Nahid
di Ida Panahandeh
con Sareh Bayat, Pejman Pazeghi, Navid Mohammadzadeh
Iran, 2015
genere, drammatico
durata, 105'
Sono sufficienti un errore, una svista e una telecamera di sorveglianza a far in modo che, in quel tratto di terra che si perde sulle sponde sabbiose del Mar Caspio, una donna sia destinata a perdere tutto. Nahid è una giovane madre orgogliosa che vive in affitto con il figlio in un sobborgo popolare iraniano, dopo essersi separata da un marito balordo. Ostinata a mantenere la custodia del piccolo, tenta di sopravvivere dignitosamente a una società che limita il suo diritto alla maternità con una legge per cui in caso di divorzio il bambino è automaticamente affidato al padre. Tuttavia, il marito le ha concesso di crescere il piccolo, a patto che lei non si risposi, mantenendo intatto l'onore della famiglia. Un'imposizione che costringe la donna a una vita di espedienti, ristrettezze economiche e un profondo senso d'inquietudine, alimentati dalla solitudine e dalle ribellioni del figlio, troppo simile al padre. Sarà necessario l'ingresso molto prudente di un nuovo amore per dare a Nahid la forza di agire e credere finalmente nel sogno di una famiglia unita. Purtroppo, però, le leggi islamiche parlano chiaro: appena il padre del ragazzo scopre la relazione clandestina, ufficiata da un matrimonio temporaneo, si avvale del diritto di sottrarre il ragazzino alla madre. Inermi, Nahid e il nuovo marito saranno costretti ad andare incontro alle incertezze e alla sfiducia nel sistema giudiziario, in una parabola di scontri che dà inizio a un'esplorazione antropologica oscura: la sopraffazione degli ultimi in un'estenuante lotta contro il miope tradizionalismo governativo.
L'esordio alla regia di Ida Panahandeh, presentato in concorso al 68esimo festival di Cannes, s'inserisce in un panorama di rinascita artistica del cinema autoriale iraniano. Il Paese continua a essere alle prese con una ferrea censura: registi e autori altro non possono fare che aggirare i divieti attraverso un codice linguistico alimentato da sottotesti e suggestioni appena accennati.
Il dualismo conturbante di Nahid si colora di un impercettibile simbolismo, mai propriamente esplicitato, lasciando che siano piccoli sguardi liberatori a raccontare la frustrazione della sua personale rivoluzione. Mai affrancata veramente dal conflitto morale, la scelta di osare della donna diviene emblema per un'analisi dei sentimenti e dei rapporti sociali troppo spesso ostacolati da uno stato retrogrado. Un piccolo gesto, l'interno spoglio di un'abitazione o l'uso improprio di gioielli altrui raccontano il contrasto tra l'esigenza di modernità e gli strascichi di un pesante regime dispotico che ancora oggi costringe gli uomini, e soprattutto le donne, a vivere privati dei diritti fondamentali.
Fucina di contraddizioni, l'Iran di Panahandeh non riesce però ad avvicinarsi alla poetica sommessa del movimento cinematografico indipendente guidato da Asghar Farhadi, Orso d'oro al festival di Berlino con "Una separazione". L'abuso della camera fissa vorrebbe identificare una presunta oggettività dello sguardo, abbandonando la sperimentazione e banalizzando un sistema narrativo complesso. I luoghi non sono particolarmente significativi, così come i limiti politici, religiosi e culturali non arrivano a mettere in scena l'enorme frattura che si annida dietro l'esigenza di ritrovare uno spirito critico al quale anela chi spera in una rinnovata libertà di espressione. Al netto di questo lieve difetto, causato da una regia titubante, "Nahid" è un'opera colma di spunti che, pur rimanendo in attesa di un adeguato sviluppo, accenna una poetica della contraddizione, senza rifuggire il dolore.
Riccardo Supino
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