"And ignorance and hate mourn the dead/
It is believing, it is believing.
But listen to the colour of your dreams/
It is not leaving, it is not leaving".
- The Beatles -
In
una realtà da tempo allucinazione teterrima di se stessa, il nodo
inerente l'attuale essenza (e consistenza) dell'identità umana s'è
stretto al punto, secondo una serie di volute tanto ambivalenti quanto
tenaci - identità come affermazione delle proprie peculiari prerogative o
sempre più mimetica adesione ad un ruolo; coerenza di condotta e di
scelte nel tempo o ipotetica reversibilità immediata di ogni decisione,
et. - da restituire un viluppo talmente informe da corroborare sempre
più i dubbi - di per se annosi, del resto - circa la sua evanescenza, se
non, persino, oramai, sostanziale illusorietà.
Proprio
attorno a tale elusiva entità e' ruotato buona parte dell'incontro
tenutosi al Film Festival di Roma tra il pubblico e il regista americano
Todd Haynes, autore coerente e assai poco hollywoodiano ["anche se, volendo, Mildred Pierce (2011)
può essere considerato tale"], interessato fin dagli esordi ad indagare
le frizioni tra una struttura sociale in apparenza garante leale
degl'infiniti modi in cui si può esprimere la libertà individuale (in
realtà, spesso e volentieri, orientata alla manipolazione più o meno
diretta della stessa, se non, addirittura, alla sua mera repressione) e
le personalità dei singoli, in specie quelle più sensibili o avvertite,
insofferenti per costituzione o per l'intersecarsi di particolari
circostanze, alle spinte omologatrici e al quieto vivere/quieta
disperazione, della sedicente modernità scarto di lavorazione non passibile di smaltimento.
A partire dal malessere misterioso di Carol/Moore
in "Safe" (1995), infatti (come da prassi consolidata la conversazione
e' stata introdotta/rilanciata per il tramite della visione di un breve
estratto dalle opere del regista o da quelle da lui ritenute
significative per gusto, affezione, lascito formativo), il sistematico
disgregarsi di un ordine in superficie impeccabile o, appunto,
quantomeno sicuro, rivela già in Haynes l'interesse a mettere in relazione (e a confronto) le ripercussioni, quasi mai - e' il caso di dirlo - salubri, che si generano al momento in cui si spezza al modo di non essere più componibile l'equilibrio tra l'ambiente (il microcosmo asettico e distaccato che Carol ha, al tempo, inseguito e contribuito ad edificare) e l'organismo chiamato
ad interagire con esso. Elemento del binomio, quest'ultimo,
icasticamente rappresentato nel suo moto antagonista dall'insorgenza di
un'incomprensibile allergia, evidenza fisica e metaforica
insieme di una condizione di disagio, di un diffuso - e doloroso -
sospetto che a prevalere, della vita, sia sempre più e solo, la
componente artificiale/artificiosa.
Artificiosità che smentisce la propria inclinazione a ripetere senza scarti se stessa e si fa scientemente stile, metro d'interpretazione della realtà, in un film come "Velvet Goldmine" (1998), nel quale i continui ribaltamenti operati tra vero e
messinscena del medesimo, mascheramenti e disvelamenti (sovente fittizi
anch'essi), in un andirivieni in cui i ruoli - sociali, culturali,
sessuali - si mescolano e si ridefiniscono quasi per necessita', come forse solo nel breve periodo raffigurato (la parentesi glam del
rock, durante i primi anni '70, riconducibile a nomi leggendari quali
M.Bolan, D.Bowie, I.Pop, B.Ferry, solo per citarne alcuni), creano un
vortice vistoso e irrefrenabile che nella mani di Haynes diventa materiale resistente (proprio
perché, nemmeno tanto paradossalmente, assai malleabile), agglutinato
in opposizione al biasimo ipocrita e alle istanze repressive e
moralizzatrici di una società - leggi: di una mentalità - che s'illude
circa la propria legittimazione ad imporre condotte in virtù di
un'identità condivisa perché passivamente indossata (sul genere: nisi caste saltem caute).
Riflesso oltranzista, questo, avversione e sberleffo, del resto, che,
ad esempio, nell'iper-cromatismo delle fogge e dei trucchi,
nell'indulgenza impertinente nel bizzarro, nell'istrionismo ricercato e a
volte insistito delle interpretazioni, percorre - non così in
sotterranea, poi, e a ben vedere - territori semivergini del Cinema
contemporaneo, formando qua e la' polle pure atre ma di certo beffarde,
tipo quella del "Chopper" di Dominik (2000) o quell'altra del "Bronson"
di Refn (2008).
Le tensione messa sotto la lente d'ingrandimento di Haynes tra conformismo terminale e elasticità identitaria deflagra e, nel mentre, si radicalizza, in "I'm not there" (2007), falsa biografia di Dylan, nel (mancato) rispetto della quale l'innesco di girandole di travestimenti e parti-in-commedia incarnate
da sei attori diversi - C.Franklin, C.Bale, C.Blanchett, H.Ledger,
B.Winshaw e R.Gere - funziona a meta' da specchio infranto di una
personalità fin troppo conscia del gioco a perdere a cui una qualunque funzione pubblica, prima o dopo, destina/condanna ("E' come se Dylan avesse ucciso di proposito il personaggio folk che,
bene o male, al culmine degli anni '60, aveva concorso a creare e che,
pressoché da subito, gli era stato incollato addosso", nota Haynes);
d'altro canto ribadisce la peculiarità di un discorso cinematografico
che, come, per dire, quello di Bogdanovich, si ostina, a onta dei tempi e
delle tendenze, a scavare nelle pieghe dell'umano (o di ciò che
ne resta); ad indagare le contraddizioni dei comportamenti individuali
in connessione a metamorfosi sociali sempre più frenetiche, come prive
di alternative dignitose o semplici vie d'uscita: a far emergere - non
senza amarezza - il graduale (inevitabile ?) immiserirsi e deteriorarsi
dei rapporti a mo' di un'arcana ma non meno inesorabile progeria
dell'anima. Siamo, in altre parole, già dalle parti del melodramma: a
dire, nei paraggi tanto visivamente sgargianti quanto, negli anfratti,
mesti, di un'opera dell'impianto di "Far from heaven" (2002), debitrice,
per buona parte, come affermato dallo stesso cineasta californiano, nei
confronti del magistero del D.Sirk di "All that heaven allows"/"Secondo
amore" (1955), quanto di quello della successiva rivisitazione
fassbinderiana di "La paura mangia l'anima" (1974): più in genereale,
idealmente e contenutisticamente concorde nel sottolineare la grevità
dell'ingerenza, nella sfera sentimentale di uomini e donne di ogni rango
ed età, della doppiezza e dell'ignoranza - nonchè della viltà - in un
circolo perverso di slanci abortiti e futili entusiasmi la cui
inconcludenza rafforza e incista più a fondo il meccanismo abbietto
della prevaricazione, da un lato, e della rinuncia, dall'altro. Se Sirk
giocava di rimando (data l'epoca) sui sottintesi e le sfumature;
Fassbinder aggiungeva di suo tono antiretorico e moderate aperture al
patetico, Haynes, nella storia d'amore impossibile tra Cathy (ancora la Moore) e Raymond/Haysbert, nel Connecticut di fine anni '50, inserisce una sorta di consapevolezza retrospettiva che introducendo una ulteriore, minima, distanza
tra i protagonisti, le sensazioni/sentimenti che non si possono/non si
devono/è disdicevole provare e l'occhio di chi guarda, conferisce
all'intera vicenda - e a maggior ragione in un contesto figurativo quasi
astrattamente idilliaco - i caratteri di una universalità (che sono quelli della condizione umana colta, con felice intuizione, nell'interezza del suo destino) ancor più straziante perchè, con ogni probabilità, senza - o latrice di un'impalpabile - speranza.
Tale consapevolezza (formalmente, sorta di concentrazione e distanziamento del punto di vista) si ribalta, sempre dal versante espressivo, nell'ultimo lavoro "Carol"
(2015), in cui Haynes, avvalendosi di un meccanismo mutuato dal D.Lean
di "Brief encounter" (1945) allo scopo d'introdurre la protagonista
(C.Blanchett), sposta l'attenzione dello spettatore da un fitto dialogo
che sembrava monopolizzare l'intera scena alla prima epifania della sua eroina. "Carol", ricorda Haynes, "è il lavoro che mi ha portato a rivedere, ad esempio, un film come L'eclisse
di M.Antonioni, opera che ha ricoperto un suo ruolo nel tratteggio del
carattere principale. Per certi ulteriori aspetti - alcuni elementi
dell'abbigliamento, una particolare gestualità e il modo di camminare -
la figura di Monica Vitti resta uno dei riferimenti che ho suggerito a
Cate di tenere presente". Senza dimenticare - ha preseguito
l'autore americano - l'occhio critico gettato sul crescente
restringimento delle alternative offerte all'uomo ostaggio di un mondo
ritratto come moltiplicazione anodina di spazi sempre più vasti quanto
vuoti, inerti, quasi, in ogni caso privi di quel calore elementare di
cui non ci si può non sentire orfani, oggi forse più di ieri, così come
della presenza di un affetto vero: "Heath (Ledger) mi manca molto", ha
infatti concluso Haynes. "Era un artista fuori dal comune. Sua figlia
Matilda gli somiglia, tanto : ciò mi consente di dire che lui è ancora
tra noi".
TFK
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