Yo-Yo Ma e i musicisti della via della seta
di Morgan Neville
con Yo-Yo Ma, Kinan Azmeh, Kayhan Kalhor
USA, 2015
genere: documentario
durata: 95'
Figlio di un musicologo violinista e di una cantante lirica di Hong Kong, nato a Parigi nel 1955 e
cresciuto a New York, il celebre violoncellista Yo-Yo Ma conosce bene, anche se non direttamente,
l'oppressione dei regimi rispetto alla libera espressione artistica. Così anche diversi componenti
della Silk Road Ensemble, collettivo internazionale di circa cinquanta musicisti da lui riunito nel
2000. L'ex bambino prodigio, che a 7 anni ha suonato alla Casa Bianca davanti a JFK e Jackie
Kennedy, noto per le sue interpretazioni dei classici, da Bach a Beethoven, da Schumann a
Dvorak, ma anche per il suo eclettismo, è riluttante a restare ingabbiato nel repertorio.
Prima ha portato la musica fuori dalle accademie e dagli auditoria, a beneficio di chi più
difficilmente ne godrebbe, poi fondato quel progetto dietro il quale sta l'idea di ricreare quel tessuto
connettivo, ovvero di scambio non solo commerciale ma anche creativo, che caratterizzava la via
della seta, antichissimo collegamento tra Cina e Mediterraneo. In poco più di 15 anni la formazione
ha realizzato sette album, suonando in trentatré diversi Paesi.
Per rappresentare cinematograficamente questa sua idea Ma si affida a Morgan Neville, già
produttore di diversi documentari musicali, nonché premio Oscar 2014 per il documentario 20 Feet
From Stardom, inedito in Italia, sul ruolo di quei cantanti di seconda fila che rispetto ai divi per cui
lavorano stanno "a venti passi dalla fama". Invece di riposare sugli allori di un successo acclarato,
Ma desidera uscire dal divismo della classica e interrogarsi sul compito dell'artista, che può andare
molto oltre la perfezione dell'esecuzione in sé. Ovvero la ricerca di sé, citando Leonard Bernstein.
In una delle prime sequenze lo si vede infatti dietro le quinte di un teatro minimizzare e canzonare
l'ampollosa presentazione che precede il suo ingresso.
L'incontro tra Ma e Neville dà luogo a un film che si prefigge di celebrare il potere unificante e
universale della musica, la sua straordinaria capacità di connessione tra esseri umani oltre ogni
diversità etnica e religiosa.
Nel farlo, non si sofferma tanto sul suo protagonista, sugli aspetti della
creazione musicale o sulle performance concertistiche, quanto sulle esperienze di quattro di loro:
Wu Man, campionessa di liuto cinese, che ricorda i limiti della Rivoluzione culturale e ci fa scoprire
l'ultima generazione degli Zhang, suonatori e artisti di teatro di figura; il siriano Kinan Azmeh,
clarinettista, che nonostante la devastazione del suo paese vede nella musica un futuro; Cristina
Pato, virtuosa della gaita, la cornamusa galiziana, e fiera conservatrice delle isolate tradizioni
locali; l'esiliato Kayan Kalhor, maestro di kamancheh, antico strumento a corde iraniano,
sopravvissuto a traversie causate da repressioni e conflitti. Tra le loro testimonianze passano in
rapida successione immagini naturali e paesaggistiche, anche vere e proprie esplosioni
cromatiche, a tratti estetizzanti, con il preciso compito di interrompere con una prorompente
bellezza racconti individuali spesso drammatici. Il film è produttivamente complesso, con
tantissime le location, da Istanbul a Boston, da Teheran alla Spagna, anche difficili, come il capo
profughi siriano o la Cina.
Più che documentario strettamente musicale, il film è saggio umanista sull'importanza di
preservare musica, lingua, cultura, per scambiarle e continuamente arricchirle nell'incontro con
l'Altro: un inno alla simpatia, nel senso più originale di condivisione e connessione, di corde che
vibrano insieme, di atto politico e gioioso di contrasto a qualsiasi tentativo di divisione. Un film teso
a tal punto all'utopia che, per l'intensità con cui la mostra, in chiusura quasi rischia l'enfasi.
La portata dell'esperienza resta trascinante, come la musica della Silk Road Ensemble; i
movimenti di macchina volanti nella prima performance en plein air, così come nelle altre, danno
l'illusione che un altro mondo sia veramente possibile.
Riccardo Supino
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