domenica, ottobre 09, 2016

GIOVANNI SEGANTINI. LA MAGIA DELLA LUCE

Giovanni Segantini. La magia della luce
di, Christian Labhart.
Svizzeram 2015
genere, documentario 
durata, 82'

Heaven may stone him
but Jean the birdman pulls it off
- D.Sylvian/R.Fripp -




Nell'evidenza di una dissennata glossolalia riuscita oramai ad accomunare in una medesima, indifferenziata, iterazione, la memoria e l'obsolescenza, può trovare posto, a mo' d'impertinente controsenso, la figura di un uomo e di un artista come Giovanni Segantini, artigiano della materia e del colore, vissuto (1858-1899) sul crinale di uno degli ultimi sussulti vitalistici di un mondo - l'Europa - che si sarebbe tragicamente infranto (e quasi con una sua perversa voluttà) poco oltre la soglia del cosiddetto secolo breve. Giunge in provvidenziale soccorso, allora, per il contributo ad una ricollocazione consona alla statura e all'importanza di un pittore di mano felice e d'animo inquieto - forzosamente a margine delle suggestioni che stavano preparando l'avvento delle diverse avanguardie del Novecento (Segantini fu apprezzato tanto dai pressochè coevi Secessionisti, quanto dai giovani Balla, Carrà, Boccioni, et.), nonché stroncato - come si sarebbe detto ai tempi - nella-pienezza-degli-anni - questo documento curato dallo svizzero C.Labhart, patrocinato dalla Fondazione Cineteca Italiana presso lo Spazio Oberdan di Milano e dal titolo "Giovanni Segantini. La magia della luce".



Per fortuna a riparo di sfinenti (quanto inutili) propositi esplicativi (alla voce narrante vera e propria vengono affidati, infatti, solo raccordi essenziali di un'esistenza fatta di limitati seppur significativi eventi esteriori), l'opera di Labhart lascia da subito la parola a Segantini (nell'edizione italiana, a cura di Teco Celio), libero d'indirizzare i passi del proprio cammino nei giorni verso i modi, i tempi e i luoghi di una coerente filologia interiore, fatta perlopiù di stati d'animo contrastanti e ricorrenti (entusiasmo per il contatto stretto con la Natura intesa come organismo vivente e origine - e misura - di ogni epifania: Ho visto fiori piangere e lombrichi ridere tristezza e preoccupazione per le contingenze materiali: A nessuno interessava se io vivessi o no. Ma io volevo vivere; tormento misto a rimpianto per un'infanzia spezzata dal dolore della perdita e presto virata in giovinezza randagia e ribelle: Mia madre era bella come un tramonto di primavera; Una solitudine grigia e indefinita, la mia; improvvise agnizioni al cospetto del paesaggio, alla constatazione della meravigliosa e inesorabile irriducibilità delle leggi naturali: Infondere nella tela quella calda energia vitale; composta ma schietta gratitudine per l'amore ricevuto, dato e tenuto-in-circolo nel magistero della disciplina pittorica), secondo un movimento solo in apparenza slegato bensì in grado di unire gli affetti, la terra (l'orizzonte montano, in primis, custode della saggezza dei tempi e sede del sacro: Le montagne sono altari costruiti sotto il cielo) e i suoi frutti ad un'inesausta ricerca formale mirata ad evocare, allo stesso tempo, lo stupore nei confronti di un respiro universale che senza posa torna sul proprio operato e il sommesso sentimento tragico, la sfumata mestizia indotta dalla consapevolezza dell'intrinseca fragilità che sottende all'equilibrio dei viventi e alle sorti dell'agire umano, all'interno del cui volgere è comunque auspicabile ricercare almeno, in una tensione creativa tra slancio e ripiegamento, il riflesso di una luce superiore e benigna.



Diviso in tre movimenti - il divenire, Arco del Trentino, 1858-1864; l'essere, Brianza, 1878-1886; il trapasso, Maloja, Svizzera, 1894-1899 - contrappuntati spesso con una certa invadenza dal commento musicale, il lavoro di Labhart si snoda secondo l'austera rigidità di uno schema lineare/consequenziale, ricostruendo l'itinerario fisico, psicologico e inventivo di Segantini. Dalla frequentazione interrotta dell'Accademia di Brera, all'incontro decisivo con Vittore Gubricy, suo primo e convinto sostenitore e mecenate, e soprattutto con Beatrice Bugatti - detta Bice - amore, madre dei suoi quattro figli e figura di riferimento di una vita. Dalla parentesi e relativa prima produzione consumatasi in Brianza, a quella trascorsa nelle Alpi grigionesi di Savognino, esauritasi per problemi finanziari, fino all'ultimo approdo, quello presso Maloja in Alta Engadina. Con felice intuizione e immediata corrispondenza, il canone estetico adottato da Labhart allude, riprende e s'intreccia in momenti contemplativi aperti su una realtà sospesa tra una rivelazione definitiva e una catastrofe senza remissione, alla semplice tavolozza di Segantini. S'avvicendano, così, nelle oscurità perentorie o negli squarci misteriosi della Milano metropoli contemporanea; nelle brume umide e grigiastre, nelle turchesi porosità della Brianza, così come nella quiete dorata delle valli alpine o nei cieli tersi d'alta quota, il bianco argento, il bianco di zinco, la terra rossa, il cinabro francese, l'ultramarino, il giallo cadmio, il blu e il verde cobalto..., rendendo di fatto esplicito il rapporto a tutta prima elusivo - ma ben lungi dall'essere esaurito - tra le immagini presenti e la visione segantiniana con coerenza (Ero considerato un sognatore e ancora peggio) in mutazione sulla direttrice che approssima il naturalismo simbolico della prima stagione all'ampio afflato spirituale segno distintivo della maturità, in riferimento alla quale le tecniche - d'efficacia genericamente realistica, in un primo tempo, nei modi di un personale approccio alla pratica divisionista, in seguito (Prima una tinta di terra rossa piuttosto liquida, perché il bianco della tela non lo sopporto. Indi, traccio le linee fondamentali dell'idea. Poi pennellate sottili, secche e grasse, lasciando spazi da riempire coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciocché il dipinto rimanga 'fuso') - stanno come il mezzo estrinseco approntato al fine d'illustrare il medesimo scopo profondo: l'indissolubilità che lega l'uomo - nel bene e nel male - ai cicli eterni dell'ordo rerum i quali, nella loro innocente indifferenza ridisegnano all'infinito i limiti entro cui la Vita facendo dono di sé a se stessa, in virtù della circolare necessità del binomio esistenza/morte, si sacralizza, ribadendo, in parallelo ma nella stessa sfera ideale, la prossimità con un altro tema centrale dell'indagine del pittore trentino, quello del ruolo costante della sembianza muliebre, Madre e Albero della Vita o, per converso, creatura insidiosa perché latrice di una sessualità consapevole e libera, quindi vittima potenziale di fuorvianti tentazioni. 



Rovello estremo, questo, che emerge, ad esempio, tra suggestioni preraffaellite, richiami a simbologie arcaiche e modernissime crudeltà plastiche, nello strepitoso (e duplice, poiché rielaborato in momenti diversi) strazio de "Le cattive madri" (1894 e 1897) e de "Il castigo delle lussuriose" (1891 e 1897) - la femmina intrappolata per i capelli ad un attorto tronco di betulla e i corpi levitanti in una maligna sospensione bluastra, restano rappresentazioni tanto inquietanti quanto presaghe (L'artista deve volgersi verso l'avvenire preconizzandolo) di straordinaria potenza carnale-allegorica - ancor oggi in grado di farsi largo come testimoni di una condizione irrisolta e dolorosa (e ciò la dice lunga sull'oblio insensato che vieppiù avvolge un'esperienza come quella di Segantini), nella foggia scostante eppur ferma di un terribile fenomeno futuro, attraverso la cieca follia di questi nostri giorni feroci e soddisfatti - così ostili all'armonia, alla grazia, alla compassione, all'irrequietezza rivelatrice - degni detriti di un tempo vano illusoriamente a riparo tra le membra esauste di una Civiltà incurante persino del proprio avanzato stato di decomposizione.
TFK


Presso Spazio Oberdan Milano dall’8 luglio al 2 agosto 2016 a cura di Fondazione Cineteca 


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