martedì, gennaio 08, 2008
Leoni per agnelli
Ci voleva Redford, icona di un cinema liberal che pur non rinunciando all’intrattenimento si concede spesso all’analisi sociale ed alla denuncia del potere sotto tutte le sue forme, per organizzare una sorta di dialogo a quattro voci sui massimi sistemi americani, la politica e l’informazione, che diventa anche lo spunto per una riflessione sui miti fondanti della nazione e su cosa vuol dire essere americano, alla luce delle scelte dell’attuale governo statunitense. Insomma un sacco di carne al fuoco, e non solo anche il rischio di diventare retorico o ancora peggio pesante dal, per quel modo di mettere in scena i protagonisti (il film si svolge all’interno di uno spazio circoscritto e ci mostra le due coppie di interlocutori seduti uno di fronte all’altro, separati da una scrivania che diventa una sorta di spartiacque culturale e generazionale ed anche, quando Tom Cruise la oltrepassa, il simulacro di una diversita’ che non e’ mai esistita), come fossero in una specie di confessionale, in cui, lontano dall’immagine pubblica o istituzionale, senza la divisione tra alunno e professore si affrontano alla pari, senza i vantaggi dei rispettivi ruoli e con a disposizione un corrispettivo che diventa anche un contraltare sulla propria situazione personale. Ed invece avvalendosi di un cast di prime donne assolutamente votate alla causa Redford riesce a tracciare un punto di situazione sullo “Stato dell’Unione” da far rabbrividire: attraverso la figura del senatore repubblicano, che ha la risata contaggiosa ed i modi convincenti del redivivo Cruise, qui alle prese con un ruolo che lo mette in discussione non solo sul piano artistico ma anche personale (molti lo hanno accusato di essere l’ottimo venditore del progetto Scientology), ci dice come sia caduta in basso la politica americana, eternamente aggrappata al prossimo conflitto di civiltA’ per rimediare a scelte operate sulla base del tornaconto personale o per emotivita’ culturale (“mi sono stancato di prenderle” dice il politico in un momento di sincerita’ , per spiegare le ragioni della nuova strategia militare), con quello della giornalista (Meryl Streep) che l’intervista, una donna senza qualita’ e dalla morale assai incerta, il simbolo di una stampa assoldata al servizio del miglior offerente (in questo caso i Repubblicani), e promulgatrice di una verita’ al quale per prima non crede. A riequilibrare le sorti di una situazione senza uscita ci pensa l’accorato appello del vecchio professore, con il regista per la prima volta in una parte che sembra quasi una laurea honoris causa, impegnato a risvegliare, sull’esempio dei due studenti che hanno scelto il rischio della guerra ( ed il film ci tiene a precisare che non appartengono alla classe dominante ma a quelle minoranze che di fatto pagano il prezzo piA’¹ pesante, anche in termini di vite umane dell’insensatezza dominante) al disimpegno qualunquista, arruolandosi nell’esercito impegnato in una guerra (afghana) che sembra la rivisitazione piu’ crudele del deserto dei Tartari, con un nemico che non si vede quasi mai e che ad un certo punto sembra non esistere (e forse e’ cosi’),e che il film ci mostra in un’eroica quanto comovente scena finale, gli ideali dello svogliato studente reso apatico dalla constatazione della banalita’ del male ed avviato, come la maggior parte dell’umanita’ ad una esistenza di pura, (anche se nel caso del personaggio in questione si presuppone ricca di soddisfazioni materiali) di pura sopravvivenza . Certo non siamo di fronte ad un capolavoro ed in fondo il film non ci dice nulla di cio’ che non sapevamo (ma d’altronde la storia continua a dirci le stesse cose), ma il punto non e’ questo: a Redford non interessa spettacolarizzare la forma ne tantomeno confezionare il contenuto con artifici che non gli appartengono: per far questo avrebbe potuto assoldare un regista all’ultima moda od uno dei tanti venditori di fumo che tanto successo riscuotono tra la critica oltranzista. Ed invece quello che gli preme e’ mettere la sua firma ed ancor piu’ la sua faccia sul manifesto di un dissenso che deve diventare una volta per tutte il monito per non perdere piu’ tempo ( i personaggi devono esporre le loro teorie in fretta, perche’ il termpo che li riportera’ ai rispettivi impegni sta per scadere) ed iniziare a fare qualcosa per cambiare il corso della storia, per evitare le conseguenze di un Armageddeon senza ritorno, evitando di aspettare che lo faccia qualcun altro ma prendendosi fino in fondo le proprie responsabilita’ di uomo e di cittadino americano.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento