venerdì, maggio 30, 2014
BOLOGNA 2 AGOSTO / I GIORNI DELLA COLLERA
di: G.Molteni/D.Santamaria Maurizio.
con: G.Maggio, M.Frassino, L.De Angelis, R.Calabrese, L.Flaherty, M.Colombari.
- ITA 2012 -
98 min - Drammatico
Una delle ragioni che confina nell'ipotesi l'aggregarsi nel nostro paese di una lucida coscienza collettiva, quindi di uno strumento atto a guardare al futuro secondo le linee di un sentire condiviso, e' l'equivoca - e spesso tragica - "coesistenza" di un passato irrisolto, dai contorni per molti versi ancora oscuri (e perciò stesso assai controverso) e un presente - su cui quel passato non fa che riverberarsi - di conseguenza opaco, ripiegato malamente su se stesso, intriso di rancori mai sopiti, crogiolo di polemiche estenuanti quanto, a conti fatti, senza approdo. Tale "collante" pervade di se', ad esempio, buona parte degli avvenimenti che dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso e per quasi un ventennio hanno sostanziato quella che abbiamo imparato a conoscere come "strategia della tensione".
Intorno ad un clima del genere che e' anche - a pensarci - un preciso "autoritratto della nazione", almeno quella recente, si esercita un film come "Bologna 2 agosto/I giorni della collera", del duo Molteni/Santamaria M., concentrandosi sulla ricostruzione dei fatti che precedettero ed immediatamente accompagnarono la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 (nemmeno quaranta giorni dopo, e' utile ricordarlo, quella che coinvolse il DC- 9 Itavia sui cieli di Ustica) in cui 85 persone persero la vita e oltre duecento rimasero ferite.
Con un occhio all'indagine giornalistica, l'altro ai risvolti processuali maturati nel tempo, entrambi supportati dai materiali di repertorio in gran parte forniti dall'archivio RAI - presupposti sottolineati dalle sovrimpressioni puntuali di luoghi, date e orari autentici, nei modi del classico ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere - il film e' nel proprio elemento quando si affida al montaggio essenziale, alla concatenazione serrata degli eventi (seppure al limite di un didascalismo insistito) che circoscrive la parabola criminale/eversiva auto-ribattezzatasi "spontaneismo armato" del gruppo estremista dei NAR, alcuni membri storici del quale - Fioravanti, Mambro e Ciavardini - al pari di altri protagonisti dell'epoca, tipo l'origine per antonomasia di tutte le trame nostrane, Licio Gelli o il giudice Mario Amato, assassinato nel giugno di quel fatidico 1980 - con una scelta narrativa che in parte rende più difficile l'accostarsi ad argomenti già di per se' contraddittori da parte di chi non c'era o non sapeva - vengono indicati con nomi di fantasia. Spazi, volti, scenografie, episodi violenti e intrecci vischiosi, quindi, si succedono lineari, assecondando l'energia "grezza" del richiamo cronachistico e il flusso imprevedibile delle tensioni sociali.
Dove l'impianto si disunisce a mostrare i limiti di una visione centrata quasi esclusivamente sullo scrupolo documentaristico, priva cioè di un'impronta registica riconoscibile, e' nel blando anonimato, nella qual corrivita', che caratterizza i momenti di finzione vera e propria. Alla generale piattezza di psicologie troppo affini agli stereotipi di riferimento (i banditi spietati e poco altro; i rappresentanti delle istituzioni ora integerrimi ora in odore di connivenze; il burattinaio sinistro e impenetrabile, e tralasciando la parentesi sentimentale tra il giudice/Flaherty e la giornalista/Colombari che ben poco ha da dire nel contesto e nel tono generale del film), si associa una recitazione spesso e volentieri legnosa, para-televisiva, organizzata attorno a dialoghi la cui maldestra assertività forza spesso i personaggi ad esprimersi con un'innaturale cadenza declamatoria.
Commendevole perché privo di compagni di viaggio in un contraddittorio civile adulto 'ab aeterno' affidato ad una metanoia con ogni probabilità illusoria - e forse, chissà, a questo punto persino immeritata - "Bologna 2 agosto..." non riesce alla fine a coniugare la schiettezza del suo slancio ad uno sforzo di prospettiva, ad una esplicita intenzione polemica, tale da sostenere ancora di più la memoria nel suo ruolo di punto di riferimento vivo del presente.
TFK
EDGE OF TOMORROW-SENZA DOMANI
Edge of Tomorrow-Senza domani
di Doug Liman
con Tom Cruise, Emily Blunt, Will Patton
Usa, 2014
genere, avventura, fantascienza
durata, 113'
di Doug Liman
con Tom Cruise, Emily Blunt, Will Patton
Usa, 2014
genere, avventura, fantascienza
durata, 113'
I paradossi temporali, per i nessi
che stabiliscono con mondi paralleli e realtà alternative sono parte di
una materia di cui il cinema di fantascienza si serve per raccontare le
sue storie. Specialisti di genere e autori di calibro vi si sono
cimentati, a volte sfruttandone la carica eversiva (Donnie Darko),
altre, riducendoli a una funzione narrativa capace di innescare la
componente avventurosa e actiondella
trama; come capitava in “Source Code”, il bel film di Duncan Jones da
cui “Edge of Tomorrow- Senza domani” sembra prendere spunto per
raccontare di un invasione aliena, e del soldato, il tenente William
Cage, chiamato a fermarla. Una missione impossibile per la capacità del
nemico – i Mimics,
nome che sembra pescato dall’esordio americano di Guillelmo del Toro –
di ingaggiare gli avversari conoscendone in anticipo le mosse, e per la
scarsa virilità di Cage, pubblicitario presta alle vita militare per
realizzare filmati di propaganda, e catapultato quasi per sbaglio sul
campo di battaglia. Se non fosse che una volta ucciso, l’ufficiale
invece di morire si risveglia esattamente al punto di partenza, pronto
per rivivere la medesima esperienza. Una maledizione (una gabbia, tanto
per parafrasare la traduzione italiana del cognome del protagonista) che
si trasforma in risorsa grazie all’aiuto di Rita Vrataski (Emily
Blunt), eroina della resistenza destinata a far da spalla al novello
salvatore.
Abituato a districarsi con
disfunzioni temporali di varia natura – in “Go-una notte da dimenticare”
erano il mezzo per decostruire la trama alla maniera di “Pulp Fiction“,
in “Jumper” le conseguenze di un potere sovrannaturale – Doug Liman
aveva per le mani un’arma a doppio taglio. Perchè da un lato il fatto di
poter cambiare il proprio destino, con quello che ne consegue in fatto
di empatia e immaginazione, e’ un desiderio che appartiene alla
coscienza collettiva. Dall’altro si trattava di organizzare un
meccanismo narrativo costretto a rinnovarsi all’interno di un canovaccio
risolto all’interno di due sole situazioni: quella relativa ai
preparativi del combattimento, seguita senza soluzione di continuità da
una resa dei conti definitiva e drammatica, Liman tiene alto il ritmo
con un montaggio serrato, alternando panorami desolati e cruenti
(visionario quello della spiaggia francese che sembra rievocare lo
sbarco in Normandia anche in termini di perdite umane) a riprese più
strette, che consentono di apprezzare la performance di un redivivo Tom
Cruise, a cui qualche ruga in più non impedisce di rendere crediibile la
metamorfosi del suo personaggio, dapprima spaventato e inetto, in
seguito determinato e forte. Se a farla da padrone e’ il confronto tra
la ferocia degli inquietanti alieni, e la multifunzionalità degli
esoscheletri indossati dai soldati, il punto vincente è proprio il modo
in cui viene sfruttato il rewind esistenziale. Le infinite varianti
infatti, oltre a scandire la progressione del confronto, funzionano dal
punto di vista della verosimiglianza, stabilendo una gerarchia tra
vittime (gli umani) e carnefici (i Mimic) in cui le posizioni di
partenza vengono si invertite -come vogliono i codici di genere – ma
solo dopo aver sottoposto lo spettatore a una serie di lutti che
contribuiscono a rendere il senso di un impresa che cresce e prende
corpo senza la meccanicità tipica di questi prodotti, e nel rispetto
della fragilità umana. Da vedere.
(dreamingcinema.it)
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mercoledì, maggio 28, 2014
MALEFICENT
Maleficent
di Robert Stromberg
con Angelina Jolie, Elle Fanning, Juno Temple, Imelda Staunton
Usa, 2013
genere, fantasy, avventura
durata, 97'
Il mainstream americano è fatto di costanti. Oltre agli effetti speciali, ormai predominanti, c’è la capacità di saper scegliere interpreti funzionali alla storia, e la tendenza, meno nobile ma redditizia, di sfruttare fino all’osso le tendenze dei vari filoni cinematografici. Un teorema che “Maleficent”, nel bene e nel male, conferma a pieno titolo, presentando allo spettatore una versione riveduta e corretta de “La bella addormentata nel bosco” la celebre fiaba portata sullo schermo nel 1959 dalla Walt Disney che la ripropone aggiornandola ai gusti fantasy diventati di massima moda grazie alla trilogia di Peter Jackson.
Oggi come ieri a tenere banco è la maledizione che condanna la “bella” al sonno mortifero, e quindi la ricerca del rimedio che la riportarti in vita, individuato come da vulgata dal bacio di un salvatore innamorato della fanciulla. Un intreccio arcinoto che l’esordiente Robert Stromberg rivitalizza con un restyling iconografico che però, non perde nulla o quasi, in termini di tradizione. Così, se da una parte rimangono inalterati gli scenari edenici e sognanti come pure il concetto di offrire una visione stravagante e buffa di quel mondo attraverso un contorno di figurine stravaganti e buffi, “Maleficent” trova la sua autonomia nel protagonismo di Malefica, fata della brughiera diventata cattiva per questioni di cuore, e per questo decisa a vendicarsi sulla figlia dell’amante traditore, il mellifluo re Antonio.
Ovviamente tutto confluirà nel più classico dei lieto fine ma questo non toglie nulla all’efficacia dell’operazione che, al pregio di valorizzare il fascino sensuale e un po’ perverso della diva Jolie,
aggiunge la presenza di un personaggio che porta a compimento un processo di trasformazione che il mainstream contemporaneo ha iniziato anni addietro, e che ha visto la valorizzazione della figura del villain, antagonista capace di offuscare con la sua darkness il fascino nudo e puro dell’eroe di turno. Un mutamento che assorbe gli elementi più nefasti della contemporaneità, per inglobarli all’interno di una personalità multipla -quella di Malefica – capace di armonizzare il bene e il male. Ne esce fuori un’eroina cattiva, come lei stessa si definisce, che però, come vuole la vulgata (siamo sempre all’interno di un prodotto Disney) sarà in grado di rispettare valori e morale della fiaba di riferimento. Uno spettacolo per bambini cresciuti e per adulti bambini, che vuol essere un alternativa allo strapotere degli Hero Movie, genere a cui Malefica, con le sue ali possenti e gli straordinari poteri, potrebbe comunque essere associata.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
di Robert Stromberg
con Angelina Jolie, Elle Fanning, Juno Temple, Imelda Staunton
Usa, 2013
genere, fantasy, avventura
durata, 97'
Il mainstream americano è fatto di costanti. Oltre agli effetti speciali, ormai predominanti, c’è la capacità di saper scegliere interpreti funzionali alla storia, e la tendenza, meno nobile ma redditizia, di sfruttare fino all’osso le tendenze dei vari filoni cinematografici. Un teorema che “Maleficent”, nel bene e nel male, conferma a pieno titolo, presentando allo spettatore una versione riveduta e corretta de “La bella addormentata nel bosco” la celebre fiaba portata sullo schermo nel 1959 dalla Walt Disney che la ripropone aggiornandola ai gusti fantasy diventati di massima moda grazie alla trilogia di Peter Jackson.
Oggi come ieri a tenere banco è la maledizione che condanna la “bella” al sonno mortifero, e quindi la ricerca del rimedio che la riportarti in vita, individuato come da vulgata dal bacio di un salvatore innamorato della fanciulla. Un intreccio arcinoto che l’esordiente Robert Stromberg rivitalizza con un restyling iconografico che però, non perde nulla o quasi, in termini di tradizione. Così, se da una parte rimangono inalterati gli scenari edenici e sognanti come pure il concetto di offrire una visione stravagante e buffa di quel mondo attraverso un contorno di figurine stravaganti e buffi, “Maleficent” trova la sua autonomia nel protagonismo di Malefica, fata della brughiera diventata cattiva per questioni di cuore, e per questo decisa a vendicarsi sulla figlia dell’amante traditore, il mellifluo re Antonio.
Ovviamente tutto confluirà nel più classico dei lieto fine ma questo non toglie nulla all’efficacia dell’operazione che, al pregio di valorizzare il fascino sensuale e un po’ perverso della diva Jolie,
aggiunge la presenza di un personaggio che porta a compimento un processo di trasformazione che il mainstream contemporaneo ha iniziato anni addietro, e che ha visto la valorizzazione della figura del villain, antagonista capace di offuscare con la sua darkness il fascino nudo e puro dell’eroe di turno. Un mutamento che assorbe gli elementi più nefasti della contemporaneità, per inglobarli all’interno di una personalità multipla -quella di Malefica – capace di armonizzare il bene e il male. Ne esce fuori un’eroina cattiva, come lei stessa si definisce, che però, come vuole la vulgata (siamo sempre all’interno di un prodotto Disney) sarà in grado di rispettare valori e morale della fiaba di riferimento. Uno spettacolo per bambini cresciuti e per adulti bambini, che vuol essere un alternativa allo strapotere degli Hero Movie, genere a cui Malefica, con le sue ali possenti e gli straordinari poteri, potrebbe comunque essere associata.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
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PRO E CONTRO: MAPS TO THE STARS
di David Cronenberg
con Julian Moore, Mia Wasikowska, Robert Pattison, John Cusak, Evan Bird
Stati Uniti d'America, Canada, Francia, Germania
genere, drammatico
durata, 95'
PRO
Cronenberg porta in scena una trama complicata e disvelata in una sceneggiatura senza picchi poetici, volutamente inserita nella diegesi di un mondo, quello delle stelle hollywoodiane, che paradossalmente tutto fa, tranne che brillare nelle rispettive dimensioni private dei personaggi (a sottolineare il tutto una fotografia da tipico immaginario del mondo VIP losangelino ). Nel suo nuovo percorso sperimentale, l’autore riprende in parte il discorso cominciato con Cosmopolis, e lo relega alle bassezze di uomini drogati dallo spettacolo, accentuando all’estremo le psicosi dei personaggi, che trovano il martoriamento più grande nel ritorno, inevitabile, dei fantasmi del passato, tra allucinazioni e realtà che decostruiscono l’impero mentale di ognuno. Il fuoco diventa l’elemento archetipico che muove la narrazione, tatuato attraverso le ustioni sul corpo di Agatha Weiss, personaggio più ansiogeno, inquietante e Cronenbergiano della pellicola.
Benjamin è un attore/bimbo prodigio di successo, il padre è uno psicologo/chiropratico che ha in cura un’attrice in cerca di successo, che a sua volta prenderà a lavorare come propria inserviente una ragazza sfregiata da orribili ustioni; quest’ultima si innamorerà di un autista di limousine, in realtà aspirante attore (interpretato da Robert Pattinson, quasi ormai attore feticcio del regista de “Il pasto nudo”).
Cronenberg porta in scena una trama complicata e disvelata in una sceneggiatura senza picchi poetici, volutamente inserita nella diegesi di un mondo, quello delle stelle hollywoodiane, che paradossalmente tutto fa, tranne che brillare nelle rispettive dimensioni private dei personaggi (a sottolineare il tutto una fotografia da tipico immaginario del mondo VIP losangelino ). Nel suo nuovo percorso sperimentale, l’autore riprende in parte il discorso cominciato con Cosmopolis, e lo relega alle bassezze di uomini drogati dallo spettacolo, accentuando all’estremo le psicosi dei personaggi, che trovano il martoriamento più grande nel ritorno, inevitabile, dei fantasmi del passato, tra allucinazioni e realtà che decostruiscono l’impero mentale di ognuno. Il fuoco diventa l’elemento archetipico che muove la narrazione, tatuato attraverso le ustioni sul corpo di Agatha Weiss, personaggio più ansiogeno, inquietante e Cronenbergiano della pellicola.
David Cronenberg è tra i pochi autori che, dopo una filmografia che ha regalato tanti capolavori (abbiamo citato prima “Naked lunch”), non si ferma e continua a sperimentare (similmente a Martin Scorsese, che ha spaccato la critica in due col recente “The wolf of wall street”), muovendo, in questo caso, burattini nel teatro microcosmico che è Hollywood. E se tutto questo per gli amanti del suo vecchio cinema può risultare un’operazione ectoplasmatica di un artista grande solo in passato, o peggio un’altra inutile invettiva contro il fallimento del sogno americano, Maps to the stars in realtà reinventa le cifre stilistiche di un sofista della cinematografia che, in questo caso, se non ha centrato il capolavoro, lo ha quantomeno sfiorato.
Antonio Romagnoli
Antonio Romagnoli
CONTRO
Hollywood brucia
e con lei quello che resta del sogno americano. Una favola nera che il
cinema è abituata a raccontarsi per esorcizzare i fantasmi di una crisi
che gli appartiene ancora prima di quella che ha colpito il resto del
mondo. Annunciata dai guru della comunicazione, la morte della
settima arte è diventata, alla pari di altre storie, materia di
spettacolo, venendo meno alla sua carica eversiva. A ricordarcelo ci
aveva pensato non più di un anno fa Seth Rogen che, nel blockbuster
"Facciamola finita" trasformava la mecca del cinema in una Sodoma e
Gomorra tutta da ridere, con attori e registi spazzati via per eccesso
di egoismo. Questo per dire di un eversione talmente frequentata da
diventare normale, e di una trama- quella di "Maps to the Stars"
incentrata su una famiglia votata al Dio spettacolo - simile a quelle
che l'hanno preceduta, con vizi privati e pubbliche virtù mostrati allo
spettatore in un trionfo di grettezza e scabrosità. A fare la differenza
nel film di Cronenberg non è quindi la novità dell'escursione
antropologica, ne tantomeno il carosello di deviazioni che testimoniano
il prezzo da pagare ai meccanismi dell'industria cinematografica; come
dimostra in maniera agghiaggiante la visita alla bambina malata da parte
di Benjie Weiss (un inquietante Evan Bird, autentica rivelazione), baby star affetto da problemi di tossicodipendenza, oppure, tornado al mondo degli adulti, l'atteggiamento di Havana Segrand (interpretata da una Julian Moore disperata e schizofrenica almeno quanto la Cate Blanchett di "Blue Jasmine"),
diva sul viale del tramonto che senza remore, e con molto cinismo, trae
vantaggio delle disgrazie altrui. A essere impareggiabile è invece la
dimensione di straniamento, e poi il distacco con cui il regista
canadese si rivolge ai personaggi.
Sospendendo
il giudizio e operando da entomologo, Cronenberg mette in scena un
teatro dell'assurdo, popolato da creature grottesce e inermi, destinate
per natura all'autodistruzione. Macerie di umanità in cui ritroviamo
intatta la poetica dall'autore, a incominciare dalla virulenza del corpo
fisico, presente nel film attraverso il peccato originale che il
personaggio di Agatha Weiss (Mia Wasikowska) si porta dietro fin dalla
nascità, e che non a caso entra in campo in occasione della morte del
bambino della collega di Havana, vittima innocente di una contaminazione
che da li in poi non risparmierà nessuno. E poi nell'assoluta alterità
delle dinamiche relazionali, deformate dal ghigno perverso e obbliquo
del regista, pronto a giocare con perbenismo e buone maniere,
sbeffeggiate da sequenze come quella della conversazione "escatologica"
tra Benjie e il suo amichetto, e dalla scena di Havana intenta a dare ordini alla sua assistente dal water su cui sta defecando. Un gran guignol di
sangue e dissolutezze, raffreddato dall'equilibrio geometrico di
inquadrature che trasformano le pulsioni della carne in sinapsi
cerebrali.
Dopo gli
esperimenti metalinguistici di "Cosmopolis" Cronenberg torna sulla terra
sporcandosi le mani con un copione volutamente "basso", in cui
situazioni e dialoghi (da soap opera) dovrebbero essere il propulsore
per una visione decante dell'esistenza umana. Lungi da essere un'opera
compiuta "Maps to the Stars" sembra più il frutto di un cambiamento
ancora in corso, e di una ricerca di alternative in via di definizione.
Lo si intuisce dalla risposta dell'autista, interpretato da Robert
Pattison che, alla domanda di Havana sui particolari della sua vita
sessuale, si disimpegna con un'affermazione - "sto sperimentando" - che
sembra il manifesto programmatico di un autore impegnato a riformulare
il suo cinema.
nickoftime
nickoftime
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recensione
lunedì, maggio 26, 2014
X-MEN-GIORNI DI UN PASSATO FUTURO
X-Men- Giorni di un futuro passato
di Bryan Singer
con Hugh Jackman, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, James MacAvoy, Nicholas Hoult
Usa, 2014
genere, drammatico, avventura, fantascienza
durata, 130'
Il ritorno di Bryan Singer alla Marvel, ed in particolare alla serie dedicata agli X-Men, è cosa di poco conto. Tanto per fare paragoni, sarebbe come se Mourinho dopo la parentesi spagnola fosse tornato all’Inter oppure, restando al cinema, che Sam Raimi si gettasse dietro le spalle dissapori e incomprensioni, e tornasse a dirigere Spiderman. L’importanza di Singer poi ha che fare con i numeri e con un primato importante in termini di credibilità, avendo lui diretto con quest’ultimo episodio dei mutanti ( ma il progetto prevede anche un seguito) ben quattro Hero Movies, tra cui ricordiamo la controversa riedizione di “Superman Returns”.
Per riannodare i fili con i suoi prediletti il regista sceglie di viaggiare nel tempo, immaginando una storia in cui il ritorno al passato di Wolverine, spedito nella Los Angeles degli anni 70 per incontrare Charles Xavier, è l’estremo tentativo per cambiare il corso di eventi che vedono i mutanti perseguitati e uccisi da robot -le sentinelle – usati dal governo per sbarazzarsi della loro presenza. Il compito di Logan sarà quello di rimettere insieme il gruppo scioltosi all’indomani della cattura di Magneto, convincendo il riluttante Xavier, caduto in depressione per il tradimento di Raven, a ritrovare ideali e determinazione.
Detto che il film “X-Men- Giorni di un futuro passato” è la trasposizione riveduta e corretta di una delle saghe più belle del mondo Marvel (scritta dal grande Chris Claremont), è impossibile non sottolineare l’abilità di regista e produttori di operare un restyling privo di soluzioni traumatiche (come invece era accaduto a “Spiderman” nel passaggio di consegne tra Sam Raim e Marc Webb) e lavorando più all’interno del tessuto narrativo che in quello del marketing. Così come non si può non notare che il viaggio temporale di Xavier e soci sembra replicare l’idea di “X-Men: l’inizio”, in cui le origini dei mutanti sono rivisitate in chiave vintage, e che la nuova storia sia ritagliata su quei personaggi della serie interpretati da alcuni degli attori più in voga del momento. In questo modo il protagonismo commerciale di Jennifer Lawrence, e quello per cinefili di Michael Fassbender, (Shame, 12 anni schiavo) aggiunge al film un surplus di immaginario cinematografico che sicuramente farà bene alle casse dei produttori.
Sul piano dei risultati però il film non è’ all’altezza delle aspettative perché l’operazione nostalgia voluta da Singer rimane a metà strada tra la rivisitazione di un mondo perduto e una riformulazione testuale che non apporta nessuna novità sostanziale. In questo senso, anche l’ennesimo tradimento di Magneto, prevedibile quanto meccanismo, ripropone una dialettica tra bene e male che non trova alternative a ciò che abbiamo già visto. Così in una trama oscura e apocalittica, in cui il pendolo esistenziale oscilla tra catastrofe e palingenesi a emergere è l’umanità dei vari personaggi, tutti quanti impegnati, chi più chi meno, a mostrare il lato più fragile delle loro personalità. Certo, non siamo dalle parti del Superman ultrasensibile disegnato da Singer, ma vedere Wolverine in versione pacifista e’ quasi una rivoluzione. Il resto invece, e’ routine d’autore.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
di Bryan Singer
con Hugh Jackman, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, James MacAvoy, Nicholas Hoult
Usa, 2014
genere, drammatico, avventura, fantascienza
durata, 130'
Il ritorno di Bryan Singer alla Marvel, ed in particolare alla serie dedicata agli X-Men, è cosa di poco conto. Tanto per fare paragoni, sarebbe come se Mourinho dopo la parentesi spagnola fosse tornato all’Inter oppure, restando al cinema, che Sam Raimi si gettasse dietro le spalle dissapori e incomprensioni, e tornasse a dirigere Spiderman. L’importanza di Singer poi ha che fare con i numeri e con un primato importante in termini di credibilità, avendo lui diretto con quest’ultimo episodio dei mutanti ( ma il progetto prevede anche un seguito) ben quattro Hero Movies, tra cui ricordiamo la controversa riedizione di “Superman Returns”.
Per riannodare i fili con i suoi prediletti il regista sceglie di viaggiare nel tempo, immaginando una storia in cui il ritorno al passato di Wolverine, spedito nella Los Angeles degli anni 70 per incontrare Charles Xavier, è l’estremo tentativo per cambiare il corso di eventi che vedono i mutanti perseguitati e uccisi da robot -le sentinelle – usati dal governo per sbarazzarsi della loro presenza. Il compito di Logan sarà quello di rimettere insieme il gruppo scioltosi all’indomani della cattura di Magneto, convincendo il riluttante Xavier, caduto in depressione per il tradimento di Raven, a ritrovare ideali e determinazione.
Detto che il film “X-Men- Giorni di un futuro passato” è la trasposizione riveduta e corretta di una delle saghe più belle del mondo Marvel (scritta dal grande Chris Claremont), è impossibile non sottolineare l’abilità di regista e produttori di operare un restyling privo di soluzioni traumatiche (come invece era accaduto a “Spiderman” nel passaggio di consegne tra Sam Raim e Marc Webb) e lavorando più all’interno del tessuto narrativo che in quello del marketing. Così come non si può non notare che il viaggio temporale di Xavier e soci sembra replicare l’idea di “X-Men: l’inizio”, in cui le origini dei mutanti sono rivisitate in chiave vintage, e che la nuova storia sia ritagliata su quei personaggi della serie interpretati da alcuni degli attori più in voga del momento. In questo modo il protagonismo commerciale di Jennifer Lawrence, e quello per cinefili di Michael Fassbender, (Shame, 12 anni schiavo) aggiunge al film un surplus di immaginario cinematografico che sicuramente farà bene alle casse dei produttori.
Sul piano dei risultati però il film non è’ all’altezza delle aspettative perché l’operazione nostalgia voluta da Singer rimane a metà strada tra la rivisitazione di un mondo perduto e una riformulazione testuale che non apporta nessuna novità sostanziale. In questo senso, anche l’ennesimo tradimento di Magneto, prevedibile quanto meccanismo, ripropone una dialettica tra bene e male che non trova alternative a ciò che abbiamo già visto. Così in una trama oscura e apocalittica, in cui il pendolo esistenziale oscilla tra catastrofe e palingenesi a emergere è l’umanità dei vari personaggi, tutti quanti impegnati, chi più chi meno, a mostrare il lato più fragile delle loro personalità. Certo, non siamo dalle parti del Superman ultrasensibile disegnato da Singer, ma vedere Wolverine in versione pacifista e’ quasi una rivoluzione. Il resto invece, e’ routine d’autore.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
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venerdì, maggio 23, 2014
LE MERAVIGLIE
Le meraviglie
di Alice Rohrwacher
con Maria Alexandra Lungu, Alba Rohrwacher, Monica Bellucci
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 110'
Siamo sicuri che anche nel cinema esiste ed è attivo un inconscio
comune. Se così non fosse dovremmo rinunciare all'ebbrezza del mistero
di una metempsicosi filmica che permette al nocciolo fondante
dell'esistenza umana di rinnovare i suoi miti. "Le meraviglie", il nuovo
film di Alice Rorhwacher ("Corpo Celeste"),
si presta naturalmente a questo gioco di specchi, essendo intriso di
morbidezze ancestrali e di una ispirazione che non nasconde suggestioni
di cinema dal sapore antico. A cominciare da una forma cinematografica
che, nell'uso di pratiche e di estetiche documentarie, ripropone i
principi della lezione neorelista; come lo sono la scelta di
rappresentare l'esistenza umana senza alcun artificio, il naturalismo
della recitazione (perfetta quella dell'esordiente Maria Alexandra
Lungu), per non dire dell'opzione pauperistica derivata dal protagonismo di personaggi socialmente deboli, come lo sono quelli creati dalla fantasia della regista.
Ma la diversità del film della Rohrwarcher, e nel contempo il suo pregio, è la formulazione di uno sguardo primigenio che si posa su cose e persone come fosse prima volta. La meraviglia cui si allude è dunque lo stato d'animo e la reazione di una bambina che cerca di rimanere tale, nonostante le responsabilità che i genitori le assegnano. Sono lo stupore e il rapimento che la colgono all'irruzione di un universo altro, temuto e insieme desiderato, e rappresentato dalla fascinazione per la star della tv interpretata da Monica Bellucci, fasciata nel candore virginale e kitsch del suo costume di scena. Ma è anche l'attitudine dell'occhio filmico, capace di rendere l'incantesimo di una natura primordiale e arcaica con un realismo a maglie larghe, pronto a dilatarsi in una contemplazione che si carica di simboli e allusioni; come lo è la circolarità delle scene che aprono e chiudono il lungometraggio, legate all'atto del dormire e quindi alla materia onirica di cui il film è impregnato. Come dimostra in maniera eloquente l'ultimo fotogramma, con la casa paterna improvvisamente spoglia e disabitata, a instillare il dubbio che nulla di quanto abbiamo visto sia realmente accaduto, e ancora prima, l'incontro fra Gelsomina e il suo giovane amico, rubato della sua concretezza e consegnato alla magia di un sogno a occhi aperti. Emergono dalla memoria echi felliniani, evocati dal nome della giovane protagonista e dalla presenza di Milly Catena, diva televisiva che alla maniera de "Lo sceicco bianco" traduce l'incantesimo di quella apparizione in una sorta di fenomeno circense. Ma anche quelli di film più recenti come "Stop the Pounding Heart" di Roberto Minervini, che si sovrappone a quello della Rohrwacher non solo negli ambienti e nella dinamiche famigliari, ma soprattutto nella percezione minacciosa e disgregante dell'universo esterno al nucleo originario; e poi dell'ultima fatica di Edoardo Winspeare (In grazia di Dio") di cui "Le meraviglie" condivide la predominanza di un gineceo altrettanto attivo, e una visione politica che si oppone alla crisi con un modello arcaico e bucolico, in cui il ritorno alla terra è una questione economica e di valori fondativi. Certo, il film non è esente da difetti, che in questo caso si trovano nella tendenza della storia a rimanere ipnotizzata dalla bellezza del suo stesso sguardo. E poi nell'estensione del minutaggio che in alcuni passaggi l'esilità della trama non riesce a giustificare.
Ciò non toglie che, avvicinato senza pregiudizi e con il cuore aperto, "Le meraviglie" sia in grado di offrire allo spettatore una poesia umana di rara bellezza.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Alice Rohrwacher
con Maria Alexandra Lungu, Alba Rohrwacher, Monica Bellucci
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 110'
Lungu), per non dire dell'opzione pauperistica derivata dal protagonismo di personaggi socialmente deboli, come lo sono quelli creati dalla fantasia della regista.
Ma la diversità del film della Rohrwarcher, e nel contempo il suo pregio, è la formulazione di uno sguardo primigenio che si posa su cose e persone come fosse prima volta. La meraviglia cui si allude è dunque lo stato d'animo e la reazione di una bambina che cerca di rimanere tale, nonostante le responsabilità che i genitori le assegnano. Sono lo stupore e il rapimento che la colgono all'irruzione di un universo altro, temuto e insieme desiderato, e rappresentato dalla fascinazione per la star della tv interpretata da Monica Bellucci, fasciata nel candore virginale e kitsch del suo costume di scena. Ma è anche l'attitudine dell'occhio filmico, capace di rendere l'incantesimo di una natura primordiale e arcaica con un realismo a maglie larghe, pronto a dilatarsi in una contemplazione che si carica di simboli e allusioni; come lo è la circolarità delle scene che aprono e chiudono il lungometraggio, legate all'atto del dormire e quindi alla materia onirica di cui il film è impregnato. Come dimostra in maniera eloquente l'ultimo fotogramma, con la casa paterna improvvisamente spoglia e disabitata, a instillare il dubbio che nulla di quanto abbiamo visto sia realmente accaduto, e ancora prima, l'incontro fra Gelsomina e il suo giovane amico, rubato della sua concretezza e consegnato alla magia di un sogno a occhi aperti. Emergono dalla memoria echi felliniani, evocati dal nome della giovane protagonista e dalla presenza di Milly Catena, diva televisiva che alla maniera de "Lo sceicco bianco" traduce l'incantesimo di quella apparizione in una sorta di fenomeno circense. Ma anche quelli di film più recenti come "Stop the Pounding Heart" di Roberto Minervini, che si sovrappone a quello della Rohrwacher non solo negli ambienti e nella dinamiche famigliari, ma soprattutto nella percezione minacciosa e disgregante dell'universo esterno al nucleo originario; e poi dell'ultima fatica di Edoardo Winspeare (In grazia di Dio") di cui "Le meraviglie" condivide la predominanza di un gineceo altrettanto attivo, e una visione politica che si oppone alla crisi con un modello arcaico e bucolico, in cui il ritorno alla terra è una questione economica e di valori fondativi. Certo, il film non è esente da difetti, che in questo caso si trovano nella tendenza della storia a rimanere ipnotizzata dalla bellezza del suo stesso sguardo. E poi nell'estensione del minutaggio che in alcuni passaggi l'esilità della trama non riesce a giustificare.
Ciò non toglie che, avvicinato senza pregiudizi e con il cuore aperto, "Le meraviglie" sia in grado di offrire allo spettatore una poesia umana di rara bellezza.
(pubblicata su ondacinema.it)
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mercoledì, maggio 21, 2014
A PROPOSITO DI GODZILLA
Compulsando manuali di criptozoologia e' naturale imbattersi in creature il cui fascino e' riconducibile di gran lunga più alla loro aura semi-leggendaria, alla stranezza ibrida delle forme, ad una qual inconfessabile attrattiva teratologica, che alla plausibilità scientifica delle rispettive esistenze. Non si spiegherebbe altrimenti il permanere sistematico - per quanto laterale - della presenza di tali "fenomeni" all'interno delle tradizioni delle Culture più diverse, nonche', parallelamente, il loro insistere nell'affacciarsi dai rivoli più dimenticati della clessidra del Tempo. A tanto sfoggio d'immaginario - che e' anche, se non soprattutto, come accennato, un pungolo dispettoso del desiderio - non si sottrae l'universo xenomorfo che si affianca alla più "familiare" figura della oramai sessantenne super lucertola/drago Godzilla (Gojira) nella recente versione proposta da Gareth Edwards, finendo addirittura per rappresentare - a conti fatti - il principale, se non unico, motivo d'interesse e parziale epifania dell'opera.
Nel caso, siamo dalle parti di protoblatte in livrea grigio-piombo e a dieta radioattiva. Meno prestante, l'esemplare maschio sopperisce alla stazza con lo slancio d'immense ali membranose (tra il pipistrello e il corpo-rombo della pastinaca) atte a voli radenti o a picchiate verticali. Sul terreno, zampe lunghissime ed esili costringono ad un'andatura sgraziata da artropode ingobbito/fiaccato dal combinato disposto delle proprie dimensioni a contatto con un elemento incongruo (gli spazi metropolitani), svantaggio sottolineato da strepiti acuti intercalati da scansioni gutturali simil contatore geiger. Di pari fantasiosa contaminazione, le estremità: teste piatte e appuntite, rostri adunchi e dentoni a volte dispari, giù giù fino al ventre/incubatrice fosforescente (ecco la femmina/regina/mater, sola analogia diretta con l'eponimo "Alien", assieme alla carcassa riesumata che scimmiotta le "paratie vertebrali" dell'astronave extraterrestre in Scott/Cameron), pregno di generazioni ansiose di divorare. Nell'insieme, membra, movenze ed "espressioni" in tensione mimetico-citazionista tra il furore senza mediazioni, quasi senza volto ma con pretesa di scarno realismo di "Cloverfield'; la possanza impacciata che alimenta lo spasmo distruttore di "Pacific rim" e la crudeltà stilizzata e "perversa" dei sado-insetti di "Starship troopers".
Di concerto ad esse - quasi a margine, verrebbe da dire, pronuba una sceneggiatura al fenobarbital - si muove sia il mondo degli uomini (con i suoi ovvi addentellati ripartiti più o meno equamente tra responsabilità verso l'ambiente - la manipolazione del vivente ribadisce ancora l'incauto affannarsi e progettare attorno al "piccolo sole" dell'atomo - verso i propri simili - genitori, figli, mariti e mogli, divisi dall'incombere di una tragedia di definitiva perentorietà che riflette, seppur su scale e contesti diversi, medesimi abissi d'indifferenza, di protervia, d'insensatezza, entrambi condannati a produrre e riprodurre "mostri" - e verso la società - immagine/calco della nostra infinita transizione, infida illusione a base di benessere e del terrore di perderlo) sia quello dello stesso "Re Lucertola", vertice biologico di un equilibrio arcaico per sempre distrutto, immanenza "simile ad un dio" (seppur priva della spavalda "sensualità" del rettile/modello nell'assai sbeffeggiato tentativo di Emmerich) a cui diventa persino banale delegare - e con una neanche tanto dissimulata rassegnazione - il compito di ripristinare il perpetuarsi (ma davvero per quanto ancora ?) di quell'"ordine"/transizione al cospetto di un tutt'altro che improbabile insediarsi dell'ennesima genia brutale, sorda ad ogni dialogo quanto proverbialmente famelica.
Edwards, incline ad una visione "fantastica" in grado di coniugare l'aderenza al dato evidente, "materiale" della storia (qualcosa affine alle concretezze desolate di "District 9") ad un respiro soffuso ma netto che ha l'ampiezza di una composta malinconia intrisa di moderato ottimismo (come si evinceva dal suo singolare esordio "fatalmente" intitolato "Monsters", del 2010), diluisce via via, in questa sua prima avventura nei "grandi numeri" - per denaro a disposizione, impegno produttivo, durata, Godzilla stesso, già ribattezzato dalla grancassa pubblicitaria "il più imponente colosso mai apparso sullo schermo" - la presa emotiva sui gangli fondamentali della scrittura cinematografica, accomodandosi ben presto in una sorta di "meraviglioso routinario" (peraltro assai frequentato), pianificato ed eseguito secondo le stazioni e i tempi che assommano, alternandoli in un andirivieni meccanico e blandamente cadenzato, caratteri tipici e situazioni da "monster/disaster movie": perplessità, larvati sensi di colpa e ubbie accademiche; esauste frenesie militari; siparietti domestici tra rassicurazione di prammatica e mestizia sottopelle. Ogni cosa organizzata in funzione (accessoria) degli scontri tra i giganti, anch'essi, alla fin fine, come perplessi, quasi trascinati loro malgrado in un certame che ha ben poco di epico, snaturato com'e' da un terzo incomodo interessato e reso oltremodo goffo dall'incerto arrancare tra voragini e grattacieli sbriciolati.
Liquidati ciononostante i "conti di specie", Godzilla, ricomposta la regale imperturbabilità, dispensa una mezza occhiata in tralice ad una comunità "sapiens" più smarrita che sollevata per poi riguadagnare le immensità marine: liberazione (di certo temporanea) dalle pastoie "umane" che a noi spettatori viene comunque preclusa, se non nella dimensione di un sommesso e paziente esercizio di oblio.
TFK
lunedì, maggio 19, 2014
IL CINEMA BLOCKBUSTER E LA FRONTIERA DEL NUOVO DESIDERIO
Fin da quando è
nato - parliamo all'incirca della fine dei '70 con film come "Jaws" di Steven Spielberg e "Star Wars" di George Lucas a definirne i contorni di
una nuovo modo di fare cinema - il film blockbuster è stato
caratterizzato dalla capacità di incidere nell'immaginario popolare,
mettendo insieme nitrato d'argento e spirito dei tempi. Una miscela che,
alla pari dei poemi dell'epica classica, ha provveduto a mitizzare
diversi aspetti dell'esperienza umana. Non solo le forme astratte che
appartenevano alla condizione esistenziale ma anche gusti e tendenze che
nella storia si sono alternate nel forgiare i desideri dello
spettatore. Da qui il successo su larga scala, in parte scaturito dalla
possibilità economica di condensare il nucleo di un'idea all'interno di
un contenitore di massima spettacolarità, in parte frutto del talento
visivo di autori che riuscivano a scolpire i fotogrammi di quei film
nell'immaginario dello spettatore.
Ecco allora, a partire da quel periodo, un pupullare di immagini e sequenze destinate a entrare nella storia del cinema: come dimenticare le traiettorie stellari delle astronavi di Han Solo e Luke Skywalker, il realismo volante del "Superman" di Christopher Reeves, e di seguito ancora la pietra rotolante che insegue un Indiana Jones più fuggittivo che mai. E ancora mostri, eroi e imprese mirabolanti pronte a cristallizzarsi in fotogrammi destinate a entrare negli annali della storia popolare; alla pari dei grattacieli di "Metropolis" o della Lola di Marlen Dietrich. Una fioritura che, paradossalmente - per le possibilità offerte dalle nuove tecnologie- sembra essersi spenta nella produzione del nuovo millennio, orfana di una ricchezza che è stata polverizzata dal numero di fotogrammi, cresciuti in maniera esponenziale all'interno di una singola sequenza. Un dato di fatto che afferma in maniera inequivocabile l'egemonia di una quantita' priva di fantasia, e di una progressione narrativa poco interessata alla possibilità di cogliere i segni che compongono la cornice filmica. L'esempio più evidente e' fornito dagli "Hero Movies" della Marvel, esempio massimo di cinema ad alto tasso di spettacolarità, che alla saturazione del mercato e delle sale non fa corrispondere una proposta estetica e iconografica capace di restare nella memoria. Una carenza che i produttori ben conoscono, e che cercono di supplire con la scelta di soggetti che si portano dietro una riconoscibilità esterna, come quella derivata dai comics nel caso dei supereroi, o culturale e cinefila nel caso del "Godzilla" di Gareth Edwards.
Le cause sono da imputare alla penuria di talenti (con Peter Jackson e pochi altri a figurare come magnifiche eccezioni) così come alla mutazione antropologica di un terminale, l'homo videns, compresso all'interno di un fruizione diversia dalla sala, e perciò meno avido di grandi affreschi scenici. Ridotto in un loculo che corrisponde nella maggior parte delle volte a una stanza d'appartamento, il nuovo spettatore è alla ricerca di altre meraviglie, diverse dai pixel cinematografici usurati da una disponibilità fuori da ogni misura, e affini ai sistemi operativi e alle intelligenze artificiali dei programmi interattivi. Un pò come accade aTheodore, il personaggio dell'ultimo film di Spike Jonze (Her), innamorato di una "voce" sintetica capace di sublimarne i desideri in un modo che il cinema di oggi non riesce più a fare. Lo scollamento è evidente, e, per il momento, destinato ad aumentare. Aspettando il futuro prossimo futuro.
GODZILLA
Godzilla
di Gareth Edwards
con Aaron Taylor Johnson, Ken Watanabe, Juliette Binoche, Elizabeth Olsen
Usa, 2014
genere, fantascienza, drammatico
durata, 123'
Spezzoni di
cinegiornale testimoniano gli esperimenti nucleari
effettuati dagli Stati Uniti nel corso del secolo precedente. Archeologia documentaria destinata a consumare gli spiccioli di una verosimiglianza destinata al fuori campo, e sulla quale trovano asilo i titoli di testa di "Godzilla", rivisitazione filmica del mostro giapponese diretta da quel Gareth Edwards che
aveva già frequentato la fauna preistorica con "Monsters", la sua opera
d'esordio. Di quella prima volta è rimasto il soggetto, spaventoso, e la
metafora di un pianeta che si ribella nella maniera peggiore all'incontinenza virulenta dell'homo sapiens. Il suo nuovo film, complice una coproduzione con il paese del sol levante, riprende l'iconografia più classica della saga,
presentandoci un mostro meno stilizzato e più simile a quello che si muoveva negli spazi metropolitani delle sue prime avventure, ripreso spesso
in campo lungo mentre combatte avversari di pari ingombro fisico. Un dettaglio,
quest'ultimo, conseguenza di una vicenda che vede
Godzilla chiamato a contrastare l'azione distruttiva di due blatte gigantesche, decise a colonizzare la terra con una progenie di consimili. Distante dall'omonimo film di Roland Emmerich
(1998), il Godzilla di Edwards si fa portatore di una filosofia che ragionando sui possibili scenari di una crisi nucleare (nel film i mostruosi
parassiti crescono e si nutrono di questa fonte energetica) e sulle sue conseguenze -modellate su quelle
realmente accadute all'inizio del nuovo secolo (maremoti e terremoti che
ricordano l'escalation di Fukushima)- esorcizza le paure del millennio da un punto di vista ambientalista, e in parte new age, lasciando intendere una qualche tipo di empatia tra il temibile lucertolone e i suoi lillipuziani alleati.
Un repertorio che Edwards organizza con le ricette di sempre, intervallando lo scontro dei mostruosi predatori con le vicende di uomini e donne impegnati a sopravvivergli; e poi organizzandosi con una sceneggiatura globetrotter (secondo uno dei format più in voga del mainstream contemporaneo) preoccupata più a spostare i contendenti in giro per il mondo che a costruire una variante alla schermaglia tra il predatore e le sue vittime. In questo modo le cose più belle accadono nella prima parte del film, con la sequenza d'apertura che alla maniera del primo "Alien" ci porta nel ventre del mostro; e subito dopo con quella dell'incidente alla centrale nucleare, che fornisce al film il suo supposto emotivo, poi sviluppato attraverso la figura del tenente Fort Brody (interpretato da Aaron Taylor-Johnson piuttosto spento) mosso da un coraggio e da uno spirito di sacrificio che viaggiano in parallelo con quello tutto istintuale del prodigioso rettile. Purtroppo però il turismo cinematografico di "Godzilla" non produce migliorie, perchè nonostante gli sforzi, la geografia del paesaggio non riesce a emanciparsi dall'anonimato visivo (foreste amazzoniche e grattacieli sembrano provenire da un unica location), mentre l'interazione tra i diversi personaggi, un puro riempitivo. Tanto basta comunque per sbancare il botteghino, obiettivo principale di un film come "Godzilla". Aldilà di qualsiasi dissertazione.
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sabato, maggio 17, 2014
PIU' BUIO DI MEZZANOTTE
Più buio di mezzanotte
di Sebastiano Riso
con Davide Capone, Micaela Ramazzotti
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 98'
Istruzioni per l'uso: "La Semaine de la Critique"
nasce nel 1962 come reazione al concorso ufficiale del festival di
Cannes, ritenuto conformista e fin troppo rispettoso della tradizione.
L'intento, oggi come allora, era quello di presentare pellicole
indipendenti e originali, capaci di marcare in maniera più netta il
distacco con il resto del cinema contemporaneo. Esserne parte in causa
in qualità di regista rappresenta dunque, un'investitura impegnativa,
sia in termini di aspettative, che di qualità artistica. Una segno di
distinzione che può aiutare a comprendere "Più buio di mezzanotte",
opera prima di Sebastiano Riso, appena passato nella sezione in
questione, così com'era capitato lo scorso anno a "Salvo".
Con la differenza che il film di Riso, al contrario di quello di Fabio
Grassadonia e Antonio Piazza, ha dalla sua parte una distribuzione
certa, essendo il film coprodotto da Rai Cinema. Questo per testimoniare
di un'eccezionalità cinematografica che non si ferma ai contenuti ma
continua nel suo percorso di diffusione e visibilità.
La storia, ispirata da persone realmente esistite, racconta i "400 colpi" di Davide, adolescente omosessuale in fuga da un'esistenza infelice e da un padre aguzzino, che un giorno si unisce ad un gruppo di ragazzi di strada con i quali intraprende un esistenza raminga alla scoperta di un mondo vagheggiato e sconosciuto.
Se, istintivamente, si sarebbe portati a pensare che l'essenza del film si concentri sulla particolarità della materia narrativa - intessuta di evidenze che il film tratta con pudore ma senza falsità- "Più buio di mezzanotte" va oltre la tematica dell'identità sessuale. La sequenza iniziale è infatti esplicativa di un travaglio interiore che è già diventato consapevolezza, con Davide ripreso in primo piano, e subito dopo immerso in uno spazio arredato a immagine e somiglianza di una personalità esplosa nell'abbigliamento eccentrico, e sui poster che tappezzano le pareti del suo rifugio. Quel che viene dopo invece, è l'affermazione di una diversità pronta a uscire allo scoperto attraverso un apprendistato, drammatico e insieme meravigliato, in cui sofferenza e distacco diventano il prezzo da pagare ad una coerenza vissuta fino in fondo. Vanno in questa direzione sia il filone principale della storia, quello dedicato all'amicizia di Davide con Rettore e la sua compagnia, sia quello secondario, conseguenza di un passato famigliare segnato da incapacità genitorali e credenze popolari, come quella del padre di Davide (un ottimo Vincenzo Amato) che pensa di curarne la "malattia" con rimedi farmateutici e medicinali. Ambientato in una Catania rimodellata sulle coordinate di uno sguardo (del regista) febbrile e insieme fantasmatico, perfettamente in sintonia con l'immaginario appassionato dell'efebico protagonista (Davide Capone), "Più buio di mezzanotte" assume la connotazione di un romanzo di formazione che pesca in un immaginario estetico e cinematografico eterogeno. Da quello iconografico, intessuto di echi almodovariani (il tormentone musicale "Amore Stella" di Donatella Rettore, con quello che ne consegue in termini di rappresentazione scenica) e del Fassbinder di "Querelle de Brest", ripreso nel commento emotivo della vicenda, reso attraverso cromatismi dominanti e fortemente contrastati che riversano sullo schermo l'eros e thanatos prodotto dalla stato d'animo e dalle pulsioni dei paesaggio umano. A quello narrativo, poetico e insieme favolistico, ben riassunto dal piano sequenza, girato nei vicoli della suburra, che sembra rubato a un film della Marvel, con gli amici del protagonista al centro della strada che avanzano con le movenze e la disinvoltura un gruppo di super eroi; oppure al dettaglio del vestito di lino bianco, che rende eguali il padre di Davide e l'ambiguo protettore, interpretato da Pippo del Bono, lupi cattivi di una favola nera. Sebastiano Riso non fa sconti a nessuno, e seppur in presenza di qualche ingenuità - il canto collettivo all'interno della macchina è troppo scontanto per non stridere con l'originalità del comparto visivo- costruisce un'opera rarefatta e insieme potente, in cui anche l'omosessualità, una volta tanto, viene restituita alla dignità che le spetta. Appena uscito nella sale italiane, "Più buio di mezzanotte" è un film da vedere.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Sebastiano Riso
con Davide Capone, Micaela Ramazzotti
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 98'
La storia, ispirata da persone realmente esistite, racconta i "400 colpi" di Davide, adolescente omosessuale in fuga da un'esistenza infelice e da un padre aguzzino, che un giorno si unisce ad un gruppo di ragazzi di strada con i quali intraprende un esistenza raminga alla scoperta di un mondo vagheggiato e sconosciuto.
Se, istintivamente, si sarebbe portati a pensare che l'essenza del film si concentri sulla particolarità della materia narrativa - intessuta di evidenze che il film tratta con pudore ma senza falsità- "Più buio di mezzanotte" va oltre la tematica dell'identità sessuale. La sequenza iniziale è infatti esplicativa di un travaglio interiore che è già diventato consapevolezza, con Davide ripreso in primo piano, e subito dopo immerso in uno spazio arredato a immagine e somiglianza di una personalità esplosa nell'abbigliamento eccentrico, e sui poster che tappezzano le pareti del suo rifugio. Quel che viene dopo invece, è l'affermazione di una diversità pronta a uscire allo scoperto attraverso un apprendistato, drammatico e insieme meravigliato, in cui sofferenza e distacco diventano il prezzo da pagare ad una coerenza vissuta fino in fondo. Vanno in questa direzione sia il filone principale della storia, quello dedicato all'amicizia di Davide con Rettore e la sua compagnia, sia quello secondario, conseguenza di un passato famigliare segnato da incapacità genitorali e credenze popolari, come quella del padre di Davide (un ottimo Vincenzo Amato) che pensa di curarne la "malattia" con rimedi farmateutici e medicinali. Ambientato in una Catania rimodellata sulle coordinate di uno sguardo (del regista) febbrile e insieme fantasmatico, perfettamente in sintonia con l'immaginario appassionato dell'efebico protagonista (Davide Capone), "Più buio di mezzanotte" assume la connotazione di un romanzo di formazione che pesca in un immaginario estetico e cinematografico eterogeno. Da quello iconografico, intessuto di echi almodovariani (il tormentone musicale "Amore Stella" di Donatella Rettore, con quello che ne consegue in termini di rappresentazione scenica) e del Fassbinder di "Querelle de Brest", ripreso nel commento emotivo della vicenda, reso attraverso cromatismi dominanti e fortemente contrastati che riversano sullo schermo l'eros e thanatos prodotto dalla stato d'animo e dalle pulsioni dei paesaggio umano. A quello narrativo, poetico e insieme favolistico, ben riassunto dal piano sequenza, girato nei vicoli della suburra, che sembra rubato a un film della Marvel, con gli amici del protagonista al centro della strada che avanzano con le movenze e la disinvoltura un gruppo di super eroi; oppure al dettaglio del vestito di lino bianco, che rende eguali il padre di Davide e l'ambiguo protettore, interpretato da Pippo del Bono, lupi cattivi di una favola nera. Sebastiano Riso non fa sconti a nessuno, e seppur in presenza di qualche ingenuità - il canto collettivo all'interno della macchina è troppo scontanto per non stridere con l'originalità del comparto visivo- costruisce un'opera rarefatta e insieme potente, in cui anche l'omosessualità, una volta tanto, viene restituita alla dignità che le spetta. Appena uscito nella sale italiane, "Più buio di mezzanotte" è un film da vedere.
(pubblicata su ondacinema.it)
giovedì, maggio 15, 2014
GRACE DI MONACO
Grace di Monaco
di Oliver Dahan
con Nicole Kidman, Tim Roth
Usa, Belgio, Italia, Francia
genere, biografico, drammatico
durata,103'
Come film di apertura per il festival di Cannes, Grace di Monaco, viste le polemiche (scatenate dalla famiglia reale) che ne antecedono la visione, risulta perfetto. Oliver Dahan (regista de “La vie en rose”) narra un lasso di tempo molto breve (sei mesi dell’anno 1962) incentrato sulla figura di Grace Kelly, star di Hollywood che, avendo sposato il principe Ranieri III, diventa principessa di Monaco.
Se il tentativo di sfuggire al classico biopic è mirabile, ed in parte riuscito, tutto il resto viene meno (eccezion fatta che per l’interpretazione magnifica di Nicole Kidman); a partire dalla fotografia edulcorata e mielosa, passando per una regia che non sembra avere una destinazione precisa (primissimi piani e dettagli insistiti sul volto della Kidman ottengono il risultato opposto a quello sperato), e infine una sceneggiatura alle quali si possono addossare tutte le colpe precedentemente scritte.
Assordante la retorica con cui avviene l’evoluzione del personaggio, rimarcata dai dialoghi e/o monologhi, per non parlare del tentativo di quasi plagio storico, per cui la principessa si troverà non solo a piegare al suo disvelarsi regale la volontà dei maggiori esponenti politici europei, ma anche ad insinuare i danni provocati al mondo dalla mentalità europea (le grandi dittature), che sarebbero venute a mancare invece con una limpida mentalità americana (e qui, è evidente, allo sceneggiatore passano di mente alcuni piccoli fatti storici sui quali, ne siamo sicuri, non c’è alcun bisogno di soffermarsi). Altra scelta incomprensibile risulta il tentativo thriller, nel quale la sorella di Ranieri tenta di sovvertire il trono intavolando delle trattative con Charles De Gaulle, che invece si troverà ad applaudire il discorso, assurdamente tirato troppo per le lunghe, di una Grace salvatrice d’Europa, che nel matrimonio regale sposa il suo più grande ruolo cinematografico.
Alla fin dei conti, come
dicevamo in apertura, si ha di fronte un film che si presta benissimo
alla “croisette” francese per le polemiche che ha destato e il
chiacchiericcio che ha scatenato ma, in realtà, non fa altro che far
schiantare le aspettative che, bisogna dirlo, già volavano rasoterra.
Antonio Romagnoli
(pubblicato su dreamingcinema.it)
di Oliver Dahan
con Nicole Kidman, Tim Roth
Usa, Belgio, Italia, Francia
genere, biografico, drammatico
durata,103'
Come film di apertura per il festival di Cannes, Grace di Monaco, viste le polemiche (scatenate dalla famiglia reale) che ne antecedono la visione, risulta perfetto. Oliver Dahan (regista de “La vie en rose”) narra un lasso di tempo molto breve (sei mesi dell’anno 1962) incentrato sulla figura di Grace Kelly, star di Hollywood che, avendo sposato il principe Ranieri III, diventa principessa di Monaco.
Se il tentativo di sfuggire al classico biopic è mirabile, ed in parte riuscito, tutto il resto viene meno (eccezion fatta che per l’interpretazione magnifica di Nicole Kidman); a partire dalla fotografia edulcorata e mielosa, passando per una regia che non sembra avere una destinazione precisa (primissimi piani e dettagli insistiti sul volto della Kidman ottengono il risultato opposto a quello sperato), e infine una sceneggiatura alle quali si possono addossare tutte le colpe precedentemente scritte.
Assordante la retorica con cui avviene l’evoluzione del personaggio, rimarcata dai dialoghi e/o monologhi, per non parlare del tentativo di quasi plagio storico, per cui la principessa si troverà non solo a piegare al suo disvelarsi regale la volontà dei maggiori esponenti politici europei, ma anche ad insinuare i danni provocati al mondo dalla mentalità europea (le grandi dittature), che sarebbero venute a mancare invece con una limpida mentalità americana (e qui, è evidente, allo sceneggiatore passano di mente alcuni piccoli fatti storici sui quali, ne siamo sicuri, non c’è alcun bisogno di soffermarsi). Altra scelta incomprensibile risulta il tentativo thriller, nel quale la sorella di Ranieri tenta di sovvertire il trono intavolando delle trattative con Charles De Gaulle, che invece si troverà ad applaudire il discorso, assurdamente tirato troppo per le lunghe, di una Grace salvatrice d’Europa, che nel matrimonio regale sposa il suo più grande ruolo cinematografico.
Antonio Romagnoli
(pubblicato su dreamingcinema.it)
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venerdì, maggio 09, 2014
PARKER
Parker
di Taylor Hackford
con Jason Statham, Jennifer Lopez, Nick Nolte, Michael Chicklis
Usa, 2013
durata, 118'
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di Taylor Hackford
con Jason Statham, Jennifer Lopez, Nick Nolte, Michael Chicklis
Usa, 2013
durata, 118'
Da che mondo e' mondo la cosa più difficile nell'effettuare una rapina non è tanto l'esecuzione dell'azione criminosa, ma piuttosto la spartizione del bottino. Lo sanno bene non solo maestri del cinema come Stanley Kubrick e Quentin Tarantino, confrontatisi con l'Heist Movie, nei modi che abbiamo imparato a conoscere, ma pure un regista classico e mainstream come Taylor Hackford, frequentatore abituale di melodrammi virati al nero, ed esordiente nel genere in questione con il suo "Parker", storia di un colpo finito male, e della vendetta messa a punto dal malcapitato protagonista, estromesso con violenza dalla spartizione del bottino, e per questo intenzionato a farla pagare al resto della banda.
Una pura formalità, verrebbe subito da dire, con rese dei conti a non finire, e situazioni che costituiscono l'humus indispensabile per qualsiasi milieu criminale, ovvero il rispetto dei codici e delle leggi che regolano l'universo malavitoso eternamente improntato al motto "homo homini lupus".
A corto di soldi e di autostima (il suo ultimo film e' stato distribuito solo homevideo) Hackford bada al sodo, costruendo un meccanismo narrativo scarnificato, e per nulla preoccupato di mostrarsi funzionale al ritmo della trama, incentrata quasi esclusivamente sull'immaginario dei due protagonisti, ognuno dei quali si impegna a portare nel film un pezzo della propria carriera: non solo quella muscolare e action del ruvido e malinconico Jason Statham, capace di tenere insieme gusti ed età diversificate, ma anche quella patinata e glamour di Jennifer Lopez, finalmente libera dalle esigenze del divismo, e perfetta nell'ingabbiare il suo status estetico dentro un corpo da casalinga disperata. Hackford li mette davanti alla telecamera senza alcuna concessione, immaginando per loro un'esistenza che non concede pause, ne amore. Un film di puro mestiere dunque, con lampi di un cinema ormai tramontato, ma non per questo meno accattivante.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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PRINCIPESSA MONONOKE
Principessa Mononoke
di Hayao Miyazaki
Giappone 1997
genere, animazione
durata, 133'
“Il destino non si può cambiare. Si può scegliere pero’ se aspettare che esso si compia o andargli incontro a viso aperto”. L’eco di parole come queste – evocative quanto solenni – risuona chiaro, nonostante siano trascorsi oltre tre lustri dalla sua prima vibrazione, all’interno della vicenda che intreccia le esistenze di Ashitaka – giovane di nobile stirpe, infettato da un demone-cinghiale – e San – “principessa degli spettri” (Mononoke, più o meno), cresciuta dai lupi delle montagne, ardimentosa e selvatica – sullo sfondo dell’eterno contrasto fra Natura e Cultura impersonato qui da un’antica foresta sede di dei e di spiriti e dalla “Città del Ferro” che, per prosperare, della foresta non fa che nutrirsi, nel lungometraggio “Principessa Mononoke” di Miyazaki Hayao, riproposto adesso in una nuova edizione maggiormente fedele all’originale (curata da Giorgio Nardoni e Gualtiero Cannarsi), verso la quale, nello sforzo di progressiva approssimazione al mondo poetico del regista giapponese, e’ logico mostrare giusta indulgenza per un fraseggio qua e la’ innaturalmente elaborato o, per contro, stringatamente capzioso (dettaglio che, alla lunga, potrebbe disorientare gli spettatori piccoli e piccolissimi già impegnati dagli sviluppi di un racconto piuttosto articolato).
Ritroviamo comunque, con “Principessa Mononoke”, innanzitutto e come sovente in Miyazaki, la “pedagogia del viaggio”, strumento polivalente in grado di lavorare su più livelli: come cesura delle abitudini e abbandono dei luoghi conosciuti; apertura al mondo e banco di prova del carattere. E come diario intimo, costruito per sovrapposizione di pensiero e azione sul percorso imprevedibile della crescita interiore. Quindi, momenti di un passato lontano, quelli del Giappone del periodo Muromachi – a cavallo dei secoli XIV e XV – durante il quale il lento ma progressivo affievolirsi dell’autorità shogunale consente persino la possibilità di “esperimenti sociali” sorprendenti se contestualizzati al periodo e alla mentalità dominante, ad esempio quello che prevede un ruolo tutt’altro che subalterno per la figura femminile. E, a permeare l’intera opera, il lungo e leggero respiro shintoista – espanso dalle partiture ora trascinanti ora malinconiche di Hisaishi – che aleggia attorno ai personaggi, alla loro marzialita’ irrequieta, e agli ambienti, alimentando di continuo la contraddizione tra psicologie umane spesso succubi delle proprie debolezze e l’inestinguibile spinta delle energie ancestrali alla ricomposizione e all’armonia, senza mai ignorare, d’altro canto, le crudezze del presente, l’odore permanente del sangue, e il sentimento pessimista che esso ispira, nonché i mostri o i demoni che esso scatena.
Tutto convogliato in una struttura narrativa complessa, sovente dilatata nei tempi (quindi non esente da qualche lungaggine) – in ogni caso percorsa da un aspro romanticismo, da una sorta di ribelle cupezza quand’anche d’enigmatica imponderabilità (il mutismo allusivo nello sguardo fisso di demoni e dei), che ne insidia anche gl’istanti più lieti e lirici, a ribadire che ogni ordine si
fonda sulla tregua malcerta fra potenziali catastrofi – e restituita per mezzo di immagini che abbinano mirabilmente dedizione artigianale (oltre centoquarantamila sono i disegni a mano, integrati poi alla CG), sensibilità pittorica (non solo giapponese: per dire, l’orditura capricciosa dei viluppi di fiori e cespugli; la trama degli alberi, i rami, le concrezioni dei muschi sui tronchi, mostrano una qual inclinazione impressionista) e tecnica cinematografica (campi lunghi, movimenti laterali, panoramiche, non sono scelte episodiche), per un insieme che ancora, a distanza di anni, riesce a dialogare fitto con taluni pensieri riposti e ambivalenti, oltreché col meraviglioso.
TFK
(pubblicato su dreamingcinema.it)
di Hayao Miyazaki
Giappone 1997
genere, animazione
durata, 133'
“Il destino non si può cambiare. Si può scegliere pero’ se aspettare che esso si compia o andargli incontro a viso aperto”. L’eco di parole come queste – evocative quanto solenni – risuona chiaro, nonostante siano trascorsi oltre tre lustri dalla sua prima vibrazione, all’interno della vicenda che intreccia le esistenze di Ashitaka – giovane di nobile stirpe, infettato da un demone-cinghiale – e San – “principessa degli spettri” (Mononoke, più o meno), cresciuta dai lupi delle montagne, ardimentosa e selvatica – sullo sfondo dell’eterno contrasto fra Natura e Cultura impersonato qui da un’antica foresta sede di dei e di spiriti e dalla “Città del Ferro” che, per prosperare, della foresta non fa che nutrirsi, nel lungometraggio “Principessa Mononoke” di Miyazaki Hayao, riproposto adesso in una nuova edizione maggiormente fedele all’originale (curata da Giorgio Nardoni e Gualtiero Cannarsi), verso la quale, nello sforzo di progressiva approssimazione al mondo poetico del regista giapponese, e’ logico mostrare giusta indulgenza per un fraseggio qua e la’ innaturalmente elaborato o, per contro, stringatamente capzioso (dettaglio che, alla lunga, potrebbe disorientare gli spettatori piccoli e piccolissimi già impegnati dagli sviluppi di un racconto piuttosto articolato).
Ritroviamo comunque, con “Principessa Mononoke”, innanzitutto e come sovente in Miyazaki, la “pedagogia del viaggio”, strumento polivalente in grado di lavorare su più livelli: come cesura delle abitudini e abbandono dei luoghi conosciuti; apertura al mondo e banco di prova del carattere. E come diario intimo, costruito per sovrapposizione di pensiero e azione sul percorso imprevedibile della crescita interiore. Quindi, momenti di un passato lontano, quelli del Giappone del periodo Muromachi – a cavallo dei secoli XIV e XV – durante il quale il lento ma progressivo affievolirsi dell’autorità shogunale consente persino la possibilità di “esperimenti sociali” sorprendenti se contestualizzati al periodo e alla mentalità dominante, ad esempio quello che prevede un ruolo tutt’altro che subalterno per la figura femminile. E, a permeare l’intera opera, il lungo e leggero respiro shintoista – espanso dalle partiture ora trascinanti ora malinconiche di Hisaishi – che aleggia attorno ai personaggi, alla loro marzialita’ irrequieta, e agli ambienti, alimentando di continuo la contraddizione tra psicologie umane spesso succubi delle proprie debolezze e l’inestinguibile spinta delle energie ancestrali alla ricomposizione e all’armonia, senza mai ignorare, d’altro canto, le crudezze del presente, l’odore permanente del sangue, e il sentimento pessimista che esso ispira, nonché i mostri o i demoni che esso scatena.
Tutto convogliato in una struttura narrativa complessa, sovente dilatata nei tempi (quindi non esente da qualche lungaggine) – in ogni caso percorsa da un aspro romanticismo, da una sorta di ribelle cupezza quand’anche d’enigmatica imponderabilità (il mutismo allusivo nello sguardo fisso di demoni e dei), che ne insidia anche gl’istanti più lieti e lirici, a ribadire che ogni ordine si
fonda sulla tregua malcerta fra potenziali catastrofi – e restituita per mezzo di immagini che abbinano mirabilmente dedizione artigianale (oltre centoquarantamila sono i disegni a mano, integrati poi alla CG), sensibilità pittorica (non solo giapponese: per dire, l’orditura capricciosa dei viluppi di fiori e cespugli; la trama degli alberi, i rami, le concrezioni dei muschi sui tronchi, mostrano una qual inclinazione impressionista) e tecnica cinematografica (campi lunghi, movimenti laterali, panoramiche, non sono scelte episodiche), per un insieme che ancora, a distanza di anni, riesce a dialogare fitto con taluni pensieri riposti e ambivalenti, oltreché col meraviglioso.
TFK
(pubblicato su dreamingcinema.it)
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anteprime. recensioni
LOVELACE
Lovelace
di Robert Epstein, Jeffery Friedman
con Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard, Sharon Stone
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 93'
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di Robert Epstein, Jeffery Friedman
con Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard, Sharon Stone
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 93'
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Se il cinema è l'atto del guardare ed il voyeurismo una sua
connotazione, va da se che la settima arte non possa fare a meno di sbirciare
all'interno di quel santuario di massime pruderie che costituisce l'universo
pornografico, ed in particolare nel cosiddetto "altro cinema" che
proprio sul principio degli anni 70 cercò di farsi accettare promuovendosi nel
circuito ufficiale con un film come "Gola profonda"
"interpretato" da quella che sarebbe diventata il simbolo stesso del
nascente movimento: Linda Lovelace. Un passaggio, che il biopic di Robert Epstein e Jeffrey Friedman coglie nella
scarnificazione del dato anagrafico presente nel titolo, che semplifica alla
perfezione il passaggio dal personaggio in carne ossa rappresentato dalla
ragazzina sprovveduta ed ingenua, all'astrazione di un nome -Lovelace-
destinato a diventare il marchio del business legato ai porno movie.
A finire sullo schermo infatti è il pubblico ed il privato
di una donna bambina vittima di opposti nuclei famigliari: quello biologico
rappresentato da una madre anaffettiva e da un padre troppo debole, e quello
putativo, formato da un marito cinico e violento, e dalla crew di produttori, registi ed attori, in un modo o
nell’altro interessati a sfruttarne la popolarità tentando di convincerla a
girare nuovi film. Se la fine è nota, con Linda che riesce a sfuggire ai propri
carnefici ed a rifarsi una vita normale, con marito e figlio a carico, quello
che interessa ai registi è approfittare della reale esistenza del personaggio
per enfatizzare un percorso esistenziale paradigmatico e salvifico, in cui
adeguandosi alla morale puritana, il sesso figura come ago della bilancia per
distinguere tra il bene e il male. Sulla scia di film come “Boggie Night” e
“Wonderland” che, nelle rispettive
diversità esploravano uno scenario analogo, “Lovelace” è tradizionale nel mettere in scena la
biografia del suo personaggio, con una forma – tipicamente classica- che
preferisce rappresentare i fatti piuttosto che interpretarli in una dimensione
psicologica, o secondo un punto di vista inedito e personale. A riprova d ciò
basterebbe la scelta di abbracciare un arco narrativo cronologicamente esteso,
che invece di risalire al tutto isolando uno specifico episodio (come fece il film
di James Cox rispetto alla vita di John Holmes) preferisce snocciolarlo con una
serie di sequenze oggettive (piani americani ed assenza di riprese anomale) che
passando in rassegna i momenti salienti di una giovinezza rubata, ricostruisce
i fatti in maniera ordinata e pragmatica. Saturando lo spettatore con emozioni
preparate a dovere dall’immancabile spiegazione, ed evitando il beneficio del
dubbio attraverso un positivismo edulcorato e rassicurante, “Lovelace” non è
l’indagine su una cittadina al di sopra di ogni sospetto, bensì la cartolina di
un’epoca, in cui Linda ed suoi amici più che esseri umani vi risultano come un
fenomeno di costume. Interpretato a dovere da un cast ineccepibile -ottima la prova di Amanda Seyfried nella parte della
protagonista- il film suscita una curiosità non sempre ripagata.
RITUAL
Ritual
di Giulia Brazzale, Luca Immesi
con Desirèe Giorgetti, Ivan Franek, Anna Bonasso, Alejandro Jodorowsky
Italia, 2014
durata,95'
Omaggio spassionato a Jarodowski, il film narra di Lia, donna fragile stretta nella morsa di una relazione oltre il morboso che ha con Viktor, uomo possessivo fino all’estremo. La donna crollerà definitivamente dopo essere stata costretta all’aborto. Argomento, quello delle relazione estreme, già grandiosamente trattato nel cinema italiano in “Primo amore” di Matteo Garrone, che si fa a fondere con quello della psico-magia (ed è qui che entra in capo il sopra citato Jarodowski).
E’ possibile dividere il film in due sezioni separate. La prima metà si svolge infatti nell’ambiente domestico, dove la tirannia relazionale di Viktor esce fuori in tutta la sua potenza distruttiva, e dove la telecamera è tormentata come la psiche della protagonista. La costruzione visiva scandaglia tutti gli anfratti complessi di una follia che va sempre più degenerando. E se fino a questo punto la poca accuratezza nella scrittura era parzialmente giustificata dalla decostruzione a tratti Lynchiana, quando Lia si trasferisce dalla zia dopo l’aborto, sembra di vedere un altro film. Se prima le deformazioni visive sembravano avere una direzione ben precisa, qui iniziano a diventare sempre più confuse, al pari di una sceneggiatura che si va degradando (complice l’assurda scelta di girare in red epic 5k, la stessa tecnologia de “Lo hobbit” per intenderci) fino ad arrivare ad un finale che non sa dove andare a parare.
La complessità degli elementi messi in gioco da un tale argomento giustifica solo in parte il cambio di direzione improvviso che prende la pellicola (pellicola è un eufemismo, visto che è girato con le più sofisticate tecnologie digitali), scelta che si contraddice tra un inizio tra i più belli del recente cinema italiano ed uno svolgimento che disintegra tutte le premesse, abbandonandosi ad un tessuto cinematografico sfilacciato ed incerto, e ad una presentazione visiva che quasi porge l’altra guancia alla peggiore moda del mondo audio-visivo italiano: la fiction televisiva.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
Antonio Romagnoli
di Giulia Brazzale, Luca Immesi
con Desirèe Giorgetti, Ivan Franek, Anna Bonasso, Alejandro Jodorowsky
Italia, 2014
durata,95'
Omaggio spassionato a Jarodowski, il film narra di Lia, donna fragile stretta nella morsa di una relazione oltre il morboso che ha con Viktor, uomo possessivo fino all’estremo. La donna crollerà definitivamente dopo essere stata costretta all’aborto. Argomento, quello delle relazione estreme, già grandiosamente trattato nel cinema italiano in “Primo amore” di Matteo Garrone, che si fa a fondere con quello della psico-magia (ed è qui che entra in capo il sopra citato Jarodowski).
E’ possibile dividere il film in due sezioni separate. La prima metà si svolge infatti nell’ambiente domestico, dove la tirannia relazionale di Viktor esce fuori in tutta la sua potenza distruttiva, e dove la telecamera è tormentata come la psiche della protagonista. La costruzione visiva scandaglia tutti gli anfratti complessi di una follia che va sempre più degenerando. E se fino a questo punto la poca accuratezza nella scrittura era parzialmente giustificata dalla decostruzione a tratti Lynchiana, quando Lia si trasferisce dalla zia dopo l’aborto, sembra di vedere un altro film. Se prima le deformazioni visive sembravano avere una direzione ben precisa, qui iniziano a diventare sempre più confuse, al pari di una sceneggiatura che si va degradando (complice l’assurda scelta di girare in red epic 5k, la stessa tecnologia de “Lo hobbit” per intenderci) fino ad arrivare ad un finale che non sa dove andare a parare.
La complessità degli elementi messi in gioco da un tale argomento giustifica solo in parte il cambio di direzione improvviso che prende la pellicola (pellicola è un eufemismo, visto che è girato con le più sofisticate tecnologie digitali), scelta che si contraddice tra un inizio tra i più belli del recente cinema italiano ed uno svolgimento che disintegra tutte le premesse, abbandonandosi ad un tessuto cinematografico sfilacciato ed incerto, e ad una presentazione visiva che quasi porge l’altra guancia alla peggiore moda del mondo audio-visivo italiano: la fiction televisiva.
(pubblicata su dreamingcinema.it)
Antonio Romagnoli
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martedì, maggio 06, 2014
SOLO GLI AMANTI SOPRAVVIVONO
Solo gli amanti sopravvivono
di Jim Jarmush
con Tilda Swinton, Tom Hiddleston
Gran Bretagna, Germania, Francia, Cipro, 2013
genere, drammatico
durata, 123'
Jim Jarmush, autore mai contraddittorio, si riafferma come esteta sopraffino e si riconferma come principe del cinema indipendente americano (anche se c’è chi al suo posto metterebbe volentieri Wes Anderson). Adam è un musicista intimo e geniale, e coltiva la sua passione collezionando vecchie chitarre a Detroit; Eve, la moglie, vive a Tangeri, tra passeggiate notturne e la compagnia del vecchio amico Marlowe. I due amanti, insieme a Marlowe, sono vampiri.
Il film si apre con la telecamera dall’alto che inquadra i due protagonisti, voltandosi delicatamente come il vinile sul giradischi, che fa partire le note dell’ipnotica Tunell of love. I tratti stilistici, visivamente parlando, si elaborano con l’avanzare del film, dando quindi una prima impressione di una decodifica poco chiara. Le fasi della scrittura definiscono dei momenti grandiosi (basti pensare che Marlowe altri non è che William Shakespeare, risolvendo, nella finzione, le problematiche che appartengono anche alla questione omerica); altre fasi di passaggio sono invece vulnerabili, come l’avvento della sorella di Eve. Il richiamo biblico nei nomi dei protagonisti va a sottolineare la ricerca del puro (che il regista stesso compie), come il sangue di laboratorio che Adam ed Eve si procurano per non contaminarsi con quello degli zombie (ovvero gli umani, rappresentati come decadenza eccellente).
Jarmush sfrutta e riprende il genere vampiresco (genere stuprato dal recente Twilight) per comporre una pellicola colta ed aggraziata, dove i protagonisti diventano personaggi di un’opera neo-romantica che, nell’imperfezione della sceneggiatura, trova il fascino puro di un amore, letteralmente e letterariamente, secolare.
Antonio Romagnoli
(pubblicata su Il varco.net)
di Jim Jarmush
con Tilda Swinton, Tom Hiddleston
Gran Bretagna, Germania, Francia, Cipro, 2013
genere, drammatico
durata, 123'
Jim Jarmush, autore mai contraddittorio, si riafferma come esteta sopraffino e si riconferma come principe del cinema indipendente americano (anche se c’è chi al suo posto metterebbe volentieri Wes Anderson). Adam è un musicista intimo e geniale, e coltiva la sua passione collezionando vecchie chitarre a Detroit; Eve, la moglie, vive a Tangeri, tra passeggiate notturne e la compagnia del vecchio amico Marlowe. I due amanti, insieme a Marlowe, sono vampiri.
Il film si apre con la telecamera dall’alto che inquadra i due protagonisti, voltandosi delicatamente come il vinile sul giradischi, che fa partire le note dell’ipnotica Tunell of love. I tratti stilistici, visivamente parlando, si elaborano con l’avanzare del film, dando quindi una prima impressione di una decodifica poco chiara. Le fasi della scrittura definiscono dei momenti grandiosi (basti pensare che Marlowe altri non è che William Shakespeare, risolvendo, nella finzione, le problematiche che appartengono anche alla questione omerica); altre fasi di passaggio sono invece vulnerabili, come l’avvento della sorella di Eve. Il richiamo biblico nei nomi dei protagonisti va a sottolineare la ricerca del puro (che il regista stesso compie), come il sangue di laboratorio che Adam ed Eve si procurano per non contaminarsi con quello degli zombie (ovvero gli umani, rappresentati come decadenza eccellente).
Jarmush sfrutta e riprende il genere vampiresco (genere stuprato dal recente Twilight) per comporre una pellicola colta ed aggraziata, dove i protagonisti diventano personaggi di un’opera neo-romantica che, nell’imperfezione della sceneggiatura, trova il fascino puro di un amore, letteralmente e letterariamente, secolare.
Antonio Romagnoli
(pubblicata su Il varco.net)
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sabato, maggio 03, 2014
LOCKE
Locke
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.
La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Steven Knight
con Tom Hardy
Usa, Regno Unito 2013
genere, drammatico
durata, 85'
Davvero interessante e per certi versi sorprendente la carriera cinematografica di Steven Knight, dapprima al servizio di storie criminali prestate al regista di turno (Stephen Frears ma, soprattutto David Cronenberg) e poi, con presa di coscienza rivoluzionaria per tempistica e coraggio (due film in un anno, ed esordio con un attore voluminoso e ingombrante come Jason Statham), capace di segnalarsi all'attenzione di pubblico e critica per il suo talento di filmmaker.
La prima considerazione che viene in mente dopo avere visto "Locke", il suo ultimo film, è la capacità del regista di fissare in una così breve filmografia gli assi portanti del suo cinema e, quindi, di far emergere in maniera netta i segni della propria autorialità. Tendenze eterogenee tenute insieme dalla solidità della scrittura, che nel caso in questione si avventurava in un'impresa non da poco, prevedendo per tutto il film un'unica location, ovvero l'interno dell'automobile in cui sta viaggiando Ivan Locke, capo cantiere, impegnato a saldare un debito con la propria coscienza, rivelando alla moglie il tradimento di una notte, e annunciando la volontà di assistere alla nascita del bambino, frutto di quella trasgressione.
Con un intreccio praticamente inesistente, e con l'unica incognita di una qualche sorpresa derivante dallo stato emotivo del protagonista, bloccato all'interno dell'auto e costretto a tenere a freno le reazioni per l'impossibilità di agire al di fuori dell'orizzonte prestabilito (l'ospedale in cui la donna sta partorendo), "Locke" ha tutte le caratteristiche per scoraggiare lo spettatore abituato a fidarsi solo di ciò che vede. Ed è proprio eliminando il confine che divide il visibile da ciò che non lo è, il parlato dal non detto, che Steve Knight compie il suo capolavoro, trasformando la trappola claustrofobica dell'assunto in una confessione che apre le porte a una rinascita esistenziale, in cui la routine quotidiana (la cronaca della partita di calcio che il figlio commenta al padre durante le conversazioni telefoniche) e i dettagli più anodini (i calcoli e le procedure per la colata di cemento che servirà alle fondamento di un gigantesco palazzo) si intersecano con un sostrato filosofico universale e condivisibile. Quest'ultimo, apprezzabile non solo nei temi della responsabilità e nella redenzione che, alla pari dei film precedenti, sono il caposaldo della poetica del regista (i protagonisti de "La promessa dell'assassino" e, ancor più, di "Redemption", erano mossi da un'assunzione di colpa e da un'innocente da proteggere) ma anche nell'utopia - sconfessata - di ridurre la realtà a una razionalità che le appartiene solo in parte e che la narrazione fa saltare, quando Locke, uomo metodico e pragmatico, sarà costretto ad affidare le sorti del suo lavoro all'improvvisazione e al caos da cui sempre ha cercato di sottrarsi.
Evitando di addentrarsi nei riferimenti al pensiero dell'omonimo filosofo inglese, a cui la personalità del protagonista per certi versi può essere accostata, preferiamo soffermarci sulla qualità delle immagini, in "Locke" decisive per conferire alla storia i suoi significati. Cominciando dalla sequenza inizlale, l'unica che si svolge in ambiente esterno, con la voragine del cantiere simile a Ground Zero a preannunciare il disastro che si è già compiuto (la notte d'amore con una sconosciuta) e la svestizione dell'uniforme di lavoro a introdurre il disvelamento, psicologico e materiale, del personaggio, e poi continuando con l'impressionismo della fotografia che, attraverso i vetri della macchina, proietta il mondo esterno sul volto del protagonista, mantenendolo attaccato alla realtà (l'astrazione era uno dei rischi possibile) e, al contempo, disegnando sullo schermo un magma di luci e di colori che diventano l'anima e il cuore del film e del suo protagonista. In un modo non lontano dall'Alfonso Cuaron di "Gravity" (e, nel suo piccolo, si può citare anche l'Alberto Fasulo di "Tir"), Knight riesce a farci perdere le coordinate del nostro presente per trasportarci all'interno del tempo psicologico dell'opera, che in tal modo ci coinvolge in prima persona senza farci sentire il peso della sua visione. Abituato a cambiar pelle, Tom Hardy nella parte di Ivan Locke è perfetto nel confondere un immaginario d'attore continuamente reinventato e, in questo caso, messo a disposizione di un'interpretazione in cui la fisicità viene imprigionata dall'hip hop mentale a cui lo costringe una sceneggiatura ad orologeria. Non abbiate paura, correte al cinema e non ve ne pentirete.
(pubblicata su ondacinema.it)
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recensione
venerdì, maggio 02, 2014
PETER GABRIEL / BACK TO FRONT
di: H.Hamilton
con: P.Gabriel and his band
- GB 2014 -
Doc Musicale - 95 min
La carriera solista di un personaggio eclettico come Peter Gabriel, scaturita al termine della controversa esperienza musicale ideata/condivisa con il resto della "galassia Genesis" e maturata attraverso un articolato percorso di ricerca, incontra il favore delle grandi folle con la pubblicazione del quinto album, "So", nel 1986. Proprio a buona parte del materiale in esso contenuto si ispira "Back to front" di Hamish Hamilton, film-concerto girato durante lo spettacolo tenutosi nell'ottobre del 2013 allo "02" di Londra.
Sul palco, ingombro di strumenti musicali e apparecchiature computerizzate, attorno alle postazioni degli esecutori - la band "storica" che partecipo' alle registrazioni di "So", Tony Levin (basso), Manu Katche' (percussioni), David Rhodes (chitarra), a cui si aggiungono David Sancious (tastiere), le coriste e polistrumentiste Jennie Abrahamson e Linnea Olsson, oltre, ovviamente, a Gabriel (piano, tastiere, voce) - s'insinua a semicerchio una rotaia su cui diverse telecamere immortalano particolari curiosi, isolano i singoli artisti catturandone i cenni d'intesa, i passi di danza, gl'istanti di concentrazione e quelli più divertiti. Ad interagire - assieme al caleidoscopio di luci che inseguono o anticipano le alterne atmosfere dei brani - numerosi altri punti di vista spiano l'arena teatrale dall'alto, spaziando dal centro vivo da cui s'irradia il suono alla platea, su fino agli spalti, questa e quelli stipati di persone che ballano o si muovono trasportati dalla ripetizione all'unisono delle liriche più conosciute... Il tempo pero', come si dice, e' passato. E non tanto sugli estremi anagrafici d'interpreti e pubblico (sparuti in sala i drappelli sotto i trenta; quasi introvabili gli adolescenti: qua e la' qualche ragazzino a completare una serata "formato famiglia". Lo stesso Gabriel, sulla scena - ma il paragone calza, fatte salve le dovute sfumature, anche agli altri componenti della 'line-up' originaria - oramai più nei panni e dai lineamenti del tranquillo professionista di mezz'età che in quelli del "guastatore" rock [con puntualità e un certo involontario (?) intento prospettico, rievocato da inserti relativi a tour passati che a volte s'inframmezzano alle sequenze dell'esibizione]): quanto sui supposti intenti e sull'urgenza di temi e contenuti che alla prova di oltre un quarto di secolo risultano - fatalmente, si potrebbe dire - del tutto inseriti in un contesto, quello post-ideologico contemporaneo, di generico consenso di massa - seraficamente inneggiante, cioè, programmaticamente blando idealista, politicamente corretto nell'individuazione di idiosincrasie e predilezioni - comunque disposto ad aderire a quella che sembra essere l'unica vera religione superstite ad oggi, a dire quella dello spettacolo. E' chiaro, allora, che lo scarto prodotto a tratti dalle immagini nella forma di un contagioso coinvolgimento risiede altrove, in particolare in quella mistura di schemi percussivi, spesso di ascendenza tribale e improvvise aperture melodiche (a suo tempo ricondotta al termine "world music"), a cavallo tra sonorità primitive, reminiscenze folk e l'energia nuda del rock. In altre parole, in una di quelle formule capaci di diffondersi su scala planetaria in virtù di un felice nesso instaurato fra contaminazione, intrattenimento ed istanze commerciali. Fondamentale importanza nella materializzazione di una tale idea musicale assume, quindi, il ruolo della sezione ritmica che - non a caso o non solo per ragioni legate al particolare "evento" - annovera ancora Levin e Katche', fuoriclasse dei "tempi" e degli "spessori" del suono. La millimetrica rotondità della tessitura del basso del 'crimsoniano' Levin (spesso enfatizzata dall'uso delle "funk fingers", mini protesi costituite da sezioni di bacchette di legno fissate all'indice e al medio della mano opposta alla tastiera), da un lato, e le impercettibili ma continue variazioni nella progressione delle battute di Katche' su tamburi e piatti, dall'altro, costituiscono il cuore pulsante e la spina dorsale del "sound" del gruppo, giungendo a delimitarne con precisione, grazie anche all'apporto del sempre limpido "falsetto nasale' di Gabriel, pienezza e profondità.
Scorrono così - intercalati da siparietti fuori scena, in verità piuttosto anodini quanto prevedibili, in cui ogni musicista preso a parte parla di se', del proprio rapporto con la musica e gli altri membri della formazione: delle sensazioni e degli stati d'animo vissuti sul palco - riproposizioni di brani celebri - "Secret world", "Red rain", "Mercy street" - e celeberrimi - "Shock the monkey", "Digging in the dirt", "Sledgehammer", "Don't give up" (il cui cantato, ai tempi affidato a Kate Bush, viene riproposto dalla Abrahamson), "Biko" - fino all'apoteosi di "In your eyes" summa, forse, di quel sincretismo musicale totale - tra pop sofisticato, slancio utopistico e calibrata comunicativa - vagheggiato e inseguito da sempre dal Gabriel solista.
Operazione celebrativa, dunque, quella di "Back to front" (come del resto apertamente dichiarato), ecumenica ma sostenuta dal piacere più diretto, quello di stare insieme per fare musica e dallo sforzo per farla ancora con una certa classe.
Eccezionalmente nelle nostre sale nelle date del 5, 6 e 7 maggio.
TFK
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