mercoledì, ottobre 19, 2016

FESTA DEL CINEMA DI ROMA - THE ROLLING STONES: OLE,' OLE', OLE'

The Rolling Stones: olé, olé, olé
di,  Paul Dugdale
genere, documentario 
USA,  2016
durata, 105'


"Appena metti qualcosa al bando, attorno a quella cosa si crea un movimento". Le parole, sempre un po' beffarde e distaccate, di K.Richards, possono tornare utili al fine d'inquadrare l'entusiasmo incontenibile (al punto di dare origine, in Argentina, ad una vera e propria tribù metropolitana e ad una forma di sottocultura, entrambe ispirate agli Stones, la cosiddetta Rolinga) con cui il gruppo inglese è stato accolto durante il recente tour in giro per il Sud America - Argentina, appunto e a seguire Uruguay, Brasile, Perù, Colombia, Messico - in una serie di tappe sincronizzate sull'avvicinamento al concerto apoteosi che si sarebbe poi tenuto il 25 marzo 2016 presso il Centro Sportivo di L'Avana, Cuba. Gran parte dei citati paesi latini, infatti, come effetto collaterale dell'essere stati per decenni sotto il giogo di feroci dittature, s'erano visti tra l'altro espropriati della possibilità di avere accesso ad alcune espressioni della cultura di massa, in specie quelle che prevedono l'adunata di nutriti contingenti d'individui in un medesimo spazio, quindi, in primis, della musica rock e delle sue trasgressive stelle. "Il tempo cambia tutto" (M.Jagger dixit), così i termini dell'equazione - peraltro nel frattempo ribadita un po' ovunque a spasso per il pianeta - che lega una delleband più influenti e longeve della storia dell'intrattenimento popolare a raduni oceanici e plaudenti, man mano si riducono ad una semplice giustapposizione di elementi ricorrenti.

Sulla medesima scia, il lavoro di Dugdale lascia presto corda all'aneddotica e alla memorialistica in comune del quartetto disopravvissuti, dalle quali emerge, oltre il divismo e i litigi, i momenti di saturazione e gli eccessi e a mo' di collante invisibile ma davvero a prova di tutto, il solo e autentico privilegio costituito da esistenze a cui ha arriso il dono di condividere esperienze uniche ogni volta rinnovantisi in una sorta d'imponderabile e gratuito stato di grazia in armonia con la cui forma, e nello stesso tempo, la musica ha fornito sostanza e, incessantemente, rammendato le lacerazioni, colmato gli spazi vuoti, dato consistenza e giustificazione ad oltre cinquant'anni di voli in aereo, di chilometri sulle strade, di camere d'albergo talvolta di un lusso persino insensato, di debolezze e rinascite, d'intuizioni e comprensibili apatie, al punto da levitare, sempre e comunque, al centro di ogni scambio di battute, di ogni silenzio, di ogni occhiata fin troppo complice, come ad esempio si può notare quando - nemmeno fosse la cosa più naturale del mondo (o forse sì, a questo punto) - Richards e Jagger, tra una divagazione e l'altra, in piena scioltezza, attaccano per sola chitarra e voce Honky Tonk women e sul serio pare che il resto non conti o non abbia tutta questa importanza.



Del resto, il prodigio armonico e ritmico di una scaletta che, volta per volta, può includere o fare a meno, nella pressoché totale certezza che poco o nulla cambierà in fatto di divertimento, di trasporto emotivo e di distrazione dal grigiore quotidiano, di, per dire, schegge brillanti tipo Brown sugarSimpathy for the devilStreet fighting manPaint it black, Jumpin' Jack flashWild horses e tante altre, la dice lunga sulla quantità di energia che il rock può mettere in circolo da un lato all'altro del palco, cementando l'affiatamento di un pugno di settantenni, nel primo caso; rinnovando l'ingenua illusione della verosimiglianza di un cambiamento nella forma di un'elevazione laica, nel secondo: esaltando il sogno della mirifica estate-senza-fine, quella della giovinezza, per entrambi. D'altro canto, è pure vero che, in particolare in occasioni come questa ritratte dal segmento di vita catturato da Dugdale, torna a risuonare forte, sul genere di un insistito mugugno tra i colori, le grida, l'euforia, il verso greve di un'angoscia sotterranea, quella della modernità, che per esorcizzare la propria sfavillante inconsistenza si affida anche alla catarsi fragile di miti senili. Si volge cioè all'indietro, tradendo, al di là delle ovvie propagande forzosamente e venalmente ottimistiche, un vero e proprio terrore per il futuro, una generale mancanza di fiducia e il silenzioso abbandonarsi ad una deriva da lei stessa lasciata crescere al proprio interno, per cui non esistono rimedi ma solo lenitivi, come, nel caso, gli eterni Stones. Stante così le cose, non resta che stringere i denti un altro po' e cercare di constatare se pure l'istante in cui il nostro modo di vivere ci sommergerà sarà accompagnato da un trillo di Richards o, colmo della fortuna, da una delle strepitose esitazioni di Watts. Let it bleed.
TFK

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