Il figlio di Saul
di Laszlo Nemes
con Geza Rohrig, Urs Rechn, Levente Mornar
Ungheria, 2015
genere, drammatico
durata, 107'
Possiamo affermare senza
torto alcuno che tra i film dedicati alla Shoah, alcuni dei quali sono già arrivati nelle nostre sale o stanno per farlo nel
giro delle prossime settimane, quello di Laszlo Nemes - giustamente premiato
dalla giuria dell’ultimo festival di Cannes - appartenga di diritto alla categoria delle opere memorabili.
A farcelo dire non è tanto il tema tratto, così importate da costituire di per
sé il valore aggiunto di qualsivoglia forma d’arte, quanto piuttosto le
caratteristiche intrinseche del lungometraggio del regista ungherese. Che, a
partire dalla forma cinematografica imposta al suo film, riesce a scavare un
solco con quello che è venuto prima. Con un rigore pari a quello del protagonista – un membro del sonderkommando ossessionato dall’idea di dare sepoltura al cadavere
del bambino che crede essere suo figlio -
Nemes sceglie infatti di aderire alla dimensione fisica del personaggio,
perseguendo il suo scopo anche a costo di sacrificare i vantaggi offertegli
dalla moderna tecnologia.
Perché, adeguando gli aspetti
tecnico realizzativi allo sguardo del protagonista, Il figlio di Saul si
presenta con delle limitazioni –
dal formato della cornice filmica, ridotto a 4.3, alla profondità di campo
della mdp, equiparata a quello
dell’occhio umano – che rendono come meglio non si potrebbe la sensazione di
vivere in prima persona, in una sorta di semi soggettiva, l’esperienza
all’interno del campo di concentramento. Per capire cosa intendiamo e dare
l’idea di quello che significa, basterebbe limitarsi a una delle sequenze
iniziali, quelle che precede il ritrovamento del corpo del ragazzino a cui Saul
decide ostinatamente di dare sepoltura. La scena, drammatica quanto consueta in
un film del genere, nelle mani del regista ungherese si trasforma in
un’esperienza a cui non avevamo mai assistito perché, messi sullo stesso piano
di Saul che al nostro pari può solo ascoltare e non vedere ciò che sta
accadendo all’interno delle camere a gas, si rischia di ritrovarsi
impreparati alla potenza di un transfert che ci cala all’interno della tragedia nel momento in cui essa si sta
compiendo.
Ma il linguaggio, da solo,
non basterebbe a giustificare l’eccezionalità dell’opera se non fosse che il
film, partendo dal pragmatismo di una trama occupata per la maggior parte dalle
procedure mediante le quali Saul e i suoi compagni portano a compimento il
proprio lavoro, riesce a
trascendere il dato fenomenologico, facendo della ritualità del gesto il mantra di un’invocazione che oggi come allora fa appello
alla pietas di tutti gli esseri
umani, ivi compresi quelli crudeli e spietati che conosciamo attraverso il
film, ai quali Saul e la sua storia oppongono un atto di fede che diventa
poesia nella scena conclusiva, in cui è proprio la morte a consegnarci le
chiavi di un nuovo inizio. Candidato all’Oscar per il miglior film straniero Il
figlio di Saul è destinato a doppiare la vittoria del Golden Globe ottenuta
nella medesima categoria.
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