Vincitore del premio per
il miglior film nella Sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, “Una
spiegazione per tutto” di Gabor Reisz racconta l’Ungheria dei nostri giorni con
una cinematografia che fa della forma la chiave per capire il senso delle
immagini. Del film e dei suoi temi abbiamo parlato con il regista Gabor Reisz.
Una spiegazione per tutto
è nelle sale, distribuito da I Wonder Pictures.
Nel prologo che introduce Una spiegazione per tutto le
sequenze iniziali mescolano tempo, luoghi e persone senza spiegarci nulla. Ad
andare in scena sono tranche de vie in cui a emergere è
l’indecifrabilità del reale.
Anche se messe all’inizio del film
le sequenze di cui parli sono state le ultime scritte in fase di sceneggiatura
perché, a un certo punto, abbiamo capito di aver bisogno di qualcosa che fosse
utile a presentare la generazione più giovane, quella vittima della Storia.
Abbiamo finito il film con i giovani, per cui volevamo farli comparire anche
all’inizio. Mi rendo conto, com’è successo agli spettatori non ungheresi, che
non è facile capire il contesto di quei frammenti. Si riferiscono alla
tradizione ungherese per cui gli studenti delle scuole superiori la sera prima
degli esami vanno a trovare i professori, bevono con loro, cantano per le
strade.
Si tratta di una narrazione
molto frammentata in cui anche l’utilizzo di diversi format rimanda
all’incomunicabilità tra generazioni diverse. La discontinuità della forma
traduce la confusione di significato presente nel linguaggio utilizzato dai
personaggi.
Per quanto riguarda la forma a me
interessava usare uno stile molto realistico. Tra le altre cose abbiamo girato
anche con la fotocamera dell’Iphone dando il cellulare in mano agli studenti.
Molte scene le hanno girate loro e mescolate a quelle realizzate dal nostro
cameraman hanno dato vita a un bel mix caotico. Anche se il risultato non
rientra nella struttura tradizionale dei film ho pensato che rendesse bene la
diversità del linguaggio giovanile.
Peraltro il fatto che i
personaggi si muovono senza una direzione precisa coglie con efficacia la
mancanza di riferimenti e la ricerca d’identità tipica delle generazioni
giovani. Una caratteristica, quella di far dialogare la forma con i contenuti,
tipica del cinema ungherese.
Tenendo conto che certe soluzioni
vengono d’istinto, sono concorde con la tua analisi. Non ci avevo pensato
prima, ma ragionandoci a posteriori penso sia proprio così.
In Una spiegazione per tutto l’incomunicabilità
esiste tra padre e figlio, tra alunni e professori e si ritrova anche
all’interno di gruppi omogenei: per esempio tra i compagni di scuola di Abel,
come pure tra militanti dello stesso partito politico. Esemplare in questo
senso è la sequenza dell’intervista, con l’epilogo all’insegna di una frattura
insanabile. Sei d’accordo nel dire che l’incomunicabilità è uno dei temi del
film?
Completamente! È uno dei temi
principali del film e pure della mia esperienza personale. In Ungheria a un
certo punto abbiamo iniziato a perdere la vera comunicazione tra le diverse
generazioni e tra le persone comuni a causa della politica e della troppa
pressione causata dalle aspettative sociali, anch’esse di matrice politica.
Si tratta di una condizione che
genera fantasmi a cominciare da quelli presenti nella politica. Lo sono quelli
del passato che impediscono ai personaggi di interpretare il presente con le
categorie contemporanee. Lo sono in maniera più classica quelli legati alla
sfera affettiva e sentimentale, con Abel e Janka innamorati dell’idea
dell’altro e dunque incapaci di vedere chi hanno veramente davanti.
Sì, tra Janka e Abel la
mancanza di comunicazione è dovuta al fatto che per loro si tratta della prima
storia d’amore, dunque di una dimensione in cui tutto è molto confuso. Cuore e
sentimenti vanno per conto proprio quindi è difficile riconoscere cosa provi.
La fine dell’adolescenza è molto strana per i giovani. Il contesto degli esami
finali l’ho scelto proprio per questa ragione. Alla fine delle scuole
superiori, per la prima volta, devi prendere delle decisioni importanti per la
tua vita, un po’ come succede quando per la prima volta inizi a provare
qualcosa per qualcuno. In entrambi i casi si tratta di un periodo della tua
vita completamente caotico. Per quanto riguarda l’insegnate di Abel, anche con lui volevo rappresentare i diversi
modi attraverso i quali le persone perdono la capacità di comunicare.
Rappresenti la tensione tra padre e figlio senza stacchi, ma
muovendo nervosamente la macchina da uno all’altro durante le loro
conversazioni. A differenza del campo e controcampo questa continuità rende al
meglio il sentimento di Abel, prigioniero delle aspettative del padre allo
stesso modo in cui lo è del legame stabilito dal movimento della mdp.
Per quanto riguarda il lavoro
fotografico sono state prese diverse decisioni, specialmente nella prima parte
del film in cui ci siamo concentrati sui personaggi principali dei vari
capitoli. Li abbiamo seguiti cercando di identificarci con loro.
Dal punto di vista visivo il
legame stabilito dalla mdp di cui parlavamo sopra dà ancora più senso a due
sequenze di tenore opposto perché la corsa in bicicletta di Abel prima e quella
sulle acque del mare poi sono una reazione a tale costrizione. Si tratta di
movimenti che non hanno una meta precisa se non quella di esprimere il
desiderio di una libertà conquistata almeno in parte.
È così. Attraverso il
personaggio di Abel volevo
ragionare sul concetto di libertà in un momento in cui non sei ufficialmente
adulto perché vivi ancora con i genitori e non hai iniziato l’università o un
lavoro. Insomma nell’ultimo momento della vita in cui, essendo ancora ragazzo,
e in questo caso figlio, puoi sentire completamente la libertà. La corsa
notturna in bicicletta mi dava modo di esprimere questo sentimento in un’unica
inquadratura. La mancanza di tagli lo rendeva ancora più forte.
Dopo essere stato girato in modo molto realistico l’ultima
sequenza del film… non lo è. La sua eccezionalità sta anche nel fatto che è
l’unica ripresa dall’alto e che la corsa nell’acqua è realizzata senza
nascondere il possibile utilizzo di effetti digitali. Ciò ti permette di
esprimere il concetto di libertà a livello metafisico rendendo ancora più
profondo il senso di liberazione del giovane protagonista.
Esatto, sono molto felice che tu li
abbia notati perché mentre giravamo queste scene a volte l’attrice che
interpretava Janka mi chiedeva perché
non c’erano dialoghi. Mi diceva che i giovani parlano di continuo facendo
sempre domande, invece per me quella sequenza si deve immaginare non in termini
realistici, ma come la scena di un sogno.
Una spiegazione per tutto analizza il funzionamento distorto dei media e in
particolare la capacità delle fake news di rovinare la vita a chi ne è vittima.
Anche in questo caso si torna in qualche modo al tema dell’incomunicabilità.
Sì, volevo sottolineare cosa
succede in Ungheria con il governo di Viktor Orban in
cui questa cosa si trasforma in propaganda. Non so come funziona in altri
paesi, ma nei nostri media esiste un certo tipo di manipolazione dietro ogni
notizia.
Dal tuo film emerge l’idea che
la politica in Ungheria abbia uno spazio molto importante nella vita quotidiana
delle persone. Al di là delle generazioni tutti finiscono per parlarne e per
esserne influenzati.
Per me, prima di questo film, non
era importante. Dopo la delusione politica vissuta quindici anni fa ho deciso
che non ne sarei stato più influenzato. Solo dopo, durante la preparazione del
lungometraggio, ho scoperto l’impossibilità di vivere senza alcuna idea su
quello che stava accadendo nella nostra politica. L’idea del film nasce in
concomitanza con la decisione del governo di riformare l’università delle Arti
teatrali e Cinematografiche. Gli studenti dell’università hanno iniziato
l’occupazione organizzando diverse dimostrazioni. Io li ho sostenuti e questa è
stata la prima volta in quindici anni che ho preso una posizione che non era né
di destra né di sinistra. È diventata di sinistra solo perché il governo non
era d’accordo con il movimento studentesco e nonostante io non appartenga a
quella corrente politica. L’occupazione è durata alcuni mesi ed è stata un
momento terribile che, in qualche modo, è entrato a far parte della storia
raccontata nel film.
Parliamo del cinema che preferisci.
È molto difficile fare nomi.
Nell’ultimo anno ho iniziato a guardare i film di Abbas Kiarostami e l’ho veramente amato come è
successo per altre opere iraniane. Ho studiato filmografia e sono una persona
appassionata di cinema, interessata a diversi periodici storici. Dalla
Hollywood degli anni cinquanta ai giorni nostri. Questo per farti capire i miei
gusti e l’impossibilità per me di farti un elenco di film e registi.
Carlo Cerofolini
(intervista pubblicata su taxidrivers.it)