Comprensione e accessibilità. Con
queste parole inizia la nostra conversazione con Sebastiano Riso,
regista di "Più buio di mezzanotte" presentato con successo alla
"Semaine de la Critique". Il regista le pronuncia in maniera gentile ma
determinata, quasi a voler sgomberare il campo dalle accuse di
illeggibilità che accompagnano le opere del nostro cinema d'autore
Credi che sia questa la sfida da vincere per riportare il pubblico a guardare il nostro cinema?Penso
di sì, e comunque è quello che avevo in mente quando ho deciso di fare
il film. L'industria culturale ha contribuito ad assuefare il pubblico a
un certo tipo di prodotto, con il conseguente aumento di divario tra
cinema d'autore e prodotto commerciale. Al contrario volevo che il mio
film fosse politico e insieme avventuroso alla maniera de "La vita di
Adele", che è un film sincero e senza abbellimenti ma allo stesso tempo
coinvolgente e appassionato. Certo gli incassi italiani del film di
Kechiche sembrerebbero andare contro questa teoria, ma penso che anche
qui la causa sia una conseguenza del depauperamento culturale a cui ho
appena accennato.
Entrando nel merito del tuo esordio
registico mi sembra che per formazione culturale e lavorativa tu
rappresenti un eccezione rispetto alla tendenza del nuovo cinema che
nasce e si sviluppa all'interno, di un alveo realista e documentarista.A
dire il vero io non colgo questa differenza. Se guardiamo al passato
troviamo registi come Antonioni, Petri e Rosi che pur partendo da una
base di realismo mantenevano sempre una prospettiva che li distingueva
uno dall'altro e li rendeva riconoscibili allo spettatore. Del mio film
potrei dire lo stesso. Con il direttore della fotografia Piero Basso
abbiamo discusso molto per trovare la cifra giusta. Volevamo creare un
contesto universale, e per questo abbiamo pensato di non dargli una
precisa connotazione ambientale. Molti hanno creduto che il film fosse
collocato negli anni 80 per certi riferimenti musicali e iconografici ma
in una delle prime scene compare un cellulare che smentisce questa
supposizione. Dopodichè quello che mostro, e mi riferisco in particolare
alla povertà degli ambienti più emarginati, si ripropone nel tempo con
variazioni infinitesimali. Il concetto, già noto a Jean Genet e Pier
Paolo Pasolini, investe in pieno le dinamiche che regolano l'esistenza
dei miei personaggi, e giustifica quella mancanza di orizzonti e di
voglia di fare, che qualche giornalista ha imputato a un eccesso di
semplificazione. La verità è che, se l'obiettivo primario è la
sopravvivenza, è naturale e pure realistico mostrarli attraverso gli
espedienti escogitati per raggiungere quello scopo. Davide e Rettore
possono amare un cantante alla follia, sapere a memoria le parole delle
sue canzoni ma non per questo vogliono diventare delle star musicali. In
questo senso il film rispetta la vita, e non aggiunge orpelli.
Prima di continuare volevo chiederti in che modo sei arrivato al cinema, e in particolare alla regia.Per
me il cinema è nato come terapia. Da piccolo era un bambino inquieto
che si faceva continuamente cacciare dal collegio, e che metteva i suoi
genitori in situazioni imbarazzanti. L'unico modo per farmi calmare era
portarmi al cinema. I miei genitori approfittando di quelle pause spesso
si addormentavano, mentre io continuavo a vedere il film anche più
volta. Ad incantarmi era la riproduzione delle immagini, come ebbi modi
di constatare il giorno che mio padre, con una cinepresa dell'epoca,
filmò dal balcone di casa un amico che stava citofonando. Rimasi
affascinato da quella visione meravigliosa, e dall'effetto dello zoom
che rendeva sempre più vicina la faccia di quella persona. Una malia
alimentata anche dalle visioni casalinghe a cui dovevo partecipare. Si
trattava di film poco adatti per un bambino della mia età: mi ricordo di
"Persona" di Ingmar Bergman, e delle discussioni che ne scaturivano.
Pur capendo poco ne venivo coivolto, e a forza di ascoltarle iniziavo a
farmi delle domande, e a ragionare intorno al film, cercando di trovare
una possibile spiegazione. Potrei dire che quelle giornate mi hanno
"infettato", indirizzando le mie energie in direzione del cinema.
Volevo
tornare al tuo lungometraggio per chiederti ancora qualcosa sul
paesaggio, e sul cortocircuito temporale che lo attraversa.La
contemporaneità della storia era fondamentale dal punto di vista
drammaturgico. Senza di quella il comportamento del padre di Davide, e
la sua impreparazione nei confronti della sessualità del figlio sarebbe
stata in qualche modo comprensibile. Così invece le sue azioni sono
ancor più ingiustificabili e colpevoli. Detto questo i riferimenti agli
anni 80 li ho utilizzati con diverse funzioni. Da una parte quel
periodo, con i suoi sogni e speranze rappresenta di fatto l'ultimo
momento felice della storia italiana, e questo mi è servito per rendere
lo stato emotivo in cui si muovono Davide e la sua compagnia. Allo
stesso tempo lo scarto temporale mi consentiva di rimarcare in maniera
visibile la diversità di un consesso che vive in una dimensione di
permanente alterità. Infine bisogna tenere conto che in certe zone della
Sicilia la modernità della comunità europea non è ancora arrivata, per
qui quello che potrebbe sembrare antiquariato è invece pura attualità.
Una
delle carattestiche del tuo film è appunto la possibilità di accedervi
secondo più livelli di lettura. Mi riferisco per esempio ai costumi di
scena, e in particolare al vestito bianco che indossano sia il padre di
Davide che il suo protettore.Sì è vero, ma solo nel senso
di cui ti dicevo a inizio conversazione, perchè volevo che la minore o
maggiore perspicacia dello spettatore non influisse sulla fruibilità del
film. Così il colore bianco è il segno di una comunanza tra i due
personaggi, ma potrebbe essere anche un modo per stabilire un nesso più
profondo, che trasforma il personaggio di Del Bono in una sorta di padre
putativo con cui Davide riesce a stabilire il rapporto che il suo vero
genitore gli aveva sempre negato. Certo, questa è una lettura della
realtà in chiave psicanilitica, influenzata dal fatto che sia io, che
uno degli sceneggiatori aveva un genitore psicologo, ma anche questa
opzione è presente non per sfoggio intellettuale ma come un ulteriore
possibilità di comprensione. E ancora gli anni 80 hanno ispirato la
scelte dei costumi di molti dei protagonisti. In questo caso avevo
bisogno di abiti che esprimessero la personalità dei ragazzi, e mentre
oggi si assiste a una forte omologazione nel modo di vestire, trent'anni
fa succedeva esattamente il contrario; da qui la scelta di privilegiare
un certo tipo di look.
Penso che tu ti riferisca soprattutto a Rettore e alla sua band.Sì,
per me era difficile descrivere il gruppo che si muove attorno a
Davide, senza evidenziare quel modo di essere epici, che appartiene agli
ambienti più poveri ed emarginati. Io non so spiegarmi il perché di
tutto questo ma posso dire di averlo constatato personalmente quando, ai
tempi dell'università, andavo alla stazione termini per incontrare
queste persone. Di loro sono riuscito a cogliere la bellezza delle pose
che assumono di fronte alla vita, trovando conferma del fatto che nel
loro mondo la turpitudine si accompagna alla poesia.
Infatti
come ho scritto nella recensione il piano sequenza che ci presenta i
compagni d'avventura di Davide che camminano uno di fianco all'altro,
assomiglia in qualche modo alla passerella di super eroi filmati alla
maniera di unhero movie.Davide, Rettore e gli altri
compagni di viaggio sono eroi del quotidiano nella maniera in cui lo
erano le persone di cui ti stavo parlando. Se poi consideri che il
percorso umano che racconta il film è una sorta di avventura
esistenziale, che include le contraddizioni tipiche di questo tipo di
esperienza, allora penso che il termine eroico attribuito
all'atteggiamento dei miei protagonisti calzi a pennello.
E'
un altro movimento di macchina a sottolineare uno dei passaggi più
importanti del film,quello in cui Davide cede al ricatto del suo
protettore.Il sesso tra Davide ed il suo protettore è un
abuso a tutti gli effetti, perchè se è vero che lui è consenziente a
quella violenza, è altrettanto evidente che si tratta di una scelta
forzata, frutto della pressione psicologica di un'ambiente che non gli
lascia alternative. E' stata una scena che, alla pari dell'ottanta per
cento di quelle che ho girato è andata subito bene, senza bisogno di
ulteriori repliche. Avevo pochissimo tempo per girare, e pur avendo in
testa il film, sul set mi è capitato spesso di improvvisare con buoni
risultati fin dal primo ciack.
Quel passaggio in particolare era per
me fondamentale, perchè rappresentava una vera e propria iniziazione
alla vita. Da qui la decisione di terminare la sequenza sulla finestra
che collega la stanza al mondo esterno. La finestra è serrata ma lascia
comunque trapelare i rumori che provengono dall'esterno. Mi interessava
evidenziare la coesistenza tra una violenza così terribile e
l'indifferenza del divenire quotidiano. Il giorno in cui ho saputo che
il film avrebbe partecipato alla Semaine è stato uno dei più belli della
mia vita, eppure quando sono tornato in Italia ho scoperto che in quel
medesimo istante un amico stava vivendo momenti terribili. Una
coesistenza di stati d'animo che appartiene alla mia visione della vita,
e che ho voluto testimoniare attraverso quella sequenza.
Nel
tuo cinema la macchina da presa si muove con parsimonia, e solo quando
è necessario. Volevo chiederti appunto di questa necessità.Per
quanto mi riguarda penso che nel girare non si deve eccedere con i
movimenti di macchina. Bisogna saperli dosare, altrimenti l'effetto che
si ottiene da quel movimento perde la sua eccezionalità e, di
conseguenza, la sua efficacia. Certo è d'uopo conoscere la grammatica
del cinema e sapere che effetto avrà sullo spettatore un determinato
tipo di inquadratura, un carrello, una panoramica. Poi come sappiamo
esiste un cinema cosidetto sgrammaticato, e per questo discusso e
contestato, che però è in grado di rivoluzionare la settima arte. Parlo
del cinema asiatico come di quello della novelle vague che ebbero il
coraggio di andare oltre i manuali.
Io non sono un buon stratega nel
senso che, quando arrivo sul set, tendo a dimenticare quanto avevo in
mente. Quello che invece cerco di mantenere saldo è lo stato d'animo che
mi ha portato a girare. Con il direttore della fotografia abbiamo
parlato molto, decidendo cose che successivamente ho modificato seduta
stante. Come quella di acquistare un solo tipo di lenti, una volta
deciso che la distanza e non il primo piano sarebbe diventato il
linguaggio del film. Certo, non è facile , perchè all'inizio tu sei la
matricola e lavorando con gente esperta il rischio è quello di passare
per presuntuoso.
Anche per la musica è capitata un pò la stessa cosa
perchè ad un certo punto ho pensato che la soluzione migliore sarebbe
stata quella di realizzare la colonna sonora solo al termine delle
riprese, in maniera che fosse solo il girato a ispirarla. Una scelta che
ha creato non poche perplessità, soprattutto perchè il tempo a
disposizione era solo di una settimana. A quel punto ho detto a Michele
Braga, il nostro musicista, di non preoccuparsi perchè quello che gli
serviva era già contenuto nelle immagini. Il risultato è stato quello di
avere uno spartito in linea con la storia del film e con le musiche che
contribuiscono a raccontare l'interiorità del personaggio.
Non c'è dubbio che l'omosessualità pur non essendo il tema principale del film rimanga comunque in primo piano.Non
amo rinchiudere i film all'interno di una tematica, a maggior ragione
se si parla di omosessualità. Al cinema questa condizione è stata
normalizzata, resa docile, soprattutto da quei registi che, vivendola in
prima persona, hanno preferito raccontarla in nome di un buonismo che
non le rende giustizia.
In Italia la diversità sessuale è ancora un
problema, e viverla in maniera aperta e senza compromessi molto
faticoso. Per contro al cinema succede l'esatto opposto, con
rappresentazioni addomesticate e normalizzate per paura di urtare le
coscienze. L'omosessuale diventa quasi sempre una figura materna,
chiamata a tenere insieme gruppi che non vanno d'accordo. Ad una
versione anestetizzata preferisco quella che accentua le sue
caratteristiche.
Ho idea che questo discorso si ricolleghi al concetto di cinema politico.Sì
perchè in un momento in cui la libertà è stata nascosta ai cittadini e
in cui è in atto un attacco ai principi di libertà, uguaglianza,
fraternità, il cinema torna ad essere fondamentale per la responsabilità
di raccontare quello che non viene detto, e nel far vedere quello che
non si vuole guardare. Chi paga il biglietto dovrebbe per lo meno
restarne incuriosito ed avere voglia di approfondire ciò che gli è stato
raccontato. Il cinema, quindi, più che mostrare deve saper evocare,
producendo quel desiderio che spinge lo spettatore a uscire dalla sala e
a prendere in mano un libro. Non so se "Più buio di mezzanotte" sia
riuscito in questo intento ma uno degli obiettivi del film era proprio
questo, e cioè di essere una storia di formazione "formativa".
Pur
essendo un'opera prima il tuo film ha un cast d'attori di grande
livello. Mi piacerebbe sapere come sei riuscito a coinvolgerli e come ti
sei rapportato con loro durante la lavorazione.Ho avuto il
privilegio di essere assistente in una produzione in cui lavorava
Sophia Loren. Che lei fosse una grande attrice era acclarato ma quello
che ho toccato con mano è il suo essere diva, e come sappiamo, il
divismo è una componente fondamentale della settima arte. Micaela
Ramazzotti pur con i dovuti distinguo lo è alla stessa maniera, perchè
ogni volta che entra in scena ci si aspetta da lei qualcosa di
importante, e le sue emozioni diventano le emozioni del pubblico.
Vincenzo
Amato invece è un'animale da set. Con lui abbiamo parlato molto del
personaggio: è stato estremamente professionale, ascoltando ed entrando
nei dettagli del suo ruolo; poi, davanti alla macchina da presa, si è
lasciato andare all'istinto con risultati sorprendenti. Di Delbono sono
da sempre un estimatore, avendo visto tutti i suoi lavori teatrali e
cinematografici. Quando l'ho contattato gli ho detto che lo volevo nella
parte di un pappone che violenta un minorenne senza provare nessun
senso di colpa. Lui, dopo aver letto il copione, mi ha risposto che si
fidava di me, e che per questo avrebbe accettato. Con lui abbiamo fatto
lunghe chiaccherate e come attore è stato veramente generoso. Lo
ringrazio ancora per il coraggio che ha dimostrato.
C'è
poi Davide Capone, il protagonista del film, la cui apparizione secondo
me è paragonabile a quella di Bjorn Andresen in "Morte a Venezia". Come
hai fatto a trovarlo?Una volta finito di scrivere il film
avevo in mano l'identikit del mio personaggio, per cui ero sicuro delle
caratteristiche fisiognomiche dell'attore che stavo cercando. Devo dire
che non è stato facile, perchè ho impiegato due anni e fatto novemila
provini prima di trovarlo. Ad un certo punto mi sono reso conto che la
persona che stavo cercando non avrebbe mai risposto al mio annuncio, e
così mi sono convinto che toccava a me scovarlo. In uno dei miei
sopralluoghi sono capitato nel liceo musicale di Palermo che Davide
frequenta, e li ho capito di aver finito la mia ricerca. La sua
eccezionalità non è solamente estetica ma anche temperalmentale, essendo
lui, non solo un grande artista ma anche un cantante raffinatissimo.
Basti pensare che al provino ha cantato una canzone di Etta James che,
insieme a Nina Simone, fa parte del suo normale repertorio.
Accennavi alla produzione del film, e alla sua lunga gestazione.In
realtà ci sono voluti più di tre anni e il film è stato realizzato solo
grazie al mio produttore e a suo figlio, che ad un certo punto mi ha
messo in contatto con Stefano Grasso e con Andrea Cedrola, nella
convinzione che con loro avrei trovato i miei compagni di lavoro ideali.
Col senno del poi devo dire che è stata un'intuizione geniale, perchè
sulla carta eravamo persone diverse sotto molti punti di vista: Grasso è
un ebreo torinese; Cedrola un intellettuale lucano, eppure nonostante
queste lontananze ci siamo trovati così bene da condividere non solo la
gestazione del film ma anche la vita. Siamo diventati amici e con questo
spirito stiamo iniziando a pensare al nostro prossimo film.
Mi stavo quasi dimenticando di chiederti qualcosa a proposito delle tue infiuenze cinematografiche.In
parte te l'ho già detto, quando parlavo di quelli con cui sono
cresciuto e che ho studiato. Devo dirti però che il film che mi ha
convinto a passare alla regia è stato "Dogville" di Lars VonTrier. Il
regista danese può piacere o meno ma è lui che mi ha fatto capire il
potere che ha il cinema di cogliere la vita degli esseri umani e di
raccontare le persone per quello che veramente sono. Amo molto anche
Rossellini, che ha fatto il cinema con le macerie di una civiltà, e che
ha supplito alla scarsezza delle risorse con la forza delle idee. Per
non parlare di Kechiche che in scena non mette quasi nulla, come capita
ne "La vita di Adele" in cui puoi trovare un piatto di spaghetti al ragù
e poco altro: eppure, il modo di stare insieme delle persone, le loro
chiaccherate, riescono a coinvolgerti al punto da farti sentire l'odore
del cibo che stanno mangiando. Per questo motivo non sono un fan di Wes
Anderson, la cui ricchezza visiva non riesce a farmi dimenticare la
presenza del regista e della macchina da presa.
(pubblicata su ondacinema.it)