messa in scena la vita di O-Haru che da dama di corte imperiale, per essersi innamorata di un modesto samurai senza il permesso della famiglia e della classe nobile, viene esiliata dalla capitale. La vediamo in diverse tappe della sua esistenza in una caduta continua, raccontata in un lungo flashback in soggettiva: prima venduta dal padre come concubina a un nobile per dare alla luce un discendente al clan; poi scacciata per motivi politici, gli ritocca la stessa sorte ma questa volta come cortigiana in una casa chiusa per pagare i debiti che nel frattempo il genitore aveva accumulato; a servizio come dama di compagnia presso un ricco mercante, da cui viene scacciata dopo aver scoperto il suo passato (non prima di averla posseduta); una breve parentesi di felicità, sposata a un giovane artigiano di ventagli, ma ben presto vedova e senza denaro; per finire raminga e infine prostituta di strada. La storia di O-Haru è esemplificativa di quel gusto del melodramma che Mizoguchi ricercava nelle sue storie, raccontate sempre con estrema eleganza formale, dalle emozioni sconvolgenti, da una lotta impari di figure femminili ritratte con un’empatia che travalicava lo schermo.
In “Vita di O-Haru” si può ammirare l’arte cinematografica di Mizoguchi e i suoi famosi piani sequenza espressivi: citiamo su tutti quello bellissimo in cui O-Haru scopre che il suo giovane amante samurai è stato giustiziato e scappando, per togliersi a sua volta la vita con un pugnale, viene inseguita dalla madre nel bosco vicino casa, utilizzando la scenografia naturale come sfondo per una danza di morte e dolore delle due donne. Non bisogna dimenticare i primi piani intensi sugli sguardi dei protagonisti e l’utilizzo di totali con una profondità di campo che permettono la messa in quadro di un mondo complesso e articolato (influenzato dalla pittura di Utamaro, autore del XVIII secolo, del periodo Ukiyoe, quel “mondo fluttuante” che rappresentava la vita quotidiana di mercanti e cortigiane). L’utilizzo innovativo di questa grammatica cinematografica lo rendono un precorritore intuitivo di un cinema moderno influenzatore di tanti autori europei e americani negli anni 60 e 70.
Del resto, l’indimenticabile interprete di O-Haru, Tanaka Kinuyo (attrice icona di altri film del periodo come ne “La signora Oyu” e “I racconti della luna pallida di agosto”) recita con i movimenti del corpo e dei ricchi costumi che diventano strumento espressivo delle emozioni con un gusto figurativo che Mizoguchi aveva sviluppato negli anni del suo apprendistato artistico come disegnatore e pittore.
E la bravura di Mizoguchi nel dirigere le attrici è un’altra caratteristica (una delle tante) di questo maestro del cinema mondiale da vedere anche negli altri film della rassegna organizzata dalla Cineteca Italiana, focalizzata sull’ultimo periodo, che, oltre ai già citati, comprendono anche “Il ritratto della signora Yuki” e “La strada della vergogna”, l’ultimo film del ‘56.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Kenji Mizoguchi”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dall’ 11 agosto al 7 settembre 2015 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/omaggio-a-kenji-mizoguchi/
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Cineteca di Milano,
editoriale
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
sabato, agosto 22, 2015
MISSION: IMPOSSIBLE - ROGUE NATION
Mission: Impossible - Rogue Nation
di Christopher McQuarrie
con Tom Cruise, Jeremy Renner, Simon Pegg, Rebecca Ferguson
Usa, 2015
genere, azione
durata, 130'
È cosa
nota che un prodotto vincente non necessiti di ulteriori cambiamenti. A
provarlo non è solamente la ricorrenza del vecchio adagio quanto
piuttosto l'esperienza sul campo che il cinema e in particolare le
grandi Majors
hollywoodiane hanno messo a frutto attraverso produzioni ad alto tasso
di serializzazione. In questo ambito è però necessario, almeno a livello
di analisi, fare dei distinguo che solo apparentemente rientrano
nell'esercizio di retorica a cui talvolta è costretto il recensore nel
tentativo di supplire all'inconsistenza della materia prima che è
chiamato a giudicare. Il quinto capitolo delle avventure dell'agente
Ethan Hunt e dei suoi temerari compagni calza a pennello con la
tipologia di prodotto a cui abbiamo appena accennato, essendo non solo
un blockbuster di primo livello per marketing e investimenti finanziari ma anche per il fatto di presentare caratteristiche di omologazione rispetto al calco originale ("Mission: Impossible" di Brian De Palma)
che rendono gli episodi della saga pressoché identici. Per questo
motivo crediamo che nel parlare di "Mission: Impossible - Rogue Nation"
risulti poco interessante soffermarsi sugli elementi costitutivi di una
vicenda come al solito costruita tutta in salita, con i nostri eroi
costretti a dimostrare la propria lealtà, operando in un territorio ai
limiti della legalità, e rischiando la vita per salvarla a chi per primo
ne mette in dubbio la loro credibilità.
Meglio piuttosto registrare la
varianti che, pur sottili, esistono anche nel film diretto da
Christopher McQuarrie, new entry piazzata in cabina di comando per continuare a gestire il restyling operato nel capitolo precedente,
il più significativo nell'economia generale della saga, soprattutto per
quanto riguarda la centralità del personaggio principale, costretta a
fare posto al protagonismo degli altri membri della squadra e, diciamo
noi, alla bravura degli attori - Jeremy Renner e Simon Pegg - chiamati a
interpretarli; e, sempre in termini di novità, per la qualità
drammaturgica della storia, che la regia di Brad Bird ( "Gli
incredibili" ma anche "Il gigante di ferro") aveva vivacizzato con
inserti improntati a un tipo di humour che faceva il verso a quello sperimentato dallo stesso regista nei lungometraggi realizzati per conto della Pixar. In questo senso, "Rogue Nation" segna
a nostro avviso il ritorno in grande stile dell'agente segreto
interpretato da Tom Cruise e quindi, dell'attore stesso, presente in
grande spolvero soprattutto sotto il profilo della forma fisica (aspetto
da non sottovalutare se ricordiamo che molte delle critiche rispetto a
una possibile stanchezza del personaggio erano collegate anche
all'appannamento fisico dell'attore registrato in "Mission Impossible III").
Con la complicità del fido McQuarrie, già regista di quel "Jack Reacher" che aveva contribuito a rimetterlo in pista dal punto di vista commerciale, Cruise si esibisce dal primo all'ultimo minuto in una serie di acrobazie fisiche che tolgono ogni dubbio sull'eventuale incompatibilità anagrafica dell'attore rispetto al ruolo da lui interpretato.
Con la complicità del fido McQuarrie, già regista di quel "Jack Reacher" che aveva contribuito a rimetterlo in pista dal punto di vista commerciale, Cruise si esibisce dal primo all'ultimo minuto in una serie di acrobazie fisiche che tolgono ogni dubbio sull'eventuale incompatibilità anagrafica dell'attore rispetto al ruolo da lui interpretato.
Una restaurazione che da una parte restringe il raggio
d'azione degli altri attori, relegati al ruolo di comprimari, e che
dall'altra mette al bando quelle propaggini di ilarità introdotte dal
personaggio di Simon Pegg, qui, e non a caso, autore di
un'interpretazione ai limiti della seriosità. Ma non solo, perché
"Mission impossibile - Rogue Nation", a differenza dei film che lo hanno
preceduto, sembra guardare alle origini della saga e, nello specifico,
alla forma cinematografica del prototipo realizzato da Brian De Palma,
ripreso sia nella scelta dall'ambientazione mitteleuropea (con Vienna al
posto di Praga) e più in generale di quella matrice europea che aveva
influenzato - anche nell'uso ragionato degli effetti speciali - la
produzione del film del 1996, come pure nella similitudine della scena
dell'infrazione alla banca dati del nemico, simile per tempistica
(ambedue piazzate a metà del racconto) e modalità a quella in cui Tom
Cruise, calato all'interno del caveau
si ritrovava ad operare in uno stato di sospensione gravitazionale.
Arrivando a citare il regista di "Carrie" (qui il riferimento è fornito
dalla lunga sequenza dell'omicidio di "Snake Eyes") nell'inserto
organizzato all'interno del teatro dell'opera della capitale austriaca e
nel dietro le quinte di una rappresentazione operistica che, grazie
all'enfasi del commento canoro, diventa co-protagonista di una "caccia
al ladro", in cui, a farla da padrone, è il voyeurismo della mdp che attraverso il punto di vista dei personaggi ci presenta diverse facce della medesima realtà. Per il resto "Rogue Nation" è routine di
lusso, determinata a confermare il proprio marchio di fabbrica anche a
costo di risultare scontato e ripetitivo. Che tutto ciò basti a
realizzare il necessario "plusvalore" è tutto da dimostrare; sta di
fatto che paradossalmente è proprio l'incertezza del responso
finanziario a fornire un minimo di imprevedibilità rispetto alla
calcolata scientificità del divertimento che il film di McQuarrie ci
regala.
(pubblicata su ondacinema.it)
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venerdì, agosto 21, 2015
FUOCHI D'ARTIFICIO IN PIENO GIORNO
Fuochi d'artificio in pieno giorno
di D.Yinan.
con, L.Fan, G.Lun-Mei, W.Xuebing, W.Jingchun
Cina 2014
genere, noir
durata, 110'
Mal dissimulato nel sottoscala di un numero imprecisato di cervelli, il presagio-della-fine (fine del calore umano,
fine dei rapporti, fine della plausibilità delle storie), urla muto da
anni più della stravolta creatura di Munch, cercando e trovando anditi
sempre più confortevoli nei quali allignare prima di mostrarsi, un
giorno o l'altro, in tutta la sfrontatezza del suo mesto splendore. Nel
corpo millenario di un paese-continente come la Cina, l'estrema
incarnazione dello spirito-del-tempo si fa intelligibile nella ricaduta
capillare di certe croniche aporie del Capitalismo - alle nostre
latitudini illusoriamente mitridatizzate sebbene non passibili, a
tutt'oggi e, in generale, per aspetti intrinseci, di antidoto - Il suo
onanismo coatto e bifronte accumulativo/dissipatore, per dire. O
l'imperio, tanto più infido quanto più interrelato, di ben noti suoi semilavorati:
individualismo, narcisismo, indifferenza, alienazione, nevrosi,
aggressività, et. Ogni cosa a insistere sulle coscienze e le identità
dei singoli nel modo di un lavorio ad alto tasso di erosione, in grado
di produrre modificazioni non di rado sconvolgenti. Spesso, proprio
lungo questo crinale, si muove il Cinema (un certo tipo di Cinema),
azzardando riflessioni su un mondo in apparenza semplificato/pacificato
perché in tutto e per tutto razionale, invece quanto mai irrisolto e problematico, e a maggior ragione se l'irrazionale lo
si e' banalmente stipato nel profondo dei cuori, nell'inganno puerile
di vincerlo senza colpo ferire. In particolare, negli ultimi tempi,
questo certo-tipo-di-Cinema (una consistente fetta del quale e' proprio
in Oriente che risiede) ha sovente sfoderato la carta dei generi o, meglio, delle loro imprevedibili mescolanze, delle inesauribili scorciatoie, delle ibride filiazioni, per tentare l'indecenza di restituire - in un gioco certo non esente da rischi e per quanto fragile e a stento ancora, talvolta, riconoscibile - un luogo e uno slancio interiore dai quali guardare a ciò che e' da venire.
Anche
per tale ragione, un'opera come "Fuochi d'artificio in pieno giorno",
di Yinan (per una volta la trasposizione criminale del titolo originale
reso come "Black coal, thin ice" e' tutta a carico della sensibilità
anglosassone) e' si' riconducibile al noir ma in esso, pero', non si esaurisce del tutto, attraversata com'e' da sollecitazioni appartenenti tanto al dramma che al melo'; da dilatazioni e persistenze che a tratti sconfinano nella natura morta con dettagli di archeologia industriale; nell'istantanea onirica, dai colori lividi, impregnata di un gelo unanimemente ostile; in lacerti di suggestioni pop stranite o esauste, per comporre paesaggi umani, naturali e materiali che s'intestardiscono a resistere pressoché da soli (la storia, in quanto tale, e' quasi ovvia, nella sua aderenza ad una codificazione collaudata) alla desolazione, alla dispersione.
Su
simili direttrici, Zhang/Fan - detective ancor più introflesso e
disilluso dopo essere stato scaricato dalla moglie, che si ritrova agli
albori del terzo millennio ad indagare su resti umani macellati,
impacchettati e dispersi su un territorio vasto quanto una provincia, in
relazione ai quali il denominatore comune pare essere l'attività
estrattiva di un certo numero di giacimenti carboniferi - procede nelle
ricerche, tra piste inconcludenti, indizi fuorvianti, rivelazioni poco o
punto utili, maturando mano mano più che una verità investigativa,
tessere sparse di un puzzle più grande e più amaro, perdipiu' viziato da
una generalizzata insensatezza di fondo, preludio, con buona
approssimazione, di una fine inconsapevole tanto quanto miserabile,
sostanziata di atrofia sentimentale, brutalità, inerzia, a compimento di
quella apatia sintetica che, terminato il proprio lavoro in Occidente, guarda da un po' e con rinnovata bramosia alla Cina, ultimo esperimento moderno.
Itinerario
che, infine, si completerà un lustro a venire, allorché Zhang, oramai
preda dell'alcool, trasferito a diverse riprese tra le Sezioni del Corpo
di Polizia, riannoda i fili del vecchio caso mai risolto, agganciando
il proprio destino a quello della commessa di lavanderia Wu/Lun-Mei,
vedova ambigua e dolente, con/per la quale troverà l'ostinazione di
andare fino alla radice di una vicenda al tempo tragica e banale ("per
non pensare di essere un totale fallimento") e constatare, al di la' di
ogni facile consolazione (e smentendo il collega Liang/Xuebing, di li' a
poco trucidato senza pietà, che gli aveva risposto: "E perché, credi
che nella vita si possa anche vincere ?") che non e' vero l'assunto per
cui, in fondo, si tratta di morire. Non sempre, almeno. A volte c'è da
ricominciare a vivere, magari alla stregua di uno scherzo fuori copione,
di un'insolenza beffarda ma partecipe: come fuochi d'artificio in pieno
giorno.
TFK
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giovedì, agosto 20, 2015
LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: THE GALLOWS - L'ESECUZIONE
The Gallows
di Chris Lofing
con Reese Mishler, Pfeifer Brown
Usa, 2015
genere, horror
durata, 116'
Una morte accidentale avvenuta durante una rappresentazione teatrale, a scuola, filmata da un genitore in platea, e l'anniversario di una nuova rappresentazione di quello stesso spettacolo. Il soggetto, che pure poteva essere interessante, viene rovinato dall'ennesimo found-footage privo di idee e di una sceneggiatura abbastanza solida da far appassionare lo spettatore.
I protagonisti – pur introdotti da una lunghissima presentazione – non sono altro che calchi degli stereotipi umani del teen movie, e la scelta di utilizzare una soluzione registica così abusata non solo non è motivata, ma è addirittura resa incomprensibile dalla sceneggiatura, dal momento che a essere filmata è un'azione illegale e – nelle intenzioni – rapida da compiersi.
La decisione di utilizzare un'ambientazione così potenzialmente sinistra come un teatro, che ha anche fama di essere “infestato”, viene vanificata dal pessimo uso che si fa della scenografia, preferendo il ricorso a prevedibilissimi jump-scare, che interrompono la tensione e stravolgono il ritmo di quella che poteva essere una posata e graduale ascesa verso un finale che, seppure già rivelato, avrebbe potuto essere un'ottima chiusa.
A salvare la sceneggiatura non bastano nemmeno i pochi colpi di scena, che non riescono a smuovere l'interesse di uno spettatore ormai abituato a personaggi così bidimensionali che non aspetta altro che i cliché si succedano, uno dopo l'altro, fino al finale.
Le numerose contraddizioni interne – tra le quali spiccano tagli e riprese incoerenti – fanno implodere una struttura narrativa colpevole di molti, troppi sprechi, e rovinano un film che, se gestito con più cura, avrebbe potuto costituire un valido intrattenimento.
Michelangelo Franchini
di Chris Lofing
con Reese Mishler, Pfeifer Brown
Usa, 2015
genere, horror
durata, 116'
Una morte accidentale avvenuta durante una rappresentazione teatrale, a scuola, filmata da un genitore in platea, e l'anniversario di una nuova rappresentazione di quello stesso spettacolo. Il soggetto, che pure poteva essere interessante, viene rovinato dall'ennesimo found-footage privo di idee e di una sceneggiatura abbastanza solida da far appassionare lo spettatore.
I protagonisti – pur introdotti da una lunghissima presentazione – non sono altro che calchi degli stereotipi umani del teen movie, e la scelta di utilizzare una soluzione registica così abusata non solo non è motivata, ma è addirittura resa incomprensibile dalla sceneggiatura, dal momento che a essere filmata è un'azione illegale e – nelle intenzioni – rapida da compiersi.
La decisione di utilizzare un'ambientazione così potenzialmente sinistra come un teatro, che ha anche fama di essere “infestato”, viene vanificata dal pessimo uso che si fa della scenografia, preferendo il ricorso a prevedibilissimi jump-scare, che interrompono la tensione e stravolgono il ritmo di quella che poteva essere una posata e graduale ascesa verso un finale che, seppure già rivelato, avrebbe potuto essere un'ottima chiusa.
A salvare la sceneggiatura non bastano nemmeno i pochi colpi di scena, che non riescono a smuovere l'interesse di uno spettatore ormai abituato a personaggi così bidimensionali che non aspetta altro che i cliché si succedano, uno dopo l'altro, fino al finale.
Le numerose contraddizioni interne – tra le quali spiccano tagli e riprese incoerenti – fanno implodere una struttura narrativa colpevole di molti, troppi sprechi, e rovinano un film che, se gestito con più cura, avrebbe potuto costituire un valido intrattenimento.
Michelangelo Franchini
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mercoledì, agosto 19, 2015
OUR SUNHI
Our Sunhi
di Hong Sang-soo
con Jae-yeong Jeong, Yu-mi Jeong, Ji-won Ye
Corea del sud, 2013
genere, drammatico, commedia
durata. 88'
Arriva dalla Corea del Sud la prima sorpresa del festival e il merito appartiene al regista Hong San-soo e al suo "U ri Sunhi" collocatosi in questa terza giornata del concorso ufficiale con una leggerezza che fa da contraltare alla drammaticità e alla cupezza degli altri concorrenti. Il film racconta la storia d'amore e d'amicizia tra quattro personaggi: al centro dell'attenzione c'è Sunhi, laureata in cinema e in procinto di partire per l'America per dare seguito agli studi. Accanto a lei un trio di uomini che rappresenta il passato e il presente del suo vissuto: Choi il professore alla quale Sunhi si rivolge per ottenere una lettera di raccomandazione, Munsu l'ex ragazzo che non ha smesso mai d'amarla e, ancora Jaehak, il regista con cui si è diplomata. Il destino li porrà uno sulla strada dell'altro facendo tornare in gioco situazioni irrisolte e speranze di futuro che la ragazza mette in circolo all'insaputa dei tre uomini, ognuno dei quali convinto di conoscerne i sentimenti e di esserne il fulcro dei pensieri.
Partendo da un'esperienza personale - il regista è stato un insegnante di cinema e come Choi si è imbattuto in una studentessa che, come ad un certo punto accade a Sunhi, gli contestò i contenuti della referenza che lui le aveva scritto - Hong trascolora la realtà trasformandola in una sorta di favola morale in cui situazioni e personaggi più che vivere di vita propria sembrano il condensato di uno stato d'animo e di una visione del mondo incomprensibile e sfuggente, che il regista però riesce a sdrammatizzare anche nei momenti più drammatici con ironia sottile e sarcastica, depotenziando ansie e dolori attraverso un mix di comicità dai tratti surreali e persino slapstick; gli attori sono guidati in una recitazione sul filo del rasoio, sempre sul punto di esplodere in una fisicità buffa e fuori controllo. Immergendo il cast in un mondo colorato e sospeso, con la natura edenica e rumori quasi assenti, Hong Sang-soo sviluppa il film attraverso una serie di quadri organizzati con un gusto della rappresentazione fortemente teatrale e nella costante ricerca di equilibrio tra ambienti e figure umane.
Ed è proprio il contrasto tra la compostezza dell'insieme con il tumulto e le incertezze dell'animo umano a favorire quella sensazione di stralunamento che i personaggi riescono a far percepire a chi li guarda. Costruito su una sceneggiatura circolare che ruota continuamente attorno al tentativo maschile di definire ed imbrigliare senza successo il mistero femmineo - credendo di interpretare i tratti salienti della ragazza i tre uomini non faranno altro che prestarsi definizioni frettolose e poco calzanti - "U ri Sunhi", attraverso il rapporto tra la protagonista e i suoi pretendenti, sembra volerci dire che la realtà più che interpretata va presa così com'è, e che a volte il cinema ed i suoi autori farebbero meglio a tornare alla semplicità delle origini, per ritornare a guardare realmente l'oggetto del proprio desiderio.
(pubblicata su ondacinema.it)
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66 Festival di Locarno,
anteprime. recensioni
martedì, agosto 18, 2015
68 FESTIVAL DEL FILM DI LOCARNO - ROMEO E GIULIETTA
Romeo e Giulietta
di Massimo Coppola
Italia, 2015
genere, documentario
durata, 56'
Deve essere stato per un inconscio senso di colpa, derivato dal successo dei film realizzati per conto di Paolo Sorrentino, o forse, più concretamente, si è trattato della volontà di diversificare una produzione ultimamente dedicata alle sulfuree storie dell'autore Napoletano, fatto sta che la Indigo film di Francesca Cima e Nicola Giuliano si presenta al festival di Locarno con un film "Romeo e Giulietta" di Massimo Coppola, collocato per stile e contenuti agli antipodi di quelli instaurati dall' enciclopedia sorrentiniana. Nel caso specifico si trattava di fare i conti con il capolavoro Shakesperiano, inteso non soltanto nella sua accezione letteraria e immaginifica, ma, alla maniera dei fratelli Taviani de "Cesare non deve morire", scelto sulla base di un'universalità in grado di dialogare con persone di ogni ordine e grado. Nel "Romeo e Giulietta" Coppoliano infatti, la storia d'amore tra gli amanti più celebri della letteratura mondiale è interpretata da un gruppo di giovani Rom, arruolati nel campo nomadi di Tor de Cenci in Roma, chiamato a sostituire in un cortocircuito tra cultura alta e bassa, la Verona del cinquecento.
Alla base della nuova rivisitazione, l'idea di un cinema che evita di alzare gli steccati e che invece si apre al mondo circostante, nel tentativo di diventarne parte integrante. In analogia con le caratteristiche della messinscena, realizzata senza distinguere tra campo e fuori campo, e in una commistione tra realtà e finzione, qui assicurata dalla presenza catartica del regista, chiamato, in qualità di mentore dei ragazzi, ad assolvere a quelle funzioni pedagogiche di cui il film, nelle parole dell'autore, diventa promotore. Quello che ne risulta è una sorta di work in progress sull'allestimento della tragedia, in cui scene di vita quotidiana all'interno del campo si alternano al tentativo degli interpreti di entrare nello spirito dei loro personaggi. L'impresa è ardua, sia davanti che dietro la mdp. e le ambizioni di "Romeo e Giulietta" si risolvono in un film che appare più programmatico che sentito.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)
di Massimo Coppola
Italia, 2015
genere, documentario
durata, 56'
Deve essere stato per un inconscio senso di colpa, derivato dal successo dei film realizzati per conto di Paolo Sorrentino, o forse, più concretamente, si è trattato della volontà di diversificare una produzione ultimamente dedicata alle sulfuree storie dell'autore Napoletano, fatto sta che la Indigo film di Francesca Cima e Nicola Giuliano si presenta al festival di Locarno con un film "Romeo e Giulietta" di Massimo Coppola, collocato per stile e contenuti agli antipodi di quelli instaurati dall' enciclopedia sorrentiniana. Nel caso specifico si trattava di fare i conti con il capolavoro Shakesperiano, inteso non soltanto nella sua accezione letteraria e immaginifica, ma, alla maniera dei fratelli Taviani de "Cesare non deve morire", scelto sulla base di un'universalità in grado di dialogare con persone di ogni ordine e grado. Nel "Romeo e Giulietta" Coppoliano infatti, la storia d'amore tra gli amanti più celebri della letteratura mondiale è interpretata da un gruppo di giovani Rom, arruolati nel campo nomadi di Tor de Cenci in Roma, chiamato a sostituire in un cortocircuito tra cultura alta e bassa, la Verona del cinquecento.
Alla base della nuova rivisitazione, l'idea di un cinema che evita di alzare gli steccati e che invece si apre al mondo circostante, nel tentativo di diventarne parte integrante. In analogia con le caratteristiche della messinscena, realizzata senza distinguere tra campo e fuori campo, e in una commistione tra realtà e finzione, qui assicurata dalla presenza catartica del regista, chiamato, in qualità di mentore dei ragazzi, ad assolvere a quelle funzioni pedagogiche di cui il film, nelle parole dell'autore, diventa promotore. Quello che ne risulta è una sorta di work in progress sull'allestimento della tragedia, in cui scene di vita quotidiana all'interno del campo si alternano al tentativo degli interpreti di entrare nello spirito dei loro personaggi. L'impresa è ardua, sia davanti che dietro la mdp. e le ambizioni di "Romeo e Giulietta" si risolvono in un film che appare più programmatico che sentito.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)
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