It follows
di, David Robert Mitchell
con, Maika Monroe, Keir Gilchrist, Daniel Zovatto
Usa, 2014
genere, horror
durata, 94'
Osteggiato da un particolarmente
accorto Tarantino per il suo voler perseguire un ideale di horror vecchio
stampo in contrasto con l’affossamento dell’iniziale buona idea, pur nel lodevole
tentativo perseguito dal regista di virare verso la novità, It Follows apre il sipario sul palco
imbastito da David Robert Mitchell con un incipit incalzante nel suo climax
ansiogeno. La macchina da presa carrella circolarmente in piano sequenza su una
ragazza atterrita in fuga dalla propria casa, la segue in strada e nel suo
rientro nella propria dimora, fino ad anticiparne le mosse successive con
grande classe, illuminandola al freddo della spiaggia in un campo lungo che ci
permette di cogliere ogni sfumatura del terrore che l’attanaglia, la solitudine
riempie lo spazio vuoto dello schermo, un’ultima telefonata a chi l’ha vista
dileguarsi sotto i propri occhi ed una posa mortuale che sconfina nello
scultoreo, con le prime luci dell’alba a preavvisarci dell’imminente cambio di
rotta. Abbandonato il lido iniziale l’azione si tuffa in piscina assieme ai
veri protagonisti della vicenda, la quale avrà sviluppi interessanti per
particolari innovazioni narrative, alternandosi a situazioni trite
opportunamente revisionate. It Follows basa
la propria forza sull’assunto fondamentale della maledizione intesa come un’infinita
catena i cui trasferimenti ed interruzioni sono possibili grazie al contatto sessuale
con un altro individuo, una condanna sessualmente trasmissibile che si propaga
come una pestilenza, grazie alla capacità tutta umana di mettere l’io in primo
piano rispetto alla persona altra, anteporre l’ego al bene collettivo, istinto
di sopravvivenza usano chiamarlo. Risalire al primo contagiato e alla
motivazione dell’infezione sembra essere poco utile per i futuri snodi
narrativi, mostrare i meccanismi psicologici che conducono un adolescente al
baratro della follia e poi rinsavirlo momentaneamente con lo scopo unico di
permettergli di scrollarsi di dosso tale fardello e lasciarlo in gestione ad
una malcapitata amante, invece, pare essere la strada corretta da seguire. Così
Mitchell dà uno scossone alla monotonia del genere, scrutando con attenzione ma
senza l’esasperazione del voyeur i propri pargoli cinematografici, concede
lungo respiro alle sequenze sfruttando il carrello con l’abilità di un maestro
navigato, limitando all’essenziale i movimenti della macchina da presa e
permettendo ai fotogrammi di soccombere al tremendo carico di tensione accumulatosi
durante la visione. L’intento innovatore si rivela nella sequenza ambientata
all’interno del teatro, dove l’ingenua ed ancora intonsa protagonista incontra
un ragazzo per un appuntamento; all’attivazione di un innocente gioco di
scambio di identità immaginario con gli astanti spettatori, uno dei due rivela
inavvertitamente il proprio soggiogamento alla presenza colpevole di tale,
necessario, contagio e costringe entrambi a lasciare l’edificio ad inizio
proiezione. L’ansia si accumula progressivamente, senza interruzione di alcuna
sorta venendo, inquadratura dopo inquadratura, a coagularsi in un grumo di
difficile digestione in corrispondenza dell’atto sessuale consumato nell’auto
dove avviene il pericoloso contagio.
La carica metaforica di cui pare coscienzioso
difensore Mitchell è intensa, la maledizione dalla trasmissibilità sessuale è sopportata
dalla protagonista alla stregua di una malattia – la devastazione psicologica
che segue l’infezione è tremenda. Jay ispeziona ed analizza la propria intimità
con timore crescente, tiene a bada i nervi continuamente tesi e tenta di
razionalizzare le visioni che la tengono ostaggio, aiutata concretamente dal
proprio parterre amicale. La presenza che inizia a perseguitarla assume forme
differenti, muta la propria essenza esteriore e le impedisce il suo corretto riconoscimento, lasciandola
spesso nel dubbio e nella trepidazione causate dai fenomeni che le occorrono,
pronta a “dar di matto” al minimo scricchiolio. La situazione in cui si ritrova
sembra essere un paradossale rovesciamento della medaglia: la costrizione al
contagio di tale male piuttosto che la ricerca di una cura allo stesso, una
moltiplicazione potenziale degli infetti invece del suo debellamento totale. Jay
è reticente alla reiterazione e si ritrova costretta in un limbo dal quale ogni
via di fuga appare come occlusa, continuamente in balia di un male invisibile agli
altri ma avvertito prepotentemente sulla propria pelle e fiero nemico della sua
psiche. Mitchell ci lascia navigare in mare aperto senza fornirci appigli,
distrugge emotivamente la protagonista per permetterle di avanzare nella
narrazione, filma il tutto evitando di intromettersi eccessivamente nella
storia. L’immersione tensiva è notevole, frutto di accortezze registiche degne
di nota – una su tutte la sequenza in cui la camera è montata frontalmente alla
ragazza, costretta dal suo amante su di una carrozzina, e fotografia e regia
camminano di pari passo permettendo una visione congiunta della paura, per lo
più inedita, lasciandoci godere una pellicola di genere piacevolmente originale
che, pur con qualche limitazione ritmica nella parte centrale, risulta ugualmente
degna di menzione.
Alessandro Sisti
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