Il Club di Jane Austen ripropone un cinema al femminile che negli anni 80 aveva trovato nuovo vigore attraverso produzioni più che altro indipendenti, nelle quali la struttura narrativa mutuata dal seminale The Big Chill (Il grande freddo di Lawrence Kasdan,1983) incontrava il flusso di coscienza e l’impressionismo Cassavetiano. Ricchi di quell’esuberanza artistica tipicamente Sundance ed esenti dalle esigenze di botteghino, questi film riportavano l’attore al centro della scena e rappresentavano un punto di incontro e di confronto, privato ed insieme artistico per diverse generazioni di attrici; una sfida umana e professionale per ritrovare l’entusiasmo degli inizi ed affinare il proprio repertorio. A suo agio con il testo scritto e l’universo femminile (sua la sceneggiatura di Memorie di una geisha) Swicord contestualizza le tematiche della Austen riproducendone il microcosmo affettivo e sentimentale all’interno del Club a lei dedicato, nel quale le protagoniste con cadenza mensile si ritrovano a discutere dei suoi libri, da cui traggono lo spunto per cercare di risolvere una vita amorosa sempre in bilico.
Il consesso letterario diventa quasi subito una terapia di gruppo nella quale i libri prendono vita attraverso il vissuto delle protagoniste, il cui cotè è perfettamente calato in quel mondo di frizzanti schermaglie e improvvise ritrosie, dove l’incapacità di lasciarsi andare fino in fondo è compensata da un crogiuolo di incontenibili contraddizioni che costituiscono quell’ onda di calda umanità negata ad oltranza da tanto cinema contemporaneo. In questo contesto non bisogna stupirsi se gioie e dolori vengono accomunati da una visione conciliante ed in fin dei conti consolatoria perché lo scopo dell’opera non è quella di fornire un prontuario sulla vita ma concedere allo spettatore uno sguardo svincolato da qualsiasi determinismo o presunta ideologia e riportarlo in quella sospensione emotiva dove il male non esiste e la felicità è una chimera a portata di mano. Interpretato da un gruppo di attrici tutte in parte tra le quali si distinguono l’emergente Emily Blunt, deliziosamente irriconoscibile rispetto al ruolo della nevrotica segretaria de il Diavolo veste Prada, Maria Bello, materna e sensuale nel ruolo di single impenitente, Kathy Baker, ironica e scansonata nell’interpretare una sorte di madre putativa per l’eccentrico gruppo, il Club di Jane Austen, nonostante la densità dei dialoghi che, specialmente nella seconda parte, quando il film tira le fila degli intrecci narrativi, rischiano di rallentarne il ritmo, è un film da consigliare a tutti coloro che amano le donne ma anche a chi, tra il genere maschile si lamenta di non conoscerne i segreti e continua a non capire che l’altra metà del cielo è più vicina di quanto si possa credere: basterebbe rimanere in silenzio per un momento e provare ad ascoltarla.
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