domenica, maggio 19, 2024

'UNA SPIEGAZIONE PER TUTTO': CONVERSAZIONE CON GABOR REISZ

Vincitore del premio per il miglior film nella Sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, “Una spiegazione per tutto” di Gabor Reisz racconta l’Ungheria dei nostri giorni con una cinematografia che fa della forma la chiave per capire il senso delle immagini. Del film e dei suoi temi abbiamo parlato con il regista Gabor Reisz.
Una spiegazione per tutto è nelle sale, distribuito da I Wonder Pictures.

Nel prologo che introduce Una spiegazione per tutto le sequenze iniziali mescolano tempo, luoghi e persone senza spiegarci nulla. Ad andare in scena sono tranche de vie in cui a emergere è l’indecifrabilità del reale. 

Anche se messe all’inizio del film le sequenze di cui parli sono state le ultime scritte in fase di sceneggiatura perché, a un certo punto, abbiamo capito di aver bisogno di qualcosa che fosse utile a presentare la generazione più giovane, quella vittima della Storia. Abbiamo finito il film con i giovani, per cui volevamo farli comparire anche all’inizio. Mi rendo conto, com’è successo agli spettatori non ungheresi, che non è facile capire il contesto di quei frammenti. Si riferiscono alla tradizione ungherese per cui gli studenti delle scuole superiori la sera prima degli esami vanno a trovare i professori, bevono con loro, cantano per le strade.

Si tratta di una narrazione molto frammentata in cui anche l’utilizzo di diversi format rimanda all’incomunicabilità tra generazioni diverse. La discontinuità della forma traduce la confusione di significato presente nel linguaggio utilizzato dai personaggi.  

Per quanto riguarda la forma a me interessava usare uno stile molto realistico. Tra le altre cose abbiamo girato anche con la fotocamera dell’Iphone dando il cellulare in mano agli studenti. Molte scene le hanno girate loro e mescolate a quelle realizzate dal nostro cameraman hanno dato vita a un bel mix caotico. Anche se il risultato non rientra nella struttura tradizionale dei film ho pensato che rendesse bene la diversità del linguaggio giovanile.

Peraltro il fatto che i personaggi si muovono senza una direzione precisa coglie con efficacia la mancanza di riferimenti e la ricerca d’identità tipica delle generazioni giovani. Una caratteristica, quella di far dialogare la forma con i contenuti, tipica del cinema ungherese. 

Tenendo conto che certe soluzioni vengono d’istinto, sono concorde con la tua analisi. Non ci avevo pensato prima, ma ragionandoci a posteriori penso sia proprio così.

In Una spiegazione per tutto l’incomunicabilità esiste tra padre e figlio, tra alunni e professori e si ritrova anche all’interno di gruppi omogenei: per esempio tra i compagni di scuola di Abel, come pure tra militanti dello stesso partito politico. Esemplare in questo senso è la sequenza dell’intervista, con l’epilogo all’insegna di una frattura insanabile. Sei d’accordo nel dire che l’incomunicabilità è uno dei temi del film?

Completamente! È uno dei temi principali del film e pure della mia esperienza personale. In Ungheria a un certo punto abbiamo iniziato a perdere la vera comunicazione tra le diverse generazioni e tra le persone comuni a causa della politica e della troppa pressione causata dalle aspettative sociali, anch’esse di matrice politica.

Si tratta di una condizione che genera fantasmi a cominciare da quelli presenti nella politica. Lo sono quelli del passato che impediscono ai personaggi di interpretare il presente con le categorie contemporanee. Lo sono in maniera più classica quelli legati alla sfera affettiva e sentimentale, con Abel e Janka innamorati dell’idea dell’altro e dunque incapaci di vedere chi hanno veramente davanti. 

Sì, tra Janka e Abel la mancanza di comunicazione è dovuta al fatto che per loro si tratta della prima storia d’amore, dunque di una dimensione in cui tutto è molto confuso. Cuore e sentimenti vanno per conto proprio quindi è difficile riconoscere cosa provi. La fine dell’adolescenza è molto strana per i giovani. Il contesto degli esami finali l’ho scelto proprio per questa ragione. Alla fine delle scuole superiori, per la prima volta, devi prendere delle decisioni importanti per la tua vita, un po’ come succede quando per la prima volta inizi a provare qualcosa per qualcuno. In entrambi i casi si tratta di un periodo della tua vita completamente caotico. Per quanto riguarda l’insegnate di Abel, anche con lui volevo rappresentare i diversi modi attraverso i quali le persone perdono la capacità di comunicare.

Rappresenti la tensione tra padre e figlio senza stacchi, ma muovendo nervosamente la macchina da uno all’altro durante le loro conversazioni. A differenza del campo e controcampo questa continuità rende al meglio il sentimento di Abel, prigioniero delle aspettative del padre allo stesso modo in cui lo è del legame stabilito dal movimento della mdp.

Per quanto riguarda il lavoro fotografico sono state prese diverse decisioni, specialmente nella prima parte del film in cui ci siamo concentrati sui personaggi principali dei vari capitoli. Li abbiamo seguiti cercando di identificarci con loro.

Dal punto di vista visivo il legame stabilito dalla mdp di cui parlavamo sopra dà ancora più senso a due sequenze di tenore opposto perché la corsa in bicicletta di Abel prima e quella sulle acque del mare poi sono una reazione a tale costrizione. Si tratta di movimenti che non hanno una meta precisa se non quella di esprimere il desiderio di una libertà conquistata almeno in parte. 

È così. Attraverso il personaggio di Abel volevo ragionare sul concetto di libertà in un momento in cui non sei ufficialmente adulto perché vivi ancora con i genitori e non hai iniziato l’università o un lavoro. Insomma nell’ultimo momento della vita in cui, essendo ancora ragazzo, e in questo caso figlio, puoi sentire completamente la libertà. La corsa notturna in bicicletta mi dava modo di esprimere questo sentimento in un’unica inquadratura. La mancanza di tagli lo rendeva ancora più forte.

Dopo essere stato girato in modo molto realistico l’ultima sequenza del film… non lo è. La sua eccezionalità sta anche nel fatto che è l’unica ripresa dall’alto e che la corsa nell’acqua è realizzata senza nascondere il possibile utilizzo di effetti digitali. Ciò ti permette di esprimere il concetto di libertà a livello metafisico rendendo ancora più profondo il senso di liberazione del giovane protagonista. 

Esatto, sono molto felice che tu li abbia notati perché mentre giravamo queste scene a volte l’attrice che interpretava Janka mi chiedeva perché non c’erano dialoghi. Mi diceva che i giovani parlano di continuo facendo sempre domande, invece per me quella sequenza si deve immaginare non in termini realistici, ma come la scena di un sogno.

Una spiegazione per tutto analizza il funzionamento distorto dei media e in particolare la capacità delle fake news di rovinare la vita a chi ne è vittima. Anche in questo caso si torna in qualche modo al tema dell’incomunicabilità.

Sì, volevo sottolineare cosa succede in Ungheria con il governo di Viktor Orban in cui questa cosa si trasforma in propaganda. Non so come funziona in altri paesi, ma nei nostri media esiste un certo tipo di manipolazione dietro ogni notizia.

Dal tuo film emerge l’idea che la politica in Ungheria abbia uno spazio molto importante nella vita quotidiana delle persone. Al di là delle generazioni tutti finiscono per parlarne e per esserne influenzati. 

Per me, prima di questo film, non era importante. Dopo la delusione politica vissuta quindici anni fa ho deciso che non ne sarei stato più influenzato. Solo dopo, durante la preparazione del lungometraggio, ho scoperto l’impossibilità di vivere senza alcuna idea su quello che stava accadendo nella nostra politica. L’idea del film nasce in concomitanza con la decisione del governo di riformare l’università delle Arti teatrali e Cinematografiche. Gli studenti dell’università hanno iniziato l’occupazione organizzando diverse dimostrazioni. Io li ho sostenuti e questa è stata la prima volta in quindici anni che ho preso una posizione che non era né di destra né di sinistra. È diventata di sinistra solo perché il governo non era d’accordo con il movimento studentesco e nonostante io non appartenga a quella corrente politica. L’occupazione è durata alcuni mesi ed è stata un momento terribile che, in qualche modo, è entrato a far parte della storia raccontata nel film.

Parliamo del cinema che preferisci.

È molto difficile fare nomi. Nell’ultimo anno ho iniziato a guardare i film di Abbas Kiarostami e l’ho veramente amato come è successo per altre opere iraniane. Ho studiato filmografia e sono una persona appassionata di cinema, interessata a diversi periodici storici. Dalla Hollywood degli anni cinquanta ai giorni nostri. Questo per farti capire i miei gusti e l’impossibilità per me di farti un elenco di film e registi.


Carlo Cerofolini

(intervista pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, maggio 17, 2024

CONFIDENZA

Confidenza

di Daniele Luchetti

con Elio Germano, Vittoria Puccini, Federica Rosellini

Italia, 2024

genere: drammatico, thriller

durata: 131’

Quanto può costare e durare un segreto? Sembra essere questa la domanda che vuole farci Daniele Luchetti nel suo “Confidenza”. Una domanda che, portandoci a riflettere sul valore di qualcosa piuttosto che sul contenuto ci costringe, come i personaggi della sua storia, a prestare particolare attenzione a ogni singolo dettaglio, ogni singolo movimento, ogni singola azione sperando che possa aiutarci a comprendere qualcosa di più. Talmente abituati a dover comprendere tutto ciò che vediamo, il film di Luchetti può sembrare quasi un pugno nello stomaco in questo senso.

Tra realtà, finzione, sogni e ricordi “Confidenza” è la storia di Pietro Vella, professore umanistico in un liceo di Roma. Qui, negli anni, forma tanti studenti, alcuni più meritevoli, altri meno, ma con l’idea che non ci sia un indirizzo preciso da seguire sempre e comunque se non quello dell’attenzione e della vicinanza nei confronti di chi ha davanti. Tra tutti quelli che siedono sui banchi del liceo di Vella c’è anche Teresa Quadraro, brillante studentessa destinata a una grande carriera, soprattutto in campo matematico. Una conoscenza e un’intelligenza quelli della Quadraro tali da far vacillare anche le certezze del professore che, come una calamita, ne è attratto.

Un tempo e una vita scorrono davanti a lui (e a noi). Si arriva a un apparente equilibrio che verrà, però, scombinato quando l’ormai anziano professore dovrà recarsi al cospetto del Presidente della Repubblica per ritirare un premio.

Fin da subito Luchetti ci fa capire che quello che vedremo non sarà un film di facile comprensione. Il primo elemento con il quale entriamo in contatto è una strada, il vicolo che ci porta verso un’abitazione e poi, subito dopo, vediamo una porta chiusa. A chi spetta il compito di aprirla? Si può aprire? E cosa nasconde? In una costante dicotomia tra i temi centrali della vicenda, amore e paura, “Confidenza”, adattamento dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, si accavalla su sé stesso e si attorciglia, facendo perdere anche a noi spettatori i riferimenti, fatta eccezione per quelli principali o che crediamo tali.

“L’amore non è mai alla pari, è sopraffazione” afferma Teresa Quadraro rivolgendosi a Pietro Vella nella speranza, forse, di fargli comprendere qualcosa che lui vede, invece, solo da una prospettiva limitata. E, infatti, è ben presente il tema della incomunicabilità. Ma non solo tra i due, anche con tutti coloro che, più o meno direttamente, si trovano ad avere a che fare con il protagonista. Un protagonista destinato a crescere ma non a evolversi. Continuamente ancorato al suo passato, Pietro Vella, amato e amante della sua ex studentessa, non riesce mai ad andare oltre quella prigione che lui stesso si è creato dopo “quella confidenza”. Confidenza destinata a rimanere tale, enorme, importante, grave, ma soprattutto segreta.

Chi è davvero, quindi, il “mostro” che lo stesso Vella chiama tormentato e tormentandosi? È lui che non accetta i cambiamenti, le trasformazioni, il tempo che scorre lasciando vincere la paura sull’amore o sono gli altri, incarnati nei due antipodi, eppure così simili, di Teresa e Nadia, la moglie, anche lei professoressa di matematica, quasi copia della prima, come la ex studentessa ha modo di sottolineare in maniera quasi ossessiva? Da una parte la realtà, dall’altra la finzione, il sogno, la speranza. Se Pietro è, o pensa di essere, la parte razionale, Teresa è sicuramente emblema di quella parte irrazionale che, però, sopraggiunge sempre e comunque, anche nei momenti più inaspettati come in un giro vorticoso su sé stessi dove inizio e fine sembrano quasi coincidere.

Quel che è certo è che Daniele Luchetti, con il suo film, torna a mettere al centro le relazioni e la famiglia, seppur in maniera meno usuale del solito e meno lineare, spingendo lo spettatore a compiere un vero e proprio salto nel vuoto.


Veronica Ranocchi

lunedì, maggio 13, 2024

MOTHER'S INSTINCT

Mother’s instinct

di Benoît Delhomme

con Anne Hathaway, Jessica Chastain, Anders Danielsen Lie

USA, 2024

genere: thriller

durata: 94’

Due grandi nomi e due grandi attrici. Da una parte Anne Hathaway, la glaciale Celine; dall’altra Jessica Chastain, l’attenta sognatrice Alice. Insieme per “Mother’s Instinct”, diretto da Benoît Delhomme, film che è remake dell’omonimo di Olivier Masset-Depasse del 2018, entrambi tratti dal romanzo “Oltre la siepe” di Barbara Abel.

Al centro due donne, forti e deboli allo stesso tempo. Due donne, due vicine di casa, due amiche e soprattutto due madri. Se l’inizio idilliaco in un’America anni ’60 sembra presentarci una storia dai colori pastello, impronta importante del film, con l’andare avanti della storia capiamo che questa palette di colori altro non è che una maschera opaca che cerca di ovattare colori ben più vividi, densi e scuri.

Celine e Alice, due amiche e vicine di casa, sono entrambe madri di due bambini di 9 anni. Max è il figlio di Celine, alla quale lei si dedica anima e corpo, Theo è il figlio di Alice continuamente sorvegliato e tenuto sotto controllo a causa di una forte allergia alimentare che potrebbe causargli danni irreversibili. Se Celine sembra a suo agio e soddisfatta della propria vita, con un marito al suo fianco che non le fa mancare nulla, ma che la vincola ai lavori di casa e a occuparsi del figlio la stessa cosa non si può dire di Alice che, nella stessa situazione di Celine, appare insoddisfatta della propria quotidianità ed è costantemente alla ricerca di un diversivo, di qualcosa che possa rompere e interrompere la sua routine, scandita inesorabilmente dalle stesse azioni. L’equilibrio perfetto delle (e tra le) due famiglie si interrompe, però, bruscamente con il terribile incidente accorso al piccolo Max che, a casa con la febbre, sporgendosi dal balcone, cade e perde la vita sotto gli occhi di Alice che non riesce ad arrivare in tempo per salvarlo. Da quel momento i personaggi subiscono un cambiamento radicale che li trasforma completamente, Celine su tutti.

E proprio da questo incidente viene messo ancora più in evidenza e al centro della scena il rapporto antitetico tra le due protagoniste. Quell’amicizia tanto decantata all’inizio, che porta Alice a recarsi di nascosto in casa dell’amica per organizzarle una festa a sorpresa (azione descritta in maniera, però, molto sospettosa e “pericolosa”), si trasforma in un rapporto continuamente in bilico.

Ho imparato a separare il dolore dalla colpa” confessa Alice in un momento di riappacificazione con l’amica che, dopo il lutto subito, la allontana, quasi come se la ritenesse responsabile di quanto avvenuto. In realtà è una frase emblematica che descrive entrambe allo stesso modo e che, per motivazioni diverse, le inquadra perfettamente al centro della scena.

Un rapporto quello tra le due che, fin dall’inizio, risulta quasi morboso. Un rapporto che cominciamo a comprendere e inquadrare solo dopo le prime scene, nel momento in cui appaiono anche gli altri personaggi, fondamentali per “tirare” entrambe da una parte e dell’altra e per smorzare spesso i toni.

Uno degli interrogativi più grandi del film è quello dell’essere madre. Come lo si può essere nel modo giusto? C’è un modo giusto? Chi è una buona madre e come si comporta? Sono tutte domande che il regista, attraverso i personaggi perfettamente cuciti addosso alla Hathaway e alla Chastain, ci pone. Domande che non trovano una risposta perché, senza anticipare niente, il risultato è che non ci sono vincitori, ma solo vinti. Chi in maniera più evidente e chi meno, chi volontariamente e chi senza la propria volontà, la certezza verso la quale ci indirizza il film è che non c’è una risposta.

Così come non c’è una risposta alla storia, a tinte hitchcockiane, che vede protagoniste Alice e Celine e tutti i comprimari. Ciò che sembra perfetto e appare indistruttibile è in realtà quanto di più fragile esista, al contrario coloro che nutrono dubbi e interrogativi su sé stessi e gli altri sono, forse, alla fine dei conti, i più forti.

Tra deliri di onnipotenza e deliri di oppressione, “Mother’s instinct” ci mostra, seppur in maniera un po’ più opaca di quanto avrebbe potuto fare, che l’istinto di una madre non sbaglia mai, nel bene e nel male.

Il mondo perfetto che Celine si era disegnata forse non era così perfetto così come la tanto agognata libertà di Alice, continuamente imprigionata tra le mura domestiche, costretta a guardare lo scorrere del tempo e della vita da dietro una finestra metafora delle sbarre di una prigione, il cui prezzo era davvero troppo alto.


Veronica Ranocchi

giovedì, maggio 09, 2024

"C'ERA UNA VOLTA IN BHUTAN" COVNERSAZIONE CON PAWO CHOYNING DORJI

Ispirato alla realtà “C’era una volta in Bhutan” trasfigura in maniera poetica e favolistica l’avvento della democrazia nel piccolo stato himalayano. Del film abbiamo parlato con il regista Pawo Choyning Dorji.

Pawo Choyning Dorji è il regista del film “C’era una volta in Bhutan”, in sala dal 30 aprile grazie a Officine Ubu.

“C’era una volta in Bhutan”, il titolo italiano del tuo film, ne coglie la caratteristica principale, quella di essere una sorta di fiaba contemporanea. A legittimarlo è innanzitutto la premessa, e cioè la decisione del Re di concedere al suo popolo la possibilità di eleggere il proprio leader. La scelta di questa struttura formale è dovuta all’intelligibilità di comunicazione oppure al fatto di adattarsi meglio di altre alle tematiche del racconto?

Una delle storie più interessanti del Bhutan è quella relativa al passaggio del paese alla modernità. Nel corso del 900 è stato una delle nazioni più isolate al mondo, una politica autoimposta attuata per salvaguardare la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra sovranità, dopo aver visto paesi simili al nostro, come lo sono il Tibet e lo Sikkim, perdere la loro indipendenza a favore di Cina e India. Probabilmente siamo l’unico paese al mondo che lavora per raggiungere la “felicità nazionale lorda” invece che il prodotto interno lordo. Siamo stati gli ultimi a consentire la televisione e la connessione a Internet e probabilmente l’unico paese al mondo a introdurre la democrazia senza guerra e rivoluzioni.

Come cerco di mostrare nel film per i buthanesi la qualità dell’innocenza è un aspetto molto importante di ciò che siamo. Sentivo che mentre ci aprivamo al mondo esterno nel tentativo di modernizzarci e diventare una democrazia questa bella qualità è stata erroneamente scambiata per “ignoranza”.

Attraverso “C’era una volta in Bhutan” ho cercato di evidenziare l’importanza dell’innocenza in questo periodo di cambiamento. Ho cercato di rimanere fedele a quel periodo. La storia attraversa generi diversi poiché è fedele alla realtà.

La rappresentazione del Bhutan è caratterizzata dalla dolcezza e dalla fantasia tipiche delle fiabe. Elementi che, allo stesso tempo, sembrano appartenere in maniera realistica alle persone e al territorio in cui si svolge la storia. Volevo chiederti del rapporto tra realtà e finzione e di come lo hai introdotto nel film.

Come regista, sono una persona che trae sempre ispirazione da eventi reali. Sia questo film che il precedente – Lunana: A Yak in the Classroom – derivano dalle mie esperienze nel vedere un paese come il mio, radicato nella cultura, nella tradizione e nella spiritualità, cercare di trasformarsi in una nazione moderna.

Ho cercato di rimanere fedele alla mia esperienza personale, quella avuta nel corso della trasformazione modernista e democratica a cui ci siamo preparati con una “finta elezione” poi vinta dal partito giallo! Anche la costruzione dello Stupa – monumento buddista in cui si contengono reliquie -, è reale, avendola vissuta durante la pandemia: il simbolismo di tutto ciò che era collocato al suo interno mi ha colpito così tanto che ho sentito il bisogno di adattarlo in un film da condividere con il resto dei presenti e del mondo.

Puoi parlarci della difficoltà della popolazione rurale nell’affrontare il processo di trasformazione e le regole della democrazia? Peraltro l’esemplarità della storia raccontata in “C’era una volta in Bhutan” permette di allargare al resto del mondo il discorso riguardo alla cosiddetta esportazione della democrazia. Nonostante la bontà delle premesse, la tradizione e le abitudini di alcuni paesi rendono complesso l’incontro con il sistema democratico. Una riflessione che attraversa il film con risultati a volte divertenti, a volte più seri.

Come ti dicevo prima ho cercato di restare fedele a ciò che è realmente accaduto in Bhutan quando siamo passati dalla monarchia alla democrazia. Per me personalmente questa è stata un’esperienza ancora più avvincente perché durante la fase di democratizzazione studiavo scienze politiche negli Stati Uniti e ho potuto constatare i contenuti della narrazione democratica, quella che considera i paesi governati da un solo individuo bisognosi di essere liberati.

Essere immerso nella cultura degli Stati Uniti, nazione che vede la democrazia come la più grande evoluzione del pensiero politico, un vero e proprio dono per il resto del mondo, e per contro sapere che il mio paese era così riluttante ad accettarlo, mi ha regalato un tipo di narrazione molto particolare da testimoniare. Oltre alla serietà del cambiamento penso che quel processo fosse intriso di umorismo nella maniera che ho cercato di far vedere nel film.

Il Buddismo dice che l’unica costante è il cambiamento. Partendo dall’importanza di questo concetto il film sembra riflettere sulla difficoltà di cambiare anche quando si tratta di andare incontro al bene.

Non esiste Bhutan senza Buddismo. In realtà cambiamento e impermanenza sono gli elementi più importante di questa storia. Penso sia rilevante ricordare che il Bhutan ha deciso di isolarsi e tagliarsi fuori dal resto del mondo per preservare il suo stile di vita. Tuttavia, a metà degli anni 2000, ci siamo di colpo trovati come l’unica entità non moderna in un mondo che lo era in tutto e per tutto. Per rimanere rilevanti siamo stati obbligati a cambiare. Non volevamo farlo, ma ci siamo dovuti adattare al contesto per poter sopravvivere. Il cambiamento è stato inevitabile.

Lo scarto tra la scena iniziale e quella finale oltre a sottolineare il cambiamento esistenziale dei personaggi attraverso la differenza delle stagioni sembra anche alludere al fatto che la modernità del Bhutan dovrà ancora tenere conto dell’importanza del fattore umano e della spiritualità così come nelle tradizioni del paese. Il monaco che attraversa i campi con la bombola del gas sulle spalle afferma la necessità di non perdere il contatto con le proprie radici. Sei d’accordo con questo?

Del tutto d’accordo! La storia inizia con il monaco che attraversa il campo con la bombola e così è anche la fine. Con ciò volevo mostrare che anche attraverso il cambiamento ci sono alcune cose che rimangono costanti. All’inizio, con il riso essiccato, ho cercato di rappresentare il cambiamento imminente; alla fine, con il mare di fiori di grano saraceno, l’incertezza e la speranza per il futuro.

Nella semplicità delle inquadrature, effettuate senza movimenti di macchina particolari e con un tipo di regia invisibile, sembra che tu voglia preservare la centralità della storia e dei personaggi, la loro franchezza e sincerità. Sei d’accordo con questa visione della messa in scena?

La motivazione principale per cui faccio film è preservare le storie del Bhutan attraverso il cinema e condividerle con il resto del mondo. Per fare ciò ho permesso al pubblico di sperimentare veramente cosa significa essere immersi nella cultura bhutanese. Come accennato in precedenza, la qualità dell’innocenza è un aspetto fondamentale di ciò che significa essere bhutanesi. Inoltre, i temi del buddismo sono aspetti essenziali nel raccontare una storia delle mie parti. Penso che queste qualità confluiscano anche nel modo in cui si svolge il film, nel ritmo, nella direzione e, ovviamente, nei movimenti della mdp. Come regista, voglio che il pubblico senta il Bhutan in ogni scena dei film che realizzo.

Nella cultura bhutanese raccontare una storia è così importante che non ha nemmeno una parola. In italiano e in inglese forse si dice “raccontami una storia” ma in Bhutanese se vogliamo che qualcuno lo faccia diciamo: “per favore sciogli un nodo”. Si suppone che il racconto di una storia abbia lo scopo di sciogliere, di liberare.

Patria della democrazia, gli Stati Uniti portano all’interno della storia la contraddizione più evidente, quella di assicurare la democrazia ricorrendo alle armi. La presenza del fucile all’interno del rito religioso era un modo per dire che la prima regola della democrazia sarebbe quella di rinunciare a ogni violenza e aggressività?

In realtà, in tutta la storia, ho voluto fare affidamento sul potere del simbolismo. Il fucile ovviamente è necessario alla fine della storia, ma volevo anche che rappresentasse e simboleggiasse l’avvento della modernità, poiché è un’arma non originaria del Bhutan, ma fabbricata fuori. Come la modernità anche il fucile può essere benefico, ma anche diventare distruttiva.

Agli attori avevo detto di interagire con l’arma in modo innocente, proprio come i bhutanesi locali interagivano con la modernità. Quindi, nel film vedrai la gente del posto tenere il fucile sottosopra, guardare dentro una canna, a volte usandola anche come bastone da passeggio. Poiché l’arma simboleggia l’avvento della modernizzazione, avevo bisogno di qualcos’altro per simboleggiare il contrasto con la cultura bhutanese. Così alla pistola, simbolo di modernizzazione, ho contrapposto il fallo che raffigura la cultura e le tradizioni del Bhutan.

Per concludere volevo chiederti del cinema che preferisci.

Avendo studiato in Europa e negli Stati Uniti ho ricevuto un’educazione occidentale. Tuttavia, maggiore è stata l’influenza straniera che ho avuto, più sono stato propenso a restare in contatto con la mia cultura e con le tradizioni orientali. Per questo nutro molta ammirazione per il cinema asiatico. I primi lavori di Zhang Yimou e Hou Jianqi sono tra i miei preferiti. Lungometraggi di Zhang Yimou come Not One Less e The Road Home hanno avuto un ruolo enorme nell’ispirarmi a realizzare Lunana: A Yak in the Classroom. Anche il regista giapponese Hirokazu Koreeda è uno di quelli i cui film non mancano mai di ispirarmi.

martedì, maggio 07, 2024

"GLORIA!" CONVERSAZIONE CON MARGHERITA VICARIO

Presentato in anteprima nel concorso ufficiale dell’ultima edizione del Festival del cinema di Berlino, Gloria! segna l’esordio alla regia di Margherita Vicario con un film in costume capace di dialogare con il pubblico e con il nostro tempo. Di “Gloria!” abbiamo parlato con la regista.

Prodotto da Tempesta, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura con il sostegno di Federal Office of Culture, Ticino Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film Commission, “Gloria!” di Margherita Vicario è nelle sale italiane dall’11 Aprile 2024.

Detto che “Gloria!” parla di musica e che di essa si serve per raccontare il mondo in cui si svolge la storia, volevo soffermarmi sulle sequenze iniziali perché lì il film costruisce una sorta di genealogia musicale in cui è possibile ricostruire le fasi in cui il caos sonoro diventa spartito musicale. Dal canto degli uccellini al battito di mani dei bambini, dalla frenesia delle lavandaie al coro delle orfane dell’istituto religioso, le immagini testimoniano la progressiva trasformazione del rumore in suono fino al ballo che conclude l’introduzione, apoteosi pronta a celebrare la nascita della musica.

Sicuramente è così, nel senso che volevo aprire il film con i suoni dell’ambiente, con i bambini che giocano, gli uccellini che cantano, le ragazze impegnate nelle faccende quotidiane. Nel piccolo prologo che precede la sequenza iniziale ci sono molti elementi umani caratterizzati da una componente irrazionale come lo è il vagito della bambina interpretata da mia nipote che all’epoca aveva un anno e mezzo. Come hai detto, da lì in poi, a cominciare da quell’insieme di suoni presenti nell’aia, la musica prende piede grazie all’immaginazione di Teresa che la fa diventare una vera e propria sinfonia.

La sequenza che apre il film ci dice anche un’altra cosa e cioè che la musica unisce anziché dividere. L’armonia che lega le ballerine e le persone presenti in scena rilancia questa propensione, ricordandoci che il risultato finale è frutto di una condivisione di intenti, di uno sforzo collettivo. Come in effetti succede nell’atto conclusivo della storia.

Sono d’accordo perché la musica è conseguenza della giustapposizione di diversi elementi. Nel film c’è una componente autobiografica perché, come Teresa, io sono un autodidatta e dunque non so leggere la musica. Come lei anche io nel momento in cui ho messo le mani sul pianoforte ho avuto il desiderio di sentire suonare le note che avevo in testa da un’orchestra. E questo, come dici tu, si può fare solo producendosi in una performance di più elementi, dunque con una propensione collettiva dell’arte.

A sottolineare come l’istituto religioso in cui vivono le ragazze sia un mondo chiuso e isolato, spazio del limite e della costrizione, ci pensa il movimento iniziale, dall’esterno verso l’interno, con la lunga carrellata laterale che, nella sua durata, sembra voler dare conto, in senso fisico, dell’isolamento delle protagoniste. Al contrario del finale, quando l’apertura verso l’esterno, testimoniata dallo scenario bucolico in cui ritroviamo le ragazze, diventa il segno di una libertà che è anche creativa oltre che esistenziale.

Sì, questo doppio movimento faceva parte dell’evoluzione del film e in particolare di quella di Teresa e di Perlina, il suo antagonista. Tutto parte dal mondo interiore della ragazza che un poco alla volta si manifesta diventando materiale. Teresa mantiene intatta la dimensione creativa dandogli seguito in maniera concreta, anche se, pensandoci bene, la musica è la cosa più immateriale che esista. Però, pur non vedendosi è in grado di fare grandi cose.

Nella sequenza iniziale la ripresa a piombo sulle ragazze danzanti traduce l’armonia generale in una condivisione di spazio. Da lì in poi è come se tutto il film spingesse per trasformare quell’immagine ideale in un fatto concreto, eliminando un poco alla volta la separazione esistente anche all’interno dell’istituto tra i diversi occupanti, e, per esempio, tra Teresa e le altre ragazze; come poi accade nella sequenza del concerto finale in cui anche i bambini, e persino gli inservienti, sono chiamati con la presenza in chiesa a testimoniare la caduta delle barriere sociali.

Assolutamente. La scena finale ci dice che anche chi non è musicista, attraverso la musica, riesce a godere della libertà che le ragazze si conquistano attraverso il loro concerto. Poi, come succede nella vita, anche nel film vediamo che non tutti capiscono cosa sta succedendo. Tra le persone presenti nella chiesa c’è anche chi non si lascia andare, rimanendo estraneo al grido di libertà che emerge dall’eccezionalità dell’avvenimento. “Gloria!” è un film molto istintivo e la sequenza conclusiva ne è una sorta di manifesto.

Prendo spunto da Martin Scorsese quando parlava del regista intrattenitore, capace di convogliare nei generi i codici del racconto. Così fai tu in Gloria! trasfigurando la figura della donna contemporanea all’interno di una favola che riprende Cenerentola ma senza principe azzurro poiché oggi le ragazze si salvano da sole.

Nello scrivere il film con Anita Rivaroli è stata una scelta deliberata quella di rifarsi a dei topoi. Io sono una grande amante dei film musicali, e ancora di più dei musical veri e propri che si basano più sul come che sul cosa. Una parte di me aspirava a realizzare un film pop, quindi con una struttura intuibile in cui ci fosse un cattivo tout court e un gruppo di ragazze come succede nei teen movie. L’idea era quella di renderlo volutamente archetipico per poi delegare alla parte musicale la componente più fantastica e irrazionale.

In realtà “Gloria!” va oltre il dibattito contemporaneo sul conflitto uomo-donna; basti pensare che uno dei personaggi più crudeli è la governate delle ragazze e che gli uomini sono presenti anche in senso positivo. In realtà il film parla della lotta contro il potere che allora, come oggi, era soprattutto maschile.

Il film ha diverse sfumature. C’è chi può coglierne l’aspetto femminista, che qui è molto dolce e non rabbioso, oppure il tema dell’amicizia e ancora il ruolo della musica. Per altri può essere un film su un’ossessione. Poi è ovvio che, essendo una fiaba, ci sia bisogno di un cattivo di cui ho scritto sulla base di una lunga ricerca filologica che non si riduce al concetto di patriarcato, ma che scaturisce da come all’epoca della storia fosse vietato alle donne di esibirsi fuori dalla chiesa. Visto con gli occhi di oggi mi sembra una cosa molto violenta mentre magari in quei tempi lo era meno.

Paolo Rossi nel ruolo di Perlina, il cattivo del film, si produce in una inedita performance tragica, capace di cogliere il tratto dominante del suo personaggio, quello di essere anche lui vittima degli eventi, travolto com’è da responsabilità che neanche vorrebbe e tutto sommato capace anche di empatia, come succede nei confronti del ragazzo interpretato da Vincenzo Crea.

Credo che Paolo Rossi al cinema non abbia mai fatto un personaggio del genere e lui si è calato nella parte in maniera eccezionale. Sono d’accordo sul fatto che sia anch’egli una vittima; soprattutto della frustrazione creativa che lo fa essere sprezzante e invidioso del talento delle ragazze. Mentre loro sono giovani e vitali lui è arrivato a un punto morto. Il suo atteggiamento è anche il frutto di una dose di misoginia presente nel clero di quei tempi. Con Cristiano ha una relazione tossica alimentata dal senso di colpa che nutre nei suoi confronti perché, in qualche modo, ha contribuito alla sua condizione di eunuco in un’epoca in cui le donne iniziavano a soppiantare i castrati come voci soliste.

Considerando il contesto religioso ho trovato molto azzeccato il fatto di ambientare la rivelazione del talento di Teresa nel seminterrato dell’edificio, e cioè all’interno di un luogo sporco e dimenticato. Come Gesù salvatore del mondo nasce in una stalla così la musica di Teresa, chiamata a liberare le ragazze, si manifesta nel luogo più umile possibile.

Il magazzino ha anche un’altra valenza, quella di rappresentare tutto quello che appartiene al mondo notturno, quindi anche a quello dei sogni e dell’irrazionale in cui il nostro cervello continua a lavorare anche mentre dormiamo. Una dimensione, quella notturna, che, dal punto di vista iconografico, mi ricordava le riunioni carbonare e rivoluzionarie, con in più una componente di libertà capace di esaltare le qualità creative.

La messinscena sintetizza due spinte ben precise. Da una parte la plasticità del riferimento pittorico, dall’altra un realismo che emerge dalla presenza di dettagli che fanno la differenza, come, per esempio, il dettaglio sul pianoforte attraversato dalle mani di Teresa le cui unghie, come vuole il suo lavoro di inserviente, non sono perfettamente pulite, e ancora, i primi piani che non nascondono i brufolini sotto pelle, tipiche delle adolescenti.

Con il direttore della fotografia Gianluca Palma e con gli altri comparti del film condividevamo l’idea di creare un microcosmo del tutto inventato senza che questo togliesse forza alla componente realistica. Se l’istituto Sant’Ignazio è ispirato a congregazioni realmente esistite, noi lo abbiamo fatto a nostro piacimento ma comunque rispondente il più possibile al vero. Anche per quanto riguarda i costumi non volevo che la luce vi rimbalzasse sopra, ma che li attraversasse. Volevo creare un lungometraggio capace di portare lo spettatore all’interno della fiaba facendogli dimenticare che sta vedendo una storia in costume. Le unghie sporche e i volti senza trucco facevano parte di quel realismo che doveva entrare in collisione con la parte più favolistica alimentata dalla presenza della musica. Le basi pittoriche, invece, erano quasi ovvie da interpellare perché chiunque pensa al Settecento ha in mente certi quadri.

Molte scene sono girate a lume di candela in una maniera che a me ha ricordato Barry Lindon.

Il direttore della fotografia si è fatto costruire candele con il doppio stoppino in modo che la fiamma venisse molto più alta per poter assomigliare ai dipinti fiamminghi.

Ispirate dai venti della rivoluzione francese le protagoniste si danno da fare per organizzarne una all’interno dell’Istituto. Gloria! la mette in scena sia dal punto di vista visivo che musicale, mescolando suoni e musicalità di diverse epoche per terminare nella sequenza del concerto con una sorta di gospel; e ancora con un montaggio frammentato volto a interrompere la continuità del flusso delle immagini. Come una rivoluzione “Gloria!” prova a rompere le regole formali.

Sì, alla fine c’è una specie di coro pagano. Comunque hai ragione sul fatto che le scelte musicali non sono lineari. Credo che la forma sia sostanza e questo ha influito sulla forma del film. Mi accade anche quando scrivo le mie canzoni. Se la storia doveva parlare di una rivoluzione e dunque di una ribellione, montaggio e musiche dovevano avere una natura istintiva, a volte anche sgangherata, ma comunque necessaria a raccontare lo stato d’animo che ispira le azioni delle ragazze. Come sappiamo, la rivoluzione non ha mantenuto ciò che aveva promesso per cui le ultime sequenze superano i fatti della storia per sconfinare nella favola. Anche perché poi questi afflati di cambiamento e di rivoluzione sono abbastanza naufragati.

A parte Paolo Rossi di cui abbiamo già detto, una delle qualità del film è la proposta di una serie di giovani attrici che portano nel film bravura e freschezza. Penso in primis a Galatea Belluggi, a Carlotta Gamba, ma anche alle loro colleghe.

Il casting è stato lungo, ma importante perché mi ha fatto toccare con mano come gli attori siano gli unici da cui dipende la verità delle emozioni presenti nel film. Come regista devi solo fare in modo di metterli nelle migliori condizioni per esprimersi, poi ti siedi davanti al monitor e tifi per loro. Così è successo nell’assolo di Carlotta nella sequenza dove a un certo punto la vediamo piangere in primo piano. Abbiamo parlato a lungo prima di girare, ma poi il risultato è dipeso solo da lei. Galatèa Bellugi, Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dall’asta, e Veronica Lucchesi che peraltro è una cantautrice pazzesca, hanno condiviso e amato il progetto da subito, capendo che, se avessero fatto squadra e diventate amiche, avrebbero contribuito alla riuscita del film considerando che nella finzione loro sono sorelle.

Parliamo del tuo cinema di riferimento.

Cinematograficamente sono cresciuta con dei punti fermi come “Jesus Christ super Star” e “The Commitments” di Alan Parker. “La guerra è dichiarata” di Valerie Donzelli del 2011 è un film meraviglioso che mi ha colpito anche per lo straordinario uso della musica. Ammiro e amo i film di Alice Rohrwacher, anch’essa prodotta da Tempesta. Lei riesce sempre a creare dei mondi in cui è preponderante il lato poetico, un fattore che per me è decisivo. Mi piace il cinema di Nadine Labaki e quello di Valeria Bruni Tedeschi e, più in generale, lo sguardo delle nuove registe.


Carlo Cerofolini

(articolo pubblicato su taxidrivers.it)

venerdì, maggio 03, 2024

THE FALL GUY

The Fall Guy

di David Leitch

con Ryan Gosling, Emily Blunt, Aaron Taylor-Johnson

USA, 2024

genere: azione, drammatico, commedia, thriller

durata: 126’

Un’ode al mestiere, sempre in ombra, degli stunt man. Come un regalo e una celebrazione per un lavoro che, pur rimanendo nascosto, è essenziale e fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale. Quello che il regista (e non a caso ex stunt man), David Leitch racconta in “The Fall Guy” è proprio questo: la potenza e l’importanza, spesso dimenticata o, peggio ancora, data per scontata dal sistema. Quello stesso sistema più volte criticato nel corso della narrazione, con ammonimenti e richiami a mancati riconoscimenti a figure che, invece, si equivalgono a quelle che tutti vedono sullo schermo. Sulla scia del successo di “Bullet Train”, Leitch (ri)mette in scena un mistero da risolvere attraverso un personaggio che, solo all’apparenza, è goffo e “intruso”.

Ryan Gosling è Colt Seavers, stuntman hollywoodiano e controfigura della star Tom Ryder (Aaron Taylor-Johnson). In seguito a un grave incidente sul set (del quale lo stesso Colt si incolpa), lo stuntman abbandona il suo mestiere, la sua carriera e la sua fidanzata Jody Moreno, operatrice della macchina da presa interpretata da Emily Blunt. 18 mesi dopo, però, si trova “costretto” a tornare, cercando di riprendersi il lavoro e fidanzata, tenendosi stretto una vita messa costantemente in pericolo da una serie di situazioni.

Nato come adattamento cinematografico della serie televisiva “Professione pericolo”, “The Fall Guy”, così come il suo protagonista, casca sempre in piedi. Muovendosi tra il film d’azione e la screwball comedy, il film di Leitch tocca le giuste corde dello spettatore, talvolta giocandoci e prendendolo (e prendendosi) in giro quando necessario.

Le numerose citazioni delle quali il film è impregnato dall’inizio alla fine contribuiscono a renderlo non soltanto un film d’azione con adrenalina e tensione come unici elementi ai quali appoggiarsi, ma lo fanno virare, almeno in determinati frangenti, verso quel cinema più autoriale non per forza impegnato. E così il mettere alla prova lo stesso Colt con le numerose citazioni che vanno da “Rocky” a “Fast and Furious” è in realtà un modo per giocare con lo spettatore che spazia tra i tanti titoli (quasi tutti “vincolati”, non a caso, alla figura dello stuntman). Lo stesso Tom Ryder è un chiaro riferimento al quasi omonimo videogioco Tomb Raider, che ha come elemento centrale continua avventura e adrenalina.

Ma alle citazioni, più o meno evidenti, si sommano anche scelte registiche e stilistiche degne di nota, scelte che non fanno di “The Fall Guy” il film impegnato e impegnativo dei grandi autori, ma indubbiamente lo rendono appetibile per i gusti e gli standard del pubblico.

Sfruttando la “faida Barbenheimer” Leitch sceglie come volti protagonisti del suo film Gosling e Blunt, entrambi personaggi chiave rispettivamente di “Barbie” e “Oppenheimer” e li mette insieme fin dall’inizio, giocando su questa chimica che si crea anche sul set “fasullo”. Sfruttando la loro notorietà e il loro apprezzamento con il pubblico utilizza la loro immagine a 360°, anche per inserire cinema nel cinema: dal lungo piano sequenza che inquadra e circoscrive Jody nel momento in cui viene presentata come regista in modo da farci comprendere che tutto ruota e ruoterà intorno a lei perché è lei che ha le redini del gioco, alla scansione del volto di Colt necessario per creare una “sostituzione”, tra CGI, deepfake e altre innovazioni tecnologiche.

Il cinema si fa strumento per raccontare il cinema stesso e tutto ciò che si nasconde dietro quella macchina da presa che mostra al pubblico solo il prodotto finale. Dalle citazioni alle nuove tecnologie, passando per le proiezioni (che spesso si sovrappongono ai personaggi stessi come a ricordare che si tratta di finzione) e anche per le discussioni sulle tecniche da utilizzare.

Quel che è certo è che “The Fall Guy” riesce a centrare in pieno il suo obiettivo: essere un titolo esplosivo! Tra colpi di scena sul set, tensione continua e sane risate c’è anche il tempo di disperarsi insieme a Colt ascoltando Taylor Swift.


Veronica Ranocchi