lunedì, dicembre 30, 2019

RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME



Ritratto della giovane in fiamme
di Céline Sciamma
con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Valeria Golino
Francia, 2019
genere, storico, drammatico, sentimentale
durata, 119’



Intenso e malinconico. Coraggioso e silenzioso. Basterebbero questi quattro aggettivi per descrivere uno dei film più interessanti dell’anno, ma che è presente in sala solo dagli ultimi giorni di questo 2019. “Ritratto della giovane in fiamme” è il nuovo film di Céline Sciamma che ha già ottenuto il “prix du scénario” al Festival di Cannes e numerose candidature a vari premi, tra cui anche quello come miglior film straniero ai prossimi Golden Globes. La storia, ambientata intorno al 1700, non è altro che il lungo flashback della protagonista Marianne, giovane artista che, durante una lezione di pittura, viene interrogata da una delle sue allieve a proposito di un quadro da lei dipinto anni prima dal titolo, appunto, “ritratto della giovane in fiamme”.

Marianne inizia a raccontare (o a ricordare?) quella che è stata una travolgente storia d’amore che l’ha vista protagonista. L’artista viene chiamata su un’isola della Bretagna per dipingere il ritratto di Héloïse, figlia di una nobile decaduta. Quest’ultima, dopo aver vissuto in convento, è stata richiamata a casa successivamente alla misteriosa morte della sorella per poterla sostituire nel matrimonio combinato con un nobile di Milano. Quest’ultimo, non conoscendo la sua futura moglie, ne richiede un ritratto, ma la giovane si rifiuta di posare perché sa che, nel momento in cui l’opera sarà finita, lei dovrà sposare un uomo che non conosce e con il quale non vorrebbe avere niente a che fare. La madre decide allora di ingaggiare Marianne che dovrà fingersi dama di compagnia e memorizzare il volto e i tratti della giovane per farne il ritratto in segreto. Col passare dei giorni tra le due si instaura un rapporto molto profondo e la semplice compagnia, inizialmente quasi ostile, si trasforma in qualcosa di più.

Interessante il sottolineare l’importanza delle immagini e dei silenzi. “Ritratto della giovane in fiamme” è un film dove la parola fa da contorno, in un universo dove solo le immagini (emblematico il continuo parallelismo tra la storia delle due ragazze e i ritratti sulla tela), gli sguardi e le azioni a parlare. Lunghi momenti di silenzio che lasciano spazio, sia nella mente dello spettatore che in quella dei personaggi, a momenti di riflessione. Quasi come se la regista volesse guidare il pubblico, prima lanciando un’idea e poi fornendo il tempo per metabolizzare ciò che viene messo sullo schermo. Le parole sono sempre perennemente calibrate con un’attenzione a non andare mai troppo oltre, così come avviene per la realizzazione stessa del ritratto, che va di pari passo anche con l’evoluzione del rapporto dei personaggi e con quella dell’individualità dei personaggi.

Un’incredibile riservatezza è la vera protagonista della vicenda, specialmente nella prima parte, con un accento sui limiti e i confini entro i quali rimanere, senza osare o addirittura esagerare. Menzione speciale anche alla scelta delle luci e delle illuminazioni che contrastano fortemente tra loro per sottolineare ancora di più, oltre che la differenza tra esterno (dove per seguire regole e convenzioni sociali si è costretti, talvolta, ad indossare delle maschere celando la propria personalità) e interno (dove, invece, si è liberi di agire e mostrarsi), anche la differenza tra un prima contorto e insicuro e un dopo ben più solido anche se praticamente impossibile.
Veronica Ranocchi

THE FAREWELL - UNA BUGIA BUONA


The Farewell – una bugia buona
di Lulu Wang
con Awkwafina, Tzi Ma, Diana Lin
USA, 2019
genere, drammatico, commedia
durata, 100’



Passato un po’ in sordina e non presente in tutti i cinema, “The Farewell” è la chicca da non perdere assolutamente. La giovane Billi vive a New York, dove è emigrata con i suoi genitori dalla Cina, quando era molto piccola. Un giorno scopre che alla sua anziana nonna Nai Nai viene diagnosticato un tumore incurabile ormai in fase molto avanzata. Tutti i parenti della numerosa famiglia cinese sono decisi a non rivelare niente all’anziana per non spaventarla, ma, per vederla un’ultima volta, decidono di rientrare tutti in patria con la scusa di un finto matrimonio del cugino di Billi. La cerimonia diventa l’occasione per rivedere tutti i parenti e passare giornate e momenti in compagnia. Nai Nai non sospetta nulla e decide di occuparsi in prima persona dei preparativi del matrimonio.
L’unica a non essere completamente d’accordo con questa decisione è Billi che ritiene di non dover nascondere un segreto così importante a una delle persone a lei più care e vicine, nonostante la distanza geografica. Alla fine, però, anche lei è costretta a cedere al volere della famiglia non raccontando niente alla nonna.La storia, abbastanza semplice e lineare, è soltanto un pretesto per riflettere su alcune dinamiche familiari e non. Si ride e si piange dall’inizio alla fine e lo si deve, oltre che agli attori (specialmente alla protagonista Awkwafina), alla regista Lulu Wang, che riesce a creare una storia efficace sotto tutti i punti di vista.

In primis sicuramente i legami familiari che sono al centro dell’intera dinamica e che, attraverso i vari personaggi e il modo di agire e comportarsi, vengono sviscerati completamente tanto da rendere impossibile non immedesimarsi almeno con uno di loro. La sensazione che si ha, uscendo dalla sala, è quella di correre ad abbracciare il proprio parente più vicino.Altro aspetto interessante è l’incontro di culture diverse, o meglio il fatto che ci siano influssi esterni in una cultura e tradizione ben consolidata come quella della famiglia cinese della protagonista. Il pretesto della malattia della nonna serve, oltre che per avvicinare la famiglia, anche per far comprendere determinate scelte ai personaggi. Ed è proprio la giovane Billi che, al termine della vicenda, apprende un’importante lezione.

Interessante anche la struttura della storia e il modo in cui essa viene narrata, come ad esempio il rallenti in primo piano della protagonista, con i genitori, gli zii e il cugino che sembrano quasi abbracciare lo schermo per “inglobarlo” all’interno della narrazione. Ma anche le riflessioni che vengono fatte, da alcuni personaggi, durante lo sviluppo della storia. E ancora le interessanti inquadrature in occasione dei numerosi pasti ai quali partecipano tutti i personaggi, intorno a grandi tavole imbandite. Una commedia seria o una tragedia divertente? Sicuramente un film da non perdere e dal quale poter ricavare una serie di riflessioni, ma soprattutto insegnamenti
Veronica Ranocchi

domenica, dicembre 29, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Scarlett Johansson (Storie di un matrimonio)

INVISIBILI: L'ÂGE ATOMIQUE


L’âge atomique
di Hélén Klotz
con, Eliott Pacquet, Dominik Wojcik, Niels Schneider, Mathilde Bisson, Clèmance Boisnard
Francia, 2012
genere, drammatico
durata, 67’


Secoli su secoli dimenticando il mondo
e ancora
secoli su secoli dimenticando il mondo
Attimo per attimo dimenticando tutto
e ancora
attimo per attimo dimenticando tutto
Con te
con te
con te
con te
con te
- Scisma -



E’ raro ma esiste, coincidendo per lo più con l’acme della prima giovinezza, quell’istante - lirico, inerme e perentorio - in cui la vicinanza tra spiriti affini sposa lo stupore del mondo nella magia di una tregua irripetibile tra sé e l’esistenza. Victor/Pacquet - simil fratello corrucciato del Casablancas degli Strokes - e Rainer/Wojcik - specie di Baudelaire in giubbotto di pelle e alcool da due soldi in corpo - vivono siffatta epifania durante una fredda notte spesa tra i boulevards e i ponti di Parigi alla ricerca di una compagnia affettuosa (Victor: “L’ingenuità è bellissima. E’ rara al giorno d’oggi”); di una rivelazione decisiva (Rainer: “Adesso è l’ora magica. L’ora blu. L’ora in cui la città delle luci trema in un’alba risonante a Madrid o a Vienna”): entrambi in fuga dalla desolazione consustanziale alla modernità e dalle inquietudini senza sbocco di un’età precocemente avveduta.



In palese contrasto con la deriva realista cara a una consistente parte della cinematografia contemporanea, l’esordiente (al lungometraggio) figlia d’arte Klotz avvolge la sua storia entro una bolla di impermeabile eppure nervosa indeterminatezza, come se i rari eventi, colti sul farsi più che narrati - i giochi di seduzione abortiti o fallimentari all’interno di una discoteca; la contesa dai risvolti filosofici poi degenerata in rissa con un gruppo di coetanei; il girare a vuoto registrando un progressivo restringimento di prospettive che risuona ben oltre le contingenze di un’evasione sottratta alla routine - pretendessero comunque l’orizzonte di una verginità oramai fuori contesto, spettro beffardo che alligna in ogni sguardo deluso, in ogni slancio troncato sul nascere dalla ipocrisia e dal fatuo ribellismo altrui, generatore automatico di stupide umiliazioni: nel candore gentile scambiato per debolezza, e alla quale solo il dettato senza tempo dell’incedere poetico e il reame irriducibile del sogno (Reiner: “Dormo male in questi giorni. Non so cosa fare. Così ho ricominciato con la poesia. Leggo tutta la notte e mi addormento recitando brani che ho imparato a memoria. E’ il modo che ho per sognare”) sono in grado di restituire una voce sincera utile a rendere conto dell’inadeguatezza e del profondo senso di solitudine che traspira da un vero immaginato, progettato e realizzato al fine esclusivo di statuire una dimensione meramente materiale dell’esperienza umana, ossia, di fondo, una quinta amorfa e servizievole - per quanto spietata - cieca e muta a istanze che di fronte a quel fine riluttano, terreno fertile, d’altro canto e banalmente, per i semi di quella disperazione tanto furente quanto inane, oramai davvero incistata fin dentro gli atomi delle nuove generazioni.

Soprattutto per questo, l’eterno ritorno dei soliti errori, la fiducia nonostante tutto accordata alla giostra dei sentimenti, il velleitarismo delle presunzioni e gli accorgimenti espressivi volti a eternarli offrendo loro una consistenza esemplare acquistano, nell’autoindulgenza inerme e nella pacata sfrontatezza, il febbrile incanto delle prime volte, la sensazione falsissima - eppure sublime - della vita-messa-tra-parentesi anche grazie al riscatto inatteso regalato da una possibilità che vuole a tutti i costi trascenderla, schivando, d’incontro si potrebbe dire, le risacche infette del poeticismo (“Nudo nuoto verso i sentieri galattici dell’Oceano Pacifico… Stanco, la fronte coperta di nebbia, giaccio steso sulla cresta di un’onda che rilascia la sua schiuma nel mare di corallo gettandomi sulle coste della Guinea… Naufragato su un arcipelago abitato da sirene, totem e vecchi stregoni, tra il vento che soffia e quell’attrazione stellare, dico a me stesso che la vera felicità si trova solo in un amore folle”), come dalla furia grezza ma non meno delicata che si incarica della sua rappresentazione (un morbido tappeto sonoro elettronico che oscilla dalle pulsazioni più nette di ritmi ballabili a dilatazioni aurorali care a taluni impressionismi di Sylvian, cinge a mo’ di membrana amniotica un’opera per evidenti ristrettezze girata con una camera digitale privilegiando primi piani e contati movimenti ma pure pronta a occhieggiare, in intermezzi sospesi tra silente passività e disincanto, gli angoli di una Parigi ritrosa a emergere da un buio pressoché uniforme o dai riflessi blu di un ambiente chiuso o ancora da quelli dorati di un sottopasso), nel tentativo, fragile ma per la sua speciale natura rigoroso, in un mondo in cui ci si bacia “per vincere una scommessa”, di opporre alla brama quantitativa e al torpore dei sensi - e proprio in limine, au bout de la nuit, come diceva qualcuno - una trasognata, platonica e tenera dichiarazione d’amore, provando a ignorare il controcanto avido della sua promessa: “Spazio… Dovremmo spegnerle, le città e tornare all’oscurità. Questo sarebbe progresso”.
TFK

I DUE PAPI


I due Papi
di Fernando Meirelles
con Anthony Hopkins, Jonathan Pryce, Juan Minujin
USA, Regno Unito, Italia, Argentina, 2019
genere, biografico, drammatico, commedia
durata, 125’


Grande attesa e grande curiosità attorno al prodotto interamente targato Netflix e diretto da Fernando Meirelles dal titolo “I due papi”. Naturalmente il riferimento è al momentaneo e straordinario momento storico nel quale, oltre al papa effettivo, è in vita anche il suo predecessore che si è dimesso dalla sua carica. I protagonisti sono, quindi, il cardinale Bergoglio che vestirà i panni di papa Francesco e il cardinale Ratzinger che, invece, vestirà quelli di papa Benedetto XVI. La storia è quella che tutti noi conosciamo. Dopo la morte di Giovanni Paolo II si riunisce il conclave per eleggere il nuovo successore di San Pietro che sarà, appunto, il cardinale tedesco Joseph Ratzinger. Interpretato da un eccellente Anthony Hopkins, quest’ultimo diventa papa Benedetto XVI dopo una prima fumata nera. Fin da subito è interessante notare l’attenzione e la concentrazione specifica sul rapporto tra i due personaggi, inizialmente scostante e difficile, ma che, col tempo, va a mitigarsi sempre più fino al fiorire di una bella e solida amicizia.

La visione del mondo e della fede, la percezione dell’uomo, delle sue azioni e di tutto ciò che ne deriva sono completamente diverse per i due papi. Se da una parte abbiamo una figura più “rigida” e ligia alle regole, a prescindere dal fatto che esse possano essere giuste o sbagliate, dall’altra c’è qualcuno di decisamente più sovversivo, che ama cambiare continuamente le carte in tavola. E sarà proprio grazie a questa diversità che i due si incontreranno più e più volte per affrontare tematiche e aspetti della propria vita e poter riflettere grazie alle parole e agli insegnamenti dell’altro. Ognuno sarà lo spunto e l’ancora di salvezza dell’altro. Ciò che, però, viene fuori dalla narrazione è un’opera che smaschera i personaggi, cercando di dare vita alle persone. Dopo la visione ognuno si sente più vicino e più in sintonia con entrambi capendo le decisioni e le motivazioni che ne sono seguite e comprendendo che, a prescindere da tutto, e nonostante la posizione di rilievo, si tratta comunque di due persone con i propri pensieri e le proprie vite.

Viene quasi voglia di partecipare alle loro chiacchierate, guardare una partita di pallone con loro ed esultare insieme. Sembra assurdo anche pensare che non possano compiere semplici azioni quotidiane senza autorizzazioni, permessi e persone coinvolte. Il grande pregio di questo film è l’aver umanizzato due personaggi trasformandoli in comuni mortali. E naturalmente parte del merito va agli interpreti: il già citato Anthony Hopkins, ma anche il somigliantissimo Jonathan Pryce nelle vesti di un divertente, ma “enigmatico” papa Francesco.
Veronica Ranocchi

LA DEA FORTUNA


La dea fortuna
di Ferzan Ozpetek 
con Stefano Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca
Italia, 2019
genere, commedia
durata, 118'


Come in altri lavori Ferzan Ozpetek fa del piano-sequenza iniziale de "La dea fortuna" la figura fondante della sua narrazione. Il percorso compiuto dalla mdp per arrivare all’ultima delle stanze dietro la quale porta si odono invocazioni d’aiuto e d’attenzione non è solo il modo per introdurre lo spettatore al mistero del film, quello che, facendo riferimento a un antico trauma, circoscrive lo spazio a cui tornare per sciogliere i nodi esistenziali che impediscono di continuare ad andare avanti, nonostante tutto. La mancanza di riferimenti topografici rispetto all’ambiente in cui si svolge la scena, il passaggio dal buio alla luce, il protrarsi della ricerca espedita con vari tentativi e solo al termine di essa, la scoperta di una presenza importante e "magnifica" ma invisibile a occhio nudo sono i pezzi messi insieme dall’autore per descrivere una zona dell’anima prima ancora che un territorio fisico. In questo senso i primi minuti del film servono a Ozpetek per stabilire il metro di lettura della sua storia e dunque per suggerire allo spettatore di avvicinarsi ad essa innanzitutto con il cuore e solo dopo, con la testa.


Se giudicassimo il film con la seconda ci troveremmo di fronte all’ennesimo déjà-vu perché "La dea fortuna" più dei ultimi lungometraggi del regista turco sembra chiamare in causa figure, personaggi, dinamiche e accadimenti di cui avevamo già fatto conoscenza e di cui in qualche modo sappiamo già tutto. Entrare in sala per vedere il film non soddisfa il desiderio di nuove scoperte quanto piuttosto la voglia di ritrovare un modello di comunità (perché nei film di Ozpetek la collettività conta quanto il singolo) nel quale riconoscersi e sentirsi bene. La crisi della coppia formata da Arturo/Stefano Accorsi e Alessandro/Edoardo Leo, così come l’imprevisto che li costringe a occuparsi dei bambini dell’amica Annamaria/Jasmine Trinca da una parte è la conferma di uno status quo, frutto dell’appassionata conflittualità delle relazioni sentimentali, dall’altra ricalca l’imponderabilità di un destino umano che si diverte a mischiare le carte, riparando il più delle volte alla fallacia delle azioni umane. Un dualismo, quello tra caos e ragione che appartiene anche ad altre due costanti dell’universo ozpeketiano, laddove alla caducità delle cose rappresentata dalla malattia (di Annamaria) intesa sia in senso corporale, come morte della carne, che metaforico, in quanto riflesso della dissoluzione famigliare (secondo la lezione del "minimalista" David Leavitt), fa fronte la speranza derivata dalla fede in una religiosità pagana (qui rappresentata dalle funzioni attribuite da adulti e bambini alla "Dea" del titolo), in cui la felicità degli altri non può prescindere dal sacrificio del singolo.


Il tutto iscritto all’interno di una cornice in cui la ricerca di autenticità si alterna a un certo gusto per l’astrazione e per l’estetica della messinscena. Prova ne sia da un lato la particolarità di una recitazione attenta a non perdersi una sola sfumatura della sensibilità caratteriale dei personaggi - con la mdp pronta a registrare il minimo cambiamento d’umore e stato d’animo - come pure a restituire gli interpreti spogliati del loro ruolo, come accade nell’inserto della festa a casa di Antonio e Arturo in cui lo stile home movies utilizzato dal regista sembra far coincidere il privato degli interpreti con la loro trasfigurazione scenica. Oppure, per contro, esaltare quest’ultima fino a farla diventare altro nella scena del ballo sotto la pioggia, in cui la famiglia “allargata” di parenti e amici trova modo di  sciogliere tensioni e affanni scatenandosi in una danza propiziatoria/liberatoria.

Certo è che, fatti i debiti distinguo, quello che nuoce al risultato finale di un film tutto sommato riuscito è l’assunto che gli sta dietro perché nell’affermare (ancora una volta) il primato dell’amore rispetto alle versioni in cui esso prende forma "La dea fortuna" si rifugia in una normalità che non sempre rende merito alle diversità di cui ogni essere umano si fa portatore. 
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

PINOCCHIO

Pinocchio
di Matteo Garrone
con Roberto Benigni, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo
Italia, Francia, Gran Bretagna, 2019
genere, avventura, fantastico
durata, 125’


Dopo vari adattamenti, torna sullo schermo “Pinocchio”. Stavolta dietro la macchina da presa c’è Matteo Garrone che firma il suo decimo film.
La storia è ben nota e conosciuta e il regista non fa che raccontarla nella maniera forse più fedele possibile al racconto memorabile di Collodi. Il falegname Geppetto, solo e ormai abbastanza anziano, riesce a fabbricare da un pezzo di legno un burattino che decide di chiamare Pinocchio. Quest’ultimo prende improvvisamente vita diventando una sorta di figlio per il falegname, felice ed entusiasta. Geppetto fa di tutto per lui e desidera solo il meglio per il piccolo che viene mandato a scuola come tutti gli altri bambini. Peccato, però, che Pinocchio non voglia andarci e incappi in tantissimi personaggi, come Mangiafuoco e i suoi burattini, come il Gatto e la Volpe che cercano di raggirarlo e come Lucignolo, compagno di classe svogliato ancor più del protagonista che riesce a condurlo nel paese dei balocchi. A niente servono i consigli del grillo parlante e della fata turchina che cercano di metterlo in guardia.
Matteo Garrone con questo film rimane, come detto, molto fedele alla storia originale, ma, al contempo, perde la magia tipica del Pinocchio che tutti conoscono e amano. Quel pizzico di spensieratezza non trapela praticamente mai dalle situazioni mostrate e le atmosfere (forse fin troppo cupe e un po’ alla “Dogman”) non rendono giustizia alla meravigliosa favola. 



Nonostante la fotografia sia sempre molto precisa e dettagliata, che abbiamo imparato a conoscere grazie al regista romano, il film sembra non decollare. Si percepisce la ricerca e l’attenzione al dettaglio e alla verità, a partire dagli abiti, veramente vissuti dai personaggi fino ai luoghi e agli ambienti, ma non si riesce ad andare oltre dopo la visione. I personaggi, seppur ben costruiti grazie alle descrizioni di Collodi, non riescono a trasmettere emotività e ad entrare in sintonia con il pubblico. Quello che emerge al termine della visione è un prodotto ben fatto, attento, preciso, “veritiero” e basta. A poco valgono anche le interpretazioni dei personaggi, tra i quali spiccano sicuramente quelle di Ceccherini e Papaleo nei ruoli rispettivamente di Volpe e Gatto. Il marchio Garrone, ben percepibile da molti elementi, è indubbiamente sinonimo di prodotti buoni e ben riusciti, ma, in questo caso, purtroppo, si può parlare di tutto tranne che di un film coinvolgente.
Veronica Ranocchi


giovedì, dicembre 26, 2019

IL PRIMO NATALE


Il primo Natale
di Salvatore Ficarra, Valentino Picone
con Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Roberta Mattei 
Italia, 2019
genere, commedia
durata, 100


In quella che da molti anni a questa parte si appresta a essere la prima volta di un palinsesto cinematografico privo dei “famigerati” cinepanettoni, le preferenze di esercenti e addetti ai lavori sembrano andare nella direzione di un’offerta d’altro tipo, più attenta alla sobrietà dei contenuti come pure alla qualità della confezione. In attesa di valutare i lavori degli altri contendenti,  Ficarra e Picone aprono la corsa alla conquista del box office con un film - “Il primo Natale” -, pronto a confermare il trend con una serie di scelte anomale a questo livello, a partire dalla decisione di affidare la direzione delle luci a un maestro del cinema d’autore come Daniele Ciprì e, ancora, di suggellare l’inizio e la fine della storia con la cover di “Let It Snow!” cantata da Michael Bublè, crooner d’antan le cui suggestioni vocali - peraltro lontane  dal soggetto del film - sdoganano la vulgata dei registi siciliani dal suo contesto produttivo, accostandola, almeno nell’atmosfera, agli all’analoghi prototipi hollywoodiani.

Un cortocircuito - acustico/visivo - che appartiene pure al comparto narrativo se è vero che dopo una rapida introduzione ambientata ai giorni nostri, necessaria a presentare la contrapposizione caratteriale dei due protagonisti - con Salvo, ladro cinico e miscredente, e Valentino, sacerdote operoso e fedele alla propria missione -, “Il primo Natale” catapulta personaggi e spettatore nella Palestina dell’anno zero, alla vigilia della nascita di Gesù della cui venuta i nostri eroi diventeranno in qualche modo “custodi”; non prima di aver rischiato la vita in una serie di imboscate che li vedrà coinvolti alla loro maniera nella resistenza del popolo ebraico nei confronti della dominazione romana, con Erode/Massimo Popolizio, Ponzio Pilato e un gruppo di rivoltosi (tra cui si distingue Roberta Mattei, dopo Maccio Capotonda ancora una volta “vestale” della comicità made in Italy) destinati a incrociare la strada  dell’improbabile coppia.


Novità di fronte alle quali sono proprio Ficarra e Picone a rimanere fedeli a se stessi, alla propria maschera e al ruolo di “guastatori” dell’ordine, attaccato con un non sense costruito su battute meno “cattive” e su un’affabulazione meno sincopata del collega e competitor Checco Zalone, inafferrabile ed “estraneo” (e per questo più anarchico) alla famigliarità a cui ci hanno abituato i conduttori di “Striscia la notizia”. Assume loro a rimanere consueta è la sceneggiatura del film, in cui ripetersi è l’espediente - invero risibile - del viaggio temporale che dà il via alla storia e che alla stregua del precedente “L’ora legale” permette ai protagonisti di imitare Benigni e Troisi di “Non ci resta che piangere”, in un’operazione parente stretta di quelle già viste in “Non ci resta che il crimine” di Massimiliano Bruno come pure de “Moschettieri del Re - La penultima missione” di Giovanni Veronesi. Rispetto a questi “Il primo Natale” propone una più forte dimensione farsesca, favorevole alla propensione picaresca della coppia e coerente alla volontà di realizzare una rappresentazione/estensione apocrifa del presepe vivente allestito da Don Valentino a inizio film, origine e fine del viaggio - reale e metaforico - compiuto dai personaggi.

La combinazione tra sacro e profano trova sintesi nel racconto di un doppio miracolo: filologico il primo, relativo alla nascita di Gesù, creato dalla fantasia degli autori il secondo, inerente alla conversione dell’agnostico Salvo, vinto alla fede da una serie di eventi che un poco alla volta ne smontano lo sbandierato scetticismo, “Il primo Natale” si prende gioco del tema indicato nel titolo con una levità mai corrosiva (come fu a suo tempo quella dei Monty Python in “Brian di Nazareth”) e tale da assicurare al film l’ortodossia necessaria a farne un prodotto per famiglie. Il risvolto politico che fa della fuga dalla Palestina e dell’approdo in Italia da parte di Ficarra e Picone la metafora di quello che succede nella nostra penisola in termini di sbarchi clandestini, come pure l’invito a mettersi per una volta nei panni di quest’ultimi - cosa che invece fanno i protagonisti e i loro compagni di viaggio - ne è la riprova, tanto il riferimento all’argomento è accennato e risolto in superficie. Che poi questo basti ad assicurarsi il primato del botteghino è un’altra cosa. Certo è che le potenzialità del duo comico meriterebbe una regia meno preoccupata di confermare il brand televisivo e magari alternativa a quella tutta casalinga fornita dagli stessi attori, i quali oramai sembrano aver imparato a memoria il copione del successo. Sparigliargli le carte non sarebbe male.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

LAST CHRISTMAS

Last Christmas
di Paul Feig
con. Emilia Clarke, Henry Golding, Michelle Yeoh
Regno Unito, USA, 2019
genere. commedia, sentimentale
durata. 103’



Prendendo spunto dalla celebre canzone natalizia di George Michael, il regista Paul Feig ha diretto il film scritto da Bryony Kimmings e Emma Thompson.
La storia inizia nella Jugoslavia del 1999 e ci mostra un coro di ragazzine probabilmente durante una funzione. Viene, poi, fatto un salto temporale e si arriva nell’odierna e caotica Londra alle prese con gli acquisti natalizi. Kate è una giovane ragazza che lavora in un negozio di Natale aperto tutto l’anno nel quale, vestita da elfo, cerca di invogliare i clienti ad acquistare i vari prodotti. Nell’ultimo periodo, però, non riesce nel suo intento e se a questo si somma il fatto che si ritrova ad essere una senzatetto perché si rifiuta di tornare a casa dai genitori e non ha più ospitalità da amici o conoscenti a causa del suo modo di fare, si può ben comprendere il motivo del suo mancato spirito natalizio. Un giorno, però, guardando casualmente fuori dalla vetrina, vede un ragazzo che le si presenta come Tom e la invita a fare una passeggiata. Kate rifiuta, ma il giorno dopo lo ritrova, più o meno casualmente, sulla sua strada, in seguito a un’audizione canora non andata a buon fine. I due iniziano, quindi, a frequentarsi e a scoprire qualcosa in più sull’altro, anche se Tom, da questo punto di vista, rimane un po’ più misterioso. Tutti i nodi verranno al pettine quando Kate deciderà di dare una svolta alla sua vita rimettendo a posto tutti i tasselli fuori posto, dalle relazioni familiari al lavoro e al modo di comportarsi in generale.

Quella che apparentemente può sembrare una classica commedia natalizia mostra anche un risvolto più drammatico e toccante. Nonostante l’inserimento di questo fattore, però, il risultato non cambia e non si riesce ad andare oltre alcuni stereotipi di genere. Uno su tutti la caratterizzazione della protagonista, la classica ragazza “strampalata” e imbranata, un po’ alla Bridget Jones (la sceneggiatrice è la stessa dell’ultimo film della trilogia), che inizialmente rifiuta le avances del protagonista che, in un modo o in un altro, riuscirà a conquistarla.
Dramma e commedia (soprattutto grazie alle espressioni facciali di Emilia Clarke, la protagonista) mescolati ad un pizzico di magia.
Insomma la classica storia natalizia da vedere durante le feste, ma che non aggiunge niente di nuovo alle solite favolette di questo periodo se non il credere in sé stessi e il sottolineare lo spirito “magico” e ricco di bontà del Natale che dovrebbe incentivare ognuno a compiere il miglior gesto possibile nei confronti di se stessi, ma anche nei confronti degli altri.
Veronica Ranocchi


domenica, dicembre 22, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Adam Driver (Storia di un matrimonio, The Report, Star Wars IX - L'ascesa di Skywalker)

IL TERZO OMICIDIO


Il terzo omicidio
di Kore-eda Hirokazu
con Masaharu Fukuyama, Kôji Yakusho, Suzu Hirose
genere, drammatico, thriller
Giappone, 2019
durata, 124’


Scavalcamento di campo

In una filmografia omogenea e coerente, tanto nella forma quanto nei contenuti, Il terzo omicidio di Kore-eda Hirokazu rappresenta quello che, usando il gergo degli addetti ai lavori, potrebbe definirsi uno scavalcamento di campo. In questo caso però più che di un errore tecnico abbiamo a che fare con uno spostamento consapevole del punto di vista rispetto al tema che da sempre interessa il regista di Un Affare di Famiglia e cioè quello dei legami famigliari.

Genitori e figli

Ne Il terzo omicidio il complicato rapporto tra genitori e figli, e il coagulo di sentimenti e di non detti che da esso ne deriva, diventa la materia del dramma processuale che vede un avvocato di successo accettare la difesa di un uomo dichiaratosi colpevole dell’omicidio del proprio datore di lavoro. Il tentativo di evitare al suo assistito la condanna a morte e la conseguente istruzione dell’arringa difensiva necessaria a ottenere uno sconto della pena danno il là a un thriller dell’anima in cui il movente dell’assassinio, legato al tentativo di Misuri di riparare ai sensi di colpa per una paternità mancata, unito alla scoperta della sua possibile innocenza, fanno da riflesso alla condizione esistenziale di Shigemori, il suo difensore, messo a nudo sia come padre di un’adolescente da lui trascurata, sia come garante di un sistema giuridico legale poco interessato alla ricerca della verità.

Il peso della colpa

Interpretato tra gli altri da Masaharu Fukuyama, già protagonista di Father and Son, Il terzo omicidio, pur facendo sue le regole del genere soprattutto nella costruzione di una narrativa che dissemina dubbi, tensione e colpi di scena, rimane comunque fedele al modo di fare cinema del suo regista, il quale, riprendendo la struttura del film d’esordio (Maborosi), fa della morte il punto di partenza per ragionare sul dolore di chi gli sopravvive, seguendo i personaggi nel percorso che li porta ad affrontare fantasmi appartenenti non sono solo a questioni private, quella che coinvolge i protagonisti della storia, ma che riguardano l’intera comunità, chiamata a prendere coscienza dell’iniquità della leggi che la governano. Un’alternanza tra particolare e universale che Kore-eda risolve come sempre nell’ambito del proprio microcosmo visivo, ottimizzando lo spazio interno all’inquadratura e lasciando al fuori campo il compito di far “sentire” il rimosso dei personaggi.

Esemplare in questo senso la messa in scena della violenza, mai mostrata in maniera diretta ma, piuttosto, nelle sue ricadute, attraverso vedute dall’alto che pesano come macigni sulle vite dei protagonisti e rimandano al giudizio inappellabile di una coscienza universale che – a differenza di quella degli uomini – non può essere ingannata. Presentato nel concorso del Festival di Venezia del 2017 e dunque girato prima di Un affare di famiglia e Le verità, Il terzo omicidio arriva nei cinema grazie a Double Line che lo distribuisce a partire dal 19 Dicembre.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidriver.it)

giovedì, dicembre 19, 2019

CHE FINE HA FATTO BERNADETTE?



Che fine ha fatto Bernadette?
di Richard Linklater
con Cate Blanchett, Billy Cudrup
USA, 2019
genere,commedia, drammatico 
durata, 104'



Autorialità di Richard Linklater

Che fine ha fatto Bernadette? di Richard Linklater non potrebbe essere più vicino all’idea di cinema del suo regista. In esso, infatti, si racchiude l’essenza di un’arte che pur non venendo meno all’impronta personale e alla matrice artigianale del suo demiurgo non si è mai posta limiti nella costruzione delle proprie rappresentazioni. Questo per dire come la differenza tra Linklater e registi del calibro di Mann e Nolan risieda non tanto nella predisposizione a pensare in grande – come Boyhood, Waking Life, School of Rock stanno a dimostrare – ma nel riuscire a farlo attraverso film molto meno costosi di quelli dei suoi famosi colleghi.

Il racconto di una crisi
Che fine ha fatto Bernadette? non si discosta da questa tendenza perché nel raccontare la storia di un personaggio, Bernadette/Cate Blanchett, idealista ed eccentrico nella maniera in cui lo sono di norma quelli del regista, Linklater ci porta nel culmine della crisi esistenziale che ha colpito la protagonista, architetto di fama e di talento, ritiratasi dalla mischia con la scusa di prendersi cura della famiglia e nella fattispecie della figlia adolescente, legata alla madre da un’empatia fuori del normale. Da una parte, dunque, la vita minuta, i litigi con le vicine di casa, la nevrosi depressiva, le incomprensioni matrimoniali, dall’altra, per contro, uno sguardo elevato al di sopra del contingente, pronto a ragionare sulla funzione taumaturgica dell’atto creativo, come pure sulla centralità dell’artista nella società contemporanea.


Deconstructing Bernadette
Mettendo sullo schermo la malattia di Bernadette e, insieme, la sua guarigione, Linklater affida al dispositivo il compito di rappresentare la frammentazione dell’io della protagonista e la sua ricomposizione mediante un percorso di decostruzione del personaggio operata attraverso un montaggio in cui a entrare in dialettica sono il passato e il presente della donna: con il primo, raccontato fuori campo e poi riassunto nelle immagini estrapolate dalla rete, in cui vediamo all’opera il formidabile estro dell’artista a fare da contraltare alle ossessioni e alle fobie che ne caratterizzano la fase successiva. Pervaso da alcuni temi cardine della poetica di Linklater, come lo sono il punto di vista nostalgico sugli anni della giovinezza e ancora, la difficoltà di crescere e di diventare adulti, al contrario di quanto si possa pensare Che fine ha fatto Bernadette? è un film  positivo e pieno di speranza. A tenerne salde le prerogative è soprattutto l’interpretazione di Cate Blanchett, pronta a stemperate la drammaticità dell’assunto giocando sul ridicolo presente nelle idiosincrasie del suo personaggio. In questo senso, la candidatura al Golden Globe come migliore attrice protagonista in un film commedia o musicale appare più che meritata.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)



domenica, dicembre 15, 2019