Leoni per Agnelli di Robert Redford (che si ricollega idealmente e quasi chiude il cerchio con il Clint Eastwood di Million Dollar Baby ovvero il rammarico di un passaggio di consegne impossibile, di una incomunicabilita’ generazionale definitiva nonostante le indubbie affinita’) delinea una tendenza nel cinema americano che prendendo spunto dagli avvenimenti bellici di fine secolo, ripropone sulle basi di un realismo nudo e crudo, spesso traumantico per un paese che piu’ di tutti sta pagando in termini di vite umane lo sforzo bellico messo in atto, un modello di giovinezza intesa non solo come eta’ anagrafica e di iniziazione alla vita ma come contenitore di quegli ideali di verita’ e giustizia che sono stati alla base della nascita della giovane democrazia d’oltreoceano e che hanno fatto sognare a colpi di peace and love and rock and roll (Across the universe) buona parte di quei registi che ora la raccontano sullo schermo.
Che sia invocata come un sogno riparatore ad un vita sacrificata alla conoscenza (A youth without a youth) o presa a modello come ritorno ad uno stato dell’eden dove non c’e’ spazio per l’ipocrisia dei valori famigliari (Into the wild) o di quelli istituzionali (leoni per agnelli) questo stato della vita viene sempre definito in analogia (The flag of our father) o in contrapposizione a quella dei Padri, stastica, chiusa su se stessa, incapace di capire, corrotta e corrutrice perche’ non riesce a salvare i propri figli ma anzi li spinge per troppo zelo sull’orlo del precipizio (Nella valle di Elah). E’ un processo di identificazione transgenerazionale che accomuna indipendentemente dall’eta’ (ancora una volta Coppola che torna a filmare con la voglia di un ragazzino) o dalla cultura (il bambino afghano dell’ultimo film di Foster), nella consapevolezza che solo questo stato dell’anima ci puo autorizzare a pensare ad un mondo migliore.
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