Compulsando manuali di criptozoologia e' naturale imbattersi in creature il
cui fascino e' riconducibile di gran lunga più alla loro aura semi-leggendaria,
alla stranezza ibrida delle forme, ad una qual inconfessabile attrattiva
teratologica, che alla plausibilità scientifica delle rispettive esistenze. Non
si spiegherebbe altrimenti il permanere sistematico - per quanto laterale -
della presenza di tali "fenomeni" all'interno delle tradizioni delle Culture
più diverse, nonche', parallelamente, il loro insistere nell'affacciarsi dai
rivoli più dimenticati della clessidra del Tempo. A tanto sfoggio d'immaginario
- che e' anche, se non soprattutto, come accennato, un pungolo dispettoso del
desiderio - non si sottrae l'universo xenomorfo che si affianca alla più
"familiare" figura della oramai sessantenne super lucertola/drago Godzilla
(Gojira) nella recente versione proposta da Gareth Edwards, finendo addirittura
per rappresentare - a conti fatti - il principale, se non unico, motivo
d'interesse e parziale epifania dell'opera.
Nel caso, siamo dalle parti di protoblatte in livrea grigio-piombo e a dieta
radioattiva. Meno prestante, l'esemplare maschio sopperisce alla stazza con lo
slancio d'immense ali membranose (tra il pipistrello e il corpo-rombo della
pastinaca) atte a voli radenti o a picchiate verticali. Sul terreno, zampe
lunghissime ed esili costringono ad un'andatura sgraziata da artropode
ingobbito/fiaccato dal combinato disposto delle proprie dimensioni a contatto
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con un elemento incongruo (gli spazi metropolitani), svantaggio sottolineato da
strepiti acuti intercalati da scansioni gutturali simil contatore geiger. Di
pari fantasiosa contaminazione, le estremità: teste piatte e appuntite, rostri
adunchi e dentoni a volte dispari, giù giù fino al ventre/incubatrice
fosforescente (ecco la femmina/regina/mater, sola analogia diretta con
l'eponimo "Alien", assieme alla carcassa riesumata che scimmiotta le "paratie
vertebrali" dell'astronave extraterrestre in Scott/Cameron), pregno di
generazioni ansiose di divorare. Nell'insieme, membra, movenze ed "espressioni"
in tensione mimetico-citazionista tra il furore senza mediazioni, quasi senza
volto ma con pretesa di scarno realismo di "Cloverfield'; la possanza
impacciata che alimenta lo spasmo distruttore di "Pacific rim" e la crudeltà
stilizzata e "perversa" dei sado-insetti di "Starship troopers".
Di concerto ad esse - quasi a margine, verrebbe da dire, pronuba una
sceneggiatura al fenobarbital - si muove sia il mondo degli uomini (con i suoi
ovvi addentellati ripartiti più o meno equamente tra responsabilità verso
l'ambiente - la manipolazione del vivente ribadisce ancora l'incauto affannarsi
e progettare attorno al "piccolo sole" dell'atomo - verso i propri simili -
genitori, figli, mariti e mogli, divisi dall'incombere di una tragedia di
definitiva perentorietà che riflette, seppur su scale e contesti diversi,
medesimi abissi d'indifferenza, di protervia, d'insensatezza, entrambi
condannati a produrre e riprodurre "mostri" - e verso la società -
immagine/calco della nostra infinita transizione, infida illusione a base di
benessere e del terrore di perderlo) sia quello dello stesso "Re Lucertola",
vertice biologico di un equilibrio arcaico per sempre distrutto, immanenza
"simile ad un dio" (seppur priva della spavalda "sensualità" del
rettile/modello nell'assai sbeffeggiato tentativo di Emmerich) a cui diventa
persino banale delegare - e con una neanche tanto dissimulata rassegnazione -
il compito di ripristinare il perpetuarsi (ma davvero per quanto ancora ?) di
quell'"ordine"/transizione al cospetto di un tutt'altro che improbabile
insediarsi dell'ennesima genia brutale, sorda ad ogni dialogo quanto
proverbialmente famelica.
Edwards, incline ad una visione "fantastica" in grado di coniugare l'aderenza
al dato evidente, "materiale" della storia (qualcosa affine alle concretezze
desolate di "District 9") ad un respiro soffuso ma netto che ha l'ampiezza di
una composta malinconia intrisa di moderato ottimismo (come si evinceva dal suo
singolare esordio "fatalmente" intitolato "Monsters", del 2010), diluisce via
via, in questa sua prima avventura nei "grandi numeri" - per denaro a
disposizione, impegno produttivo, durata,
Godzilla stesso, già ribattezzato
dalla grancassa pubblicitaria "il più imponente colosso mai apparso sullo
schermo" - la presa emotiva sui gangli fondamentali della scrittura
cinematografica, accomodandosi ben presto in una sorta di "meraviglioso
routinario" (peraltro assai frequentato), pianificato ed eseguito secondo le
stazioni e i tempi che assommano, alternandoli in un andirivieni meccanico e
blandamente cadenzato, caratteri tipici e situazioni da "monster/disaster
movie": perplessità, larvati sensi di colpa e ubbie accademiche; esauste
frenesie militari; siparietti domestici tra rassicurazione di prammatica e
mestizia sottopelle. Ogni cosa organizzata in funzione (accessoria) degli
scontri tra i giganti, anch'essi, alla fin fine, come perplessi, quasi
trascinati loro malgrado in un certame che ha ben poco di epico, snaturato
com'e' da un terzo incomodo interessato e reso oltremodo goffo dall'incerto
arrancare tra voragini e grattacieli sbriciolati.
Liquidati ciononostante i "conti di specie", Godzilla, ricomposta la regale
imperturbabilità, dispensa una mezza occhiata in tralice ad una comunità
"sapiens" più smarrita che sollevata per poi riguadagnare le immensità marine:
liberazione (di certo temporanea) dalle pastoie "umane" che a noi spettatori
viene comunque preclusa, se non nella dimensione di un sommesso e paziente
esercizio di oblio.
TFK