About the young idea
di Bob Smeaton
genere, documentario
UK, 2015
durata, 90’
“Quando saremo diventati polvere,
magari qualcuno tornerà sulle nostre
cose”.
- P.Weller, a negare qualunque ipotesi
di ricostituzione del gruppo -
Esistono band in grado d’infiggersi nel cuore delle persone con una forza tale che neanche il tempo (tantomeno un prematuro e definitivo scioglimento) riesce a scalzarle dal loro giardino segreto. Avventura esemplare e parabola limitata - una manciata di anni a cavallo tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80: brevità, in linea, volendo metaforizzare, con buona parte delle loro composizioni - sono quelle ricostruite nel documento firmato da Bob Smeaton dedicato al gruppo britannico degli Jam, capitanato da Paul Weller (1958, voce e chitarra), chiuso a triangolo da Bruce Foxton (1955, basso) da un lato e da Rick Buckler (1955, batteria) dall'altro, a gloriosa perpetuazione della santa trinità dell’energia rock nella primordiale eppur classica formazione chitarra-basso-batteria e giunto al canto del cigno nel dicembre 1982 a Brighton, quando si esibì per un ultimo concerto.
Essenziale e diretto, “About the young idea” tesse per immagini le vicende della formazione nata nel piccolo centro di Woking - area metropolitana londinese del Surrey - in pochi anni proiettata verso una popolarità la cui ampiezza, nel gran calderone della cosiddetta musica di massa, è risultata (tirando le somme e caso raro) pressoché non contraddittoria rispetto all’autenticità e all'immediatezza rivendicata dal materiale proposto, moltiplicando e incrociando il punto di vista fatalmente retrospettivo dei protagonisti (più distante e pacato quello di Weller, incline per carattere e avvezzo per prassi alle sfide e alla ricerca di sentieri nuovi; più combattuto e qua e là punteggiato d'amarezza quello di Foxton e Buckler, incapaci alla lunga d'inventarsi una precisa fisionomia solista, tanto da riesumare in tempi recenti il vecchio ensemble con l'etichetta From the Jam, esperimento dal quale Weller, senza polemiche ma con decisione, s'è tenuto alla larga), con quello parimenti nostalgico ma scevro quasi del tutto dal sentimentalismo e dal biografismo giulebboso e auto-contemplativo di personaggi comuni, diversi per estrazione, formazione ed inclinazioni (spiccano il coinvolgimento e la rievocazione partecipata quanto critica dell'attore Martin Freeman), che hanno trovato nella musica degli Jam coagulo ideale e denominatore comune per le tensioni e le aspettative dei propri anni verdi. Scorrono così le istantanee e le sequenze-reperto di una Londra (e dintorni) eminentemente, schiettamente e, verrebbe da dire, cocciutamente proletaria, percorsa da ambivalenti e spesso rabbiose spinte interne (eravamo agli albori delthatcherismo), luogo europeo simbolo di una transizione contraddistinta da torsioni conservatrici che su scala più vasta contribuirono anche a relegare in via definitiva nel passato i cascami di una stagione irripetibile, quella della grande illusione dell'era dei colori e della fantasia, sostituendo ad essi i rigori di una visione severa, iper-materialista, noncurante dei destini dei maldisposti o degli apertamente ostili ad un'organizzazione sociale di mera impostazione quantitativa, in sostanza refrattaria alla mediazione, come sospettosa verso il dissenso ("I first felt a fist and then a kick/I could now smell their breath/They smelt of pubs and wormwood scrubs" - da Down at the tube station at midnight -). In relazione a tale assunto, un fenomeno come quello degli Jam il quale - è utile ricordarlo anche per comprendere meglio prese di posizione e scelte future dei singoli componenti (in particolare quelle di Weller) - affonda le proprie radici in un terreno tanto percorso da vene sotterranee comuni ad esperienze propriamente rock, punk, di derivazione mod, et., quanto irrorato da linfe soul, rythm'n'blues,funky, et., si connota e s'inserisce in un contesto di drastiche contrazioni del tessuto comunitario e di asprezze nei rapporti di forza tra i vari portatori d'interessi e rappresenta - con tutte le incoerenze del caso (per un certo periodo i Jam sollevarono non solo tra i propri seguaci più di una perplessità al momento di annunciare pubblicamente l'intenzione di votare a favore del Tory Party) - l'ennesima manifestazione artistica che veicola e prova a farsi interprete, dal basso - così come pari interpreti erano stati, in momenti più o meno coevi e con sfumature diverse, ad esempio, gli Who, i Sex Pistols e i Clash - di sentimenti, di stati d'animo, d'illusioni germinate e presto infrante, di episodi di cronaca o della storia (al tempo) recente, appartenenti ad un fascia di popolazione - genericamente quella giovanile - per la gran parte marginale, orfana di prospettive e di riferimenti credibili, ignorata dalle istituzioni e vezzeggiata dal Mercato solo come potenziale aggregato informe per un consumo reiterato e passivo. Un'idea giovane, appunto, in grado di guardare, allo stesso tempo, alle tradizioni non solo patrie dell'espressività e dell'inventiva musicale (come a quella, lato sensu, ascrivibile all'immagine: i Jam hanno sempre optato per un'apparenza tanto stilizzata, quanto di gusto retrò, privilegiando, per dire, abiti aderenti di taglio sartoriale e di preferenza di colore scuro, scelta, per altro, in coerente corrispondenza e continuità con un repertorio di pezzi spesso veloci, ritmati, aggressivi) e di proiettarsi nel futuro con la pretesa/presunzione/illusione sacrosanta di non arrendersi all'evidenza di un mondo le cui prospettive sembrano irrevocabilmente segnate ("You choose your leaders and place your trust/As their lies wash you down and their promises rust/.../And the public wants what the public gets/But I don't get what this society wants" - da Going underground -).
Proprio tale calma irrequietezza - che erompe in particolar modo dalle scene che ritraggono il terzetto dalvivo; dalla loro sobria disponibilità ad intrattenersi nei dintorni del palco con ragazzi e ragazze più o meno coetanei; da certi sguardi affilati di Weller un attimo prima di scatenarsi in un assolo; dalla composta soddisfazione e dalla velata malinconia mista a stupore che mostrano i musicisti al momento di ripercorrere con il ricordo o di ritrovare dopo tanto tempo ciò che resta degli spazi che avevano reso possibile tentare un cammino alternativo - individua il lato migliore del lavoro di Smeaton: una sorta di sommessa ma continua frizione tra l'urgenza di comunicare un lato vitale e poetico della realtà che altrimenti si scioglierebbe nella rinuncia e finirebbe riassorbito nella frustrazione e la consapevolezza - in minore, si potrebbe dire - per cui seppur gran parte di quello slancio è andato davvero perduto in ragione dell'inumana capacità del famigeratoSistema di metabolizzare qualunque eversione, qualunque turbativa, qualunque discrepanza, qualcosa però è rimasto, ciò che è stato non è stato del tutto invano, in specie se ancora pulsa e interroga nel quotidiano di tutti quelli che non riescono a smettere di fischiettare In the city ("In the city there's a thousand faces all shining bright/And those golden faces are under twenty-five/They wanna say, they gonna tell you/About the young idea/You better listen now you've said your bit-a").
TFK
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