Hirokazu Kore-eda, l’eternità dei
ricordi e le forme sentimentali
Presso
Spazio Oberdan Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016 Fondazione Cineteca
Italiana presenta una
rassegna
dedicata a uno degli autori più importanti del cinema giapponese contemporaneo:
il regista, sceneggiatore, montatore e produttore Hirokazu Kore-Eda. L’omaggio
prevede otto film, ben sei dei quali mai distribuiti in Italia. Nelle righe che seguirano una breve introduzione sul lavoro e le opere del regista giapponese.
Più che una nuova voce, il regista Hirokazu Kore-eda è una
certezza del nuovo cinema giapponese. Classe 1962, nasce come documentarista
per poi farsi subito notare alla Mostra del Cinema di Venezia del 1995 con
l’opera prima “Maborosi” (Maborosi no Hikari) che vince un premio
Osella come miglior fotografia. Con “After
Life” (Wandafuru raifu, 1998) si aggiudica
il premio alla sceneggiatura al Torino Film Festival di quell’anno e inizia ad
affermarsi come un autore che suscita interesse e attenzione nel mondo,
restando però relegato sempre nell’ambito festivaliero. Perché sia riconosciuto
anche dal grande pubblico (oltre che da una nutrita e crescente folla di
estimatori e cinefili in tutto il mondo), si deve aspettare il successo al
Festival di Cannes del 2013 dove “Father
and Son” (Soshite Chichi Nitaru)
si aggiudica il Premio della Giuria e viene distribuito nelle sale
cinematografiche italiane. Con il successivo “Little Sister” (Umimachi
Diary, 2015), Kore-eda si conferma come autore che ha presa anche su un
pubblico generalista.
L’occasione è quindi ghiotta per poter recuperare gran parte
della sua filmografia con la rassegna a lui dedicata dalla Fondazione Cineteca Italiana che programma otto dei sui undici film (di cui sei mai distribuiti nelle sale cinematografiche italiane) presso il
cinema Oberdan di Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016.
Oltre ai già citati, si potranno vedere: “Nobody Knows” (Dare mo Shiranai, 2004) tratto da una storia vera che racconta di
quattro fratellini di padri diversi abbandonati dalla madre e costretti a
sopravvivere con le loro forze; “Still
Walking” (Aruitemo Aruitemo, 2008)
dove viene messa in scena la vicenda privata di una famiglia e il difficile
rapporto di un giovane con i propri genitori, dopo anni di assenza e ritornato
a casa in occasione del funerale del fratello maggiore; “Air Doll” (Kuki Ningyo, 2009)
storia fantastica su una bambola di gomma che diventa umana e s’innamora di un
uomo; “I Wish” (Kiseki, 2011) opera tutta incentrata su un gruppo di bambini e la
loro quotidianità. Non presenti nella rassegna il suo terzo film “Distance” (Distance, 2001) sul suicidio collettivo perpetrato da una setta
religiosa; “Hana” (Hana Yori Monaho, 2006) un gindai-geki, film in costume, dove un
samurai compie la sua vendetta contro gli assassini del fratello; e l’ultimo
film appena presentato al Festival di Cannes 2016 e ancora da distribuire (Umi Yory mo Mada Fukaku).
Kore-eda ha un occhio sensibile alle dinamiche familiari,
soprattutto ai rapporti filiali, e molte volte dal punto di vista dei bambini,
o comunque al tema dell’infanzia, dei traumi della crescita. Il rapporto con la
vita e la morte, la perdita di un padre, un fratello, una madre, un familiare,
sono al centro del suo interesse. Un cinema più che filosofico, a tratti
sociale e a tratti poetico, dove la sostanza dei contenuti affrontati si
sostanzia con la forma cinematografica. Prendiamo ad esempio l’opera prima “Maborosi”, dove la giovane protagonista
viene prima rappresentata, in un prologo, quando bambina non avrà la forza di
bloccare la vecchia nonna che fugge da casa scomparendo per sempre; poi in una
prima parte, giovane neo mamma e sposa, che vive di poco nella periferia di
Osaka in una felicità brutalmente interrotta dal suicidio inspiegabile del
marito; e, infine, una seconda parte, la più lunga, mentre si trasferisce in un
villaggio costiero con il figlio ormai cresciuto, per vivere con il secondo
marito e la sua giovane figlia.
Se da un
lato Kore-eda utilizza un occhio quasi documentaristico e il tema della morte è
presente (debitore alla sua produzione documentaria che tratta di malati di
AIDS, di suicidi, di morti), dall’altro, la messa in scena, è profondamente
poetica per la volontaria presenza dell’autore dietro la macchina da presa che
lavora sulla sottrazione del profilmico e sull’essenzialità della messa in
quadro: sia negli interni (pensiamo al monolocale a Osaka con il primo marito o
alle stanze della casa del secondo marito direttamente sul mare) sia negli
esterni (soprattutto nella seconda parte, con i bellissimi campi lunghi e lunghissimi
della costa e del mare, sia in inverno che in estate) dove, in particolare, la
protagonista appare sempre come l’unico elemento umano all’interno di una
natura che si trasforma in un genius loci.
La luce del resto, così come il paesaggio, formano un contraltare ai momenti
emotivi differenti: la palette di
grigi e neri invernali e di verdi e azzurri dell’estate rappresentano anche le
punte di tristezza e di ritrovata felicità della protagonista, inerme di fronte
al mistero del suicidio del primo marito, di cui non si riesce a dare pace
perché non trova nessuna spiegazione e la riempiono di sensi di colpa, così
come la scomparsa dell’amata nonna da quando era bambina.
Lo stile documentaristico, con la predilezione di messa scena
in interni e la cinepresa all’altezza dello sguardo dei bambini, lo abbiamo
ancora di più in “Nobody Knows”. I
quattro ragazzini, due maschi e due femmine, abbandonati da una madre infantile
ed egocentrica, in un appartamento in periferia di una grande città, dà la
possibilità a Kore-eda d’indagare le silenziose emozioni in un’implosione di
stile che viene rappresentata dalla messa in scena del piccolo monolocale, dove
i quattro (soprav)vivono sotto la guida del fratello maggiore appena dodicenne.
Una vita ai margini e marginale, di un’infanzia non solo perduta, ma invisibile
agli adulti, che non si chiedono di ragazzini soli in mezzo alla strada, senza
nessun sostegno di un adulto, obbligati a una reclusione coatta, non solo
fisica, ma anche emotiva. Kore-eda riesce con levità a trasmettere la
pesantezza della vita che schiaccia i bambini e che porta alla tragedia finale
per una di esse (la sorellina più piccola) in una sequenza in montaggio
alternato, dove proprio il fratello maggiore, per un momento, riuscirà a
sollevarsi dal sottosuolo della sua esistenza. E la metafora della valigia
sotterrata ai margini dell’aeroporto, con gli aerei che partono verso ignote
destinazioni, non è niente altro che l’anelito alla fuga verso un’esistenza
migliore, dove però l’unico possibile viaggio è quello verso l’Aldilà, una morte
che diviene un passaggio verso un’altra possibilità.
Del resto, con “After
Life”, questo mondo dopo la vita, Kore-eda lo mette in scena con uno stile
da reportage documentaristico per poi mutarlo drasticamente verso il mostrare
la creazione del “fare” cinema. Queste anime che arrivano in una “stazione” di
passaggio, dove dei ligi e giovani funzionari (anch’essi morti) le accompagnano
all’eternità, dandogli una settimana di tempo per scegliere un ricordo (uno
solo) e portarselo con sé. Diventa quindi interessante vedere la difficoltà di
sintetizzare un’intera vita (breve o lunga essa sia) in un unico momento
significativo che la rappresenti tutta. Ma la svolta originale dell’opera di
Kore-eda è proprio il lavoro di queste persone che ricostruiscono il ricordo
facendo del “cinema”: devono creare le scene, gli effetti speciali, scegliere i
luoghi adatti, le luci, per poi girare, come una vera e propria troupe
cinematografica, il ricordo scelto dal morto. Nell’ultimo giorno i ricordi (dei
cortometraggi) sono proiettati in una sala cinematografica e alla fine i morti
scompaiono letteralmente. Il gioco è esplicitato fin dall’inizio e la bellezza
di “After Life” è proprio nel racconto e nel suo sviluppo diegetico. Il cinema
diventa una grande metafora della vita: una metonimia di un’intera esistenza;
il cinema come contenitore di ricordi da trasmettere all’eternità per poi
scomparire definitivamente con essa, dopo la fine della proiezione e
l’accendersi delle luci in sala. Vedere un film è un po’ come vivere ancora una
volta e morire di nuovo.
Con “Father and Son”,
il regista giapponese compie un salto, una svolta di grande maturità,
abbandonando i temi del lutto, della morte, della tragedia, ma concentrando il
suo sguardo sui rapporti filiali. Il caso di due bambini scambiati in culla per
un errore dell’ospedale, porta al confronto di due famiglie all’opposto, sia
per condizioni sociali sia per rapporto con la vita: la prima è ricca, con un
uomo dedito al lavoro in una grande azienda, abitano in un ordinato e moderno
appartamento in un lussuoso palazzo in città, con il rapporto con il figlio
tutto sorretto da una rigida formalità ed educazione, sempre spinto a dare il
massimo in tutti i campi dello studio; la seconda è una caotica famiglia che
vive in provincia e gestisce un piccolo negozio, con un padre chiassoso che
trasforma il rapporto con i figli in un continuo gioco e divertimento lasciato
alla massima libertà espressiva dei propri sentimenti. Già questo continuo
confronto netto e contrastante tra le due famiglie che si devono conoscere e
decidere lo scambio dei figli naturali dà la cifra della capacità d Kore-eda di
creare del cinema dove l’uomo e la sua umanità (con tutte le sue debolezze e
incertezze) sono messe al centro della visione. Il confronto qui è tra legami
di sangue o legami emotivi e la risposta che dà l’autore è incontrovertibile
nella bellissima sequenza finale: l’uomo ricco lascia il proprio figlio alla
famiglia naturale; gli dice che si deve fare coraggio e che deve “andare in
missione, una missione lunga e pericolosa”; quando alla fine si rende conto che
lo scambio dei figli non funziona perché il legame emotivo delle famiglie
“adottive” obtorto collo è troppo
forte, decidono insieme all’altro padre di lasciare tutto com’era. In un lunga
carrellata in un campo-controcampo continuo tra il padre e il figlio che
finisce alla fine di un viale alberato, il padre dice al figlio prima di
abbracciarlo: “La missione è finita, si torna a casa”, in un momento di
altissima emozione rafforzata dall’eleganza formale della messa in quadro di
tutta la sequenza.
Questo svolta verso un cinema maturo e più consapevole dei
propri mezzi e dell’originalità del suo sguardo, Kore-eda lo conferma anche con
“Little Sister”. La ricchezza della
sceneggiatura va di pari passo con la messa in scena sempre più complessa e a
una messa in quadro che si riempie e lavora adesso sull’accumulo. La storia di
tre sorelle adulte che vivono nella casa materna, tre caratteri diversi e
complementari, tre età differenti e approcci all’amore e alla vita
contrastanti, diverte e commuove allo stesso tempo. E l’occasione di andare al
funerale del padre che le aveva abbandonate per risposarsi con un’altra donna,
le porta a scoprire una sorellastra più piccola, che rimasta orfana, la
accolgono nella loro singolare famiglia tutta al femminile. “Little Sister”
diventa un’altra espressione per indagare una diversa forma di famiglia, fatta
di solidarietà, di gioiose differenze e contrasti, ma soprattutto di affetti e
sostegno reciproco, senza mai scivolare in facili sentimentalismi ma andando
invece nella profondità del sentimento come le profondità di campo degli
interni di Kore-eda. E la morte in questo caso è presente a latere (la sorella
più grande lavora come infermiera in un reparto di malati terminali e assisterà
fino alla morte la proprietaria di un piccolo ristorante): inizia con il funerale
del padre e finisce con il funerale di una loro amica, in mezzo c’è il pieno di
vita e vitalità di queste giovani donne e ragazze piene di speranze e
aspettative.
In attesa, e nella speranza, di vedere presto l’ultima opera
del regista giapponese, non perdete l’occasione di passare un’estate diversa,
scoprendo del grande cinema con film che colpiscono nell’intimo qualsiasi
spettatore.
Antonio Pettierre
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