Arthur e la vendetta di Maltazard
( Arthur et la vengeance de Maltazard )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Luc Besson
CAST: Freddie Highmore, Mia Farrow, Jimmy Fallon, Snoop Dogg, Asa Butterfield, Robert Stanton, Lou Reed, Logan Mille
Hachiko, una storia d'amore
( Hachiko: A Dog's Story )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Lasse Hallström
CAST: Richard Gere, Joan Allen, Jason Alexander, Cary-Hiroyuki Tagawa, Erick Avari, Davenia McFadden
giovedì, dicembre 31, 2009
Film in sala dal 1 gennaio 2010
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film in uscita 2010
mercoledì, dicembre 30, 2009
L'USSARO SUL TETTO
L'USSARO SUL TETTO
di JP RAPPENEAU
Un amore impossibile e gli ideali di libertà che attraversarono l'Italia pre risorgimentale sono i motivi dominanti de L'Ussaro sul tetto, film di JP Rappeneau che racconta le avventure di Angelo Pardi, diviso tra la passione civile per la patria violata ed il sentimento per la nobildonna che sta scortando alla volta del marito.
Siccome il protagonista è inseguito da emissari del governo austriaco intenzionati ad impedirne il rientro in Italia ed il morbo della peste imperversa nelle campagne provenzali, la missione del giovane ufficiale si carica fin da subito di tutte le caratteristiche (sprezzo del pericolo, slancio gratuito, ricerca del bel gesto) che hanno reso famose la figura dell’eroe romantico.
Come fosse un pittore impressionista Rappeneau non si limita a replicare il dinamismo e le divertite guasconierie dei film di cappa e spada, di cui soprattutto nella prima parte, quella in cui il personaggio si destreggia con abilità felina tra i tetti della cittadina guadagnandosi l’epiteto del titolo, il film è pieno, ma utilizza le suggestioni del Midì francese per costruire l’afflato amoroso tra i due viaggiatori.
Così facendo immerge la storia negli spazi aperti della Francia Meridionale (dimensione che segnò uno dei segni principali del movimento pittorico transalpino) e ne declina i vari passaggi accostando ai sentimenti dei personaggi l’equivalente ambientale: la foresta con i suoi recessi diventa il simbolo di una diffidenza dovuta più alla morale che all’istinto mentre via via che la vicenda procede e la forzata indifferenza lascia il posto ad un evidente attrazione, ecco che la natura cambia completamente registro, aprendosi agli orizzonti sconfinati delle grandi pianure che precedono le alpi.
In tale panorama Rappeneau alterna scene di massa, con la paura del contaggio che diventa più mortifera della stessa malattia, a momenti di intimità, in cui Angelo e Pauline, trasfigurati nella cornice che li accoglie, diventano il simbolo di un amore che nulla trattiene e che perciò è destinato a non sfiorire. Una dimensione fuori dal tempo che però non dimentica ma anzi integra in maniera naturale l’amor di patria, chiamato in causa da Angelo nel tentativo di sottrarsi ad un legame che disonorerebbe Pauline, e che la donna, anche lei al femminile, anche lei in pericolo, finisce per incarnare. Tratto dall’omonimo romanzo di Jean Giono, che traspone nella vicenda molti riferimenti autobiografici (Manosque non è solo la metà del periglioso viaggio ma anche il paese dove è nato lo scrittore, così come sono Piemontesi le sue origini), L’Ussaro sul Tetto è una coproduzione internazionale che si avvale di un cast tecnico di prima scelta, tra cui basterebbe ricordare Tierry Arbogast con la sua fotografia dai forti richiami pittorici (nelle scene di varia mondanità è evidente il richiamo a Pierre Auguste Renoir) e la costumista Franca Squarciapino gia' vincitrice di un Oscar per "Cyrano de Bergerac", ma il film non potrebbe essere lo stesso senza l’alchimia di due attori in stato di grazia: Juliette Binoche perfetta nel conferire al suo personaggio un erotismo trattenuto eppure evidente mentre Olivier Maritnez, qui al suo esordio nel grande cinema è un mix di sensibilità e destrezza fisica all’altezza dei modelli che ispirano il suo personaggio. A riprova che a volte i film influenzano la vita, la coppia in questione si sarebbe veramente innamorata e di lì a poco sarebbe divenuta una delle coppie più invidiate del cinema francese.
di JP RAPPENEAU
Un amore impossibile e gli ideali di libertà che attraversarono l'Italia pre risorgimentale sono i motivi dominanti de L'Ussaro sul tetto, film di JP Rappeneau che racconta le avventure di Angelo Pardi, diviso tra la passione civile per la patria violata ed il sentimento per la nobildonna che sta scortando alla volta del marito.
Siccome il protagonista è inseguito da emissari del governo austriaco intenzionati ad impedirne il rientro in Italia ed il morbo della peste imperversa nelle campagne provenzali, la missione del giovane ufficiale si carica fin da subito di tutte le caratteristiche (sprezzo del pericolo, slancio gratuito, ricerca del bel gesto) che hanno reso famose la figura dell’eroe romantico.
Come fosse un pittore impressionista Rappeneau non si limita a replicare il dinamismo e le divertite guasconierie dei film di cappa e spada, di cui soprattutto nella prima parte, quella in cui il personaggio si destreggia con abilità felina tra i tetti della cittadina guadagnandosi l’epiteto del titolo, il film è pieno, ma utilizza le suggestioni del Midì francese per costruire l’afflato amoroso tra i due viaggiatori.
Così facendo immerge la storia negli spazi aperti della Francia Meridionale (dimensione che segnò uno dei segni principali del movimento pittorico transalpino) e ne declina i vari passaggi accostando ai sentimenti dei personaggi l’equivalente ambientale: la foresta con i suoi recessi diventa il simbolo di una diffidenza dovuta più alla morale che all’istinto mentre via via che la vicenda procede e la forzata indifferenza lascia il posto ad un evidente attrazione, ecco che la natura cambia completamente registro, aprendosi agli orizzonti sconfinati delle grandi pianure che precedono le alpi.
In tale panorama Rappeneau alterna scene di massa, con la paura del contaggio che diventa più mortifera della stessa malattia, a momenti di intimità, in cui Angelo e Pauline, trasfigurati nella cornice che li accoglie, diventano il simbolo di un amore che nulla trattiene e che perciò è destinato a non sfiorire. Una dimensione fuori dal tempo che però non dimentica ma anzi integra in maniera naturale l’amor di patria, chiamato in causa da Angelo nel tentativo di sottrarsi ad un legame che disonorerebbe Pauline, e che la donna, anche lei al femminile, anche lei in pericolo, finisce per incarnare. Tratto dall’omonimo romanzo di Jean Giono, che traspone nella vicenda molti riferimenti autobiografici (Manosque non è solo la metà del periglioso viaggio ma anche il paese dove è nato lo scrittore, così come sono Piemontesi le sue origini), L’Ussaro sul Tetto è una coproduzione internazionale che si avvale di un cast tecnico di prima scelta, tra cui basterebbe ricordare Tierry Arbogast con la sua fotografia dai forti richiami pittorici (nelle scene di varia mondanità è evidente il richiamo a Pierre Auguste Renoir) e la costumista Franca Squarciapino gia' vincitrice di un Oscar per "Cyrano de Bergerac", ma il film non potrebbe essere lo stesso senza l’alchimia di due attori in stato di grazia: Juliette Binoche perfetta nel conferire al suo personaggio un erotismo trattenuto eppure evidente mentre Olivier Maritnez, qui al suo esordio nel grande cinema è un mix di sensibilità e destrezza fisica all’altezza dei modelli che ispirano il suo personaggio. A riprova che a volte i film influenzano la vita, la coppia in questione si sarebbe veramente innamorata e di lì a poco sarebbe divenuta una delle coppie più invidiate del cinema francese.
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recensioni
lunedì, dicembre 28, 2009
La Sentinelle
La Sentinelle (1992)
Directed by Arnaud Desplechin
Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.
Per il suo primo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all'interno del genere utilizzando i codici del 'Crime Movie' a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un 'nido di vipere' all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai 'Patti di Yalta' (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall'altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera).
Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno.
Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente 'La vie des morts', mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l'inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una 'Comune' in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere prime ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger).
Directed by Arnaud Desplechin
Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.
Per il suo primo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all'interno del genere utilizzando i codici del 'Crime Movie' a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un 'nido di vipere' all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai 'Patti di Yalta' (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall'altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera).
Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno.
Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente 'La vie des morts', mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l'inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una 'Comune' in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere prime ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger).
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anteprime,
recensioni
mercoledì, dicembre 23, 2009
Film in sala da venerdi' 25 dicembre
Amelia
( Amelia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mira Nair
Brothers
( Brothers )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jim Sheridan
Piovono polpette
( Cloudy with a Chance of Meatballs )
GENERE: Animazione, Commedia, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Phil Lord, Chris Miller (XIX)
Sherlock Holmes
( Sherlock Holmes )
GENERE: Giallo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, USA
REGIA: Guy Ritchie
BUON NATALE A TUTTI!
( Amelia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mira Nair
Brothers
( Brothers )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jim Sheridan
Piovono polpette
( Cloudy with a Chance of Meatballs )
GENERE: Animazione, Commedia, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Phil Lord, Chris Miller (XIX)
Sherlock Holmes
( Sherlock Holmes )
GENERE: Giallo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, USA
REGIA: Guy Ritchie
BUON NATALE A TUTTI!
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film in uscita 2009
lunedì, dicembre 21, 2009
BROTHERS
BROTHERS
La complessità dei legami familiari sullo sfondo della guerra Afghana e' il tema principale di un film che replica, semplificandola, la versione danese di un opera ('Non desiderare la donna d’altri' di Susan Blier) per molti versi legata a situazioni rintracciabili all’interno della scrittura religiosa.
A partire dalle sequenze iniziali, in cui la vicenda del 'figliol prodigo' è riproposta con i buoni propositi di Jack uscito di prigione ed intenzionato a ricominciare una nuova vita, il film procede portandosi dietro un senso di 'pietas' verso protagonisti coinvolti in una vicenda più grande di loro e poi ancora facendo procedere la storia come una parabola in cui le 'colpe' sono il viatico per il perdono finale.
Dopo un prologo introduttivo in cui la conoscenza delle dinamiche familiari ci permette di vedere i suoi membri riuniti attorno alla figura di un padre ingombrante e con i due fratelli uniti da un legame che va oltre la semplice parentela, il film sgretola quell’unione dividendosi tra l’asprezza del paesaggio afghano dove Sam (Tobey Maguire) guida la sua unità attraverso le insidie talebane, e le atmosfere sospese della cittadina americana in cui la presenza/assenza di chi è partito condiziona le scelte di chi è rimasto.
A differenza del suo predecessore Sheridan sceglie di seguire le due vicende in parallelo, eliminando i flash back e rafforzando con un montaggio alternato la vicinanza psicologica dei protagonisti.
E’questo il momento migliore del film, quello in cui il regista non si limita a sfruttare la bravura degli attori, ma lavorando sulle immagini riesce ad unire senza soluzione di continuità il deragliamento di Jack, catturato dai guerriglieri Talibani e costretto a commettere un azione indicibile, ed il lento ma progressivo ritorno alla vita del fratello (Tommy interpretato da Jake Gyllenhaal), diviso tra le responsabilità di chi deve meritarsi il privilegio di essere rimasto e l’attrazione verso la moglie del militare (Grace impersonata da una grande Natalie Portman).
Sheridan lavora di sottrazione privilegiando i non detti e lasciando che siano le atmosfere a conferire forza alle azioni dei protagonisti.
D’altro canto, forse perché 'il remake' ha la sua ragione di essere in un pubblico americano generalmente sessuofobo ed abituato ai lieto fine, Sheridan trasforma la relazione extraconiugale in un 'bacio rubato' e modifica un finale che pur nella sua drammaticità, lascia un pò di speranza dopo tanta sofferenza.
Ben recitato da un gruppo di attori in cerca di conferme, 'Brothers' dimostra ancora una volta l'inutilità del cinema clonato, se è vero che in presenza dell’originale anche un' opera come questa, sincera e ben realizzata, lascia una sensazione di superfluo difficilmente cancellabile.
La complessità dei legami familiari sullo sfondo della guerra Afghana e' il tema principale di un film che replica, semplificandola, la versione danese di un opera ('Non desiderare la donna d’altri' di Susan Blier) per molti versi legata a situazioni rintracciabili all’interno della scrittura religiosa.
A partire dalle sequenze iniziali, in cui la vicenda del 'figliol prodigo' è riproposta con i buoni propositi di Jack uscito di prigione ed intenzionato a ricominciare una nuova vita, il film procede portandosi dietro un senso di 'pietas' verso protagonisti coinvolti in una vicenda più grande di loro e poi ancora facendo procedere la storia come una parabola in cui le 'colpe' sono il viatico per il perdono finale.
Dopo un prologo introduttivo in cui la conoscenza delle dinamiche familiari ci permette di vedere i suoi membri riuniti attorno alla figura di un padre ingombrante e con i due fratelli uniti da un legame che va oltre la semplice parentela, il film sgretola quell’unione dividendosi tra l’asprezza del paesaggio afghano dove Sam (Tobey Maguire) guida la sua unità attraverso le insidie talebane, e le atmosfere sospese della cittadina americana in cui la presenza/assenza di chi è partito condiziona le scelte di chi è rimasto.
A differenza del suo predecessore Sheridan sceglie di seguire le due vicende in parallelo, eliminando i flash back e rafforzando con un montaggio alternato la vicinanza psicologica dei protagonisti.
E’questo il momento migliore del film, quello in cui il regista non si limita a sfruttare la bravura degli attori, ma lavorando sulle immagini riesce ad unire senza soluzione di continuità il deragliamento di Jack, catturato dai guerriglieri Talibani e costretto a commettere un azione indicibile, ed il lento ma progressivo ritorno alla vita del fratello (Tommy interpretato da Jake Gyllenhaal), diviso tra le responsabilità di chi deve meritarsi il privilegio di essere rimasto e l’attrazione verso la moglie del militare (Grace impersonata da una grande Natalie Portman).
Sheridan lavora di sottrazione privilegiando i non detti e lasciando che siano le atmosfere a conferire forza alle azioni dei protagonisti.
D’altro canto, forse perché 'il remake' ha la sua ragione di essere in un pubblico americano generalmente sessuofobo ed abituato ai lieto fine, Sheridan trasforma la relazione extraconiugale in un 'bacio rubato' e modifica un finale che pur nella sua drammaticità, lascia un pò di speranza dopo tanta sofferenza.
Ben recitato da un gruppo di attori in cerca di conferme, 'Brothers' dimostra ancora una volta l'inutilità del cinema clonato, se è vero che in presenza dell’originale anche un' opera come questa, sincera e ben realizzata, lascia una sensazione di superfluo difficilmente cancellabile.
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anteprime,
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giovedì, dicembre 17, 2009
Film in sala dal 18 dicembre
Astro Boy
( Astro Boy )
GENERE: Animazione, Azione, Fantascienza
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Hong Kong, Giappone, USA
REGIA: David Bowers
Il canto delle spose
( Le chant des mariées )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Karin Albou
Io & Marilyn
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Leonardo Pieraccioni
La Principessa e il Ranocchio
( The Princess and the Frog )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ron Clements, John Musker
Natale a Beverly Hills
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Neri Parenti
( Astro Boy )
GENERE: Animazione, Azione, Fantascienza
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Hong Kong, Giappone, USA
REGIA: David Bowers
Il canto delle spose
( Le chant des mariées )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Karin Albou
Io & Marilyn
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Leonardo Pieraccioni
La Principessa e il Ranocchio
( The Princess and the Frog )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ron Clements, John Musker
Natale a Beverly Hills
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Neri Parenti
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 16, 2009
NEW MOON
New Moon
Ancora storditi dal clamore suscitato dalla prima apparizione, ed impegnati nel tentativo di rendere giustizia alle qualità cinematografiche del primo capitolo della saga ( opera seminale o fenomeno di costume), 'Twilight' gioca d’anticipo, e satura il mercato con un secondo capitolo, che, se non aggiunge nulla rispetto a quanto già visto in precedenza, almeno aiuta a capire qualcosa di più a proposito degli eroi che ne hanno decretato il successo. Se infatti New Moon non fa un passi in avanti rispetto all’evoluzione della storia, a meno che non si voglia prendere sul serio l'espediente che fa scomparire per gran parte del film il protagonista principale, permettendo a Bella di tormentarsi per quasi due ore sulle differenze tra l’amore ed amicizia, dal punto di vista fenomenologico il film lascia ampio spazio all'approfondimento dei caratteri, rivelando cosa si nascondeva dietro ai silenzi siderali ed ai comportamenti trattenuti del primo episodio: dopo la visione del film verrebbe voglia di riprendere l’antico adagio è decretare 'sotto il vestito niente', ma per motivi di principio, o forse perché, fino a prova contraria, crediamo sempre alla buona fede delle persone, proviamo ad argomentare, dicendo che il quadro psicologico ed emotivo dei protagonisti spazia tra un anaffettività appena giustificata dai rimorsi di coscienza (nel caso di Bella bisognerebbe parlare di vere e proprie allucinazioni) ed un atavica indecisione, che gli autori vorrebbero rivestire con i canoni di un dolente romanticismo, molto vicino a quello che affliggeva il Werther goethiano, ed invece finiscono per banalizzare con un narcisismo che, soprattutto sul versante maschile, sembra essersi definitivamente appropriato di un estetismo che non è più esclusivamente femminile, ma anzi, dovendo giudicare dallo stile di Bella, jeans e maglietta sempre indossati e mai un centimetro di pelle scoperta, a differenza dei suoi innamorati, sempre pronti ad esibire ogni centimetro del proprio fisico, è diventata la prerogativa principale di quello maschile. Lungi dall’essere motivo d’unione, la bellezza in tutte le sue sfaccettature (Androgino/Bella, Effeminato/Edward, Virile/Jacob) diventa nell’impossibilità di soddisfare il piacere, il volano di un dolore che isola e rende infelici. E se è vero che lo spettatore ama ricoscersi nei personaggi di finzione, dovremo credere che l’importanza di film come 'New Moon' consista soprattutto nella capacità di indicare 'a che punto è la notte' e qual è la direzione verso cui stiamo andando: il cinema come opera d’arte cede il passo alla sociologia, diventando la cartina di tornasole di una gioventù in bilico tra un inaspettato conformismo (il matrimonio sembra essere uno dei punti di arrivo dell’intera saga) ed un erotismo che sfiora l’indicibile -dal punto di vista anagrafico l’unione tra Edward e Bella sarebbe improponibile, mentre è altrettanto chiara la tendenza promiscua della protagonista attratta da entrambi i suoi pretendenti- e che per questo può essere solo pensato. Ma senza scomodare il relativismo dilagante e confortati dall’annuncio di altri due capitoli della saga vampiresca, il primo dei quali diretto da David Slade (30 giorni di buio), uno specialista del genere, ci sentiamo di affermare che i conti vanno fatti solo alla fine e che il film in questione potrebbe rappresentare nella sua inconsistenza, il cavallo di ritorno di un successo inaspettato e forse non ancora digerito.
venerdì, dicembre 11, 2009
ITALIA '70 - La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975) (puntata 14)
La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975)
Regia di Fernando Di Leo
Con Luc Merenda, Irina Maleeva, James Mason, Marino Mase', Daniele Dublino, Vittorio Caprioli, Valentina Cortese
TRAMA: Assieme al figlio del ricco costruttore Filippini viene rapito anche quello del meccanico Colella.
IL FILM: Alcuni banditi, rapiscono il piccolo Antonio Filippini, figlio di un ricco ingegnere e il suo amichetto Fabrizio Colella, orfano di madre, il cui padre e' un modesto meccanico.
Trattando con la segretaria dell'ingegnere i rapitori chiedono per il riscatto di Antonio, dieci miliardi.
L'ingegnere Filippini (J. Mason) tenta di abbassare le loro pretese tirando le trattative per le lunghe.
Per costringerlo a pagare, i malviventi uccidono il piccolo Fabrizio.
Vista l' impotenza della polizia, il meccanico Colella (L. Merenda) decide di agire in prima persona.
Il meccanico si scatena, annebbiato dalla sete di vendetta fino a giungere alla resa dei conti che avrà luogo in un luna park.
COMMENTO: Il poliziottesco secondo il maestro Fernando Di Leo.
Film dichiaratamente di sinistra con il disincantato commissario interpretato da Vittorio Caprioli alter ego del regista foggiano.
Il film affronta il tema dei sequestri di persona, a cui ovviamente DI LEO da un'impronta particolare, trasformandolo in un western metropolitano.
Il film è molto politico, con il regista che non esita a descrivere il facoltoso industriale come un uomo dal cuore di pietra che si rivolta con voluttà porcina nei suoi denari, esaltando al contempo la figura del proletario vendicatore.
Fernando Di Leo sembra essere particolarmente interessato alla prima parte del film, utilizzata per tracciare la psicologia dei personaggi, mentre la seconda parte è dedicata quasi esclusivamente all'azione.
CURIOSITA'-NOTIZIE: Indimenticabile la risposta pronunciata da Vittorio Caprioli all'assistente che invoca leggi più dure contro i sequestratori: " E se in questa nostra bella Italia non ci fosse più nessuno che se ne andasse in giro con una disponibilità di dieci miliardi, cosi, da un giorno all'altro, come se fossero noccioline, anche in questo caso i sequestri finirebbero".
Incasso che superò gli 800 milioni di lire.
Regia di Fernando Di Leo
Con Luc Merenda, Irina Maleeva, James Mason, Marino Mase', Daniele Dublino, Vittorio Caprioli, Valentina Cortese
TRAMA: Assieme al figlio del ricco costruttore Filippini viene rapito anche quello del meccanico Colella.
IL FILM: Alcuni banditi, rapiscono il piccolo Antonio Filippini, figlio di un ricco ingegnere e il suo amichetto Fabrizio Colella, orfano di madre, il cui padre e' un modesto meccanico.
Trattando con la segretaria dell'ingegnere i rapitori chiedono per il riscatto di Antonio, dieci miliardi.
L'ingegnere Filippini (J. Mason) tenta di abbassare le loro pretese tirando le trattative per le lunghe.
Per costringerlo a pagare, i malviventi uccidono il piccolo Fabrizio.
Vista l' impotenza della polizia, il meccanico Colella (L. Merenda) decide di agire in prima persona.
Il meccanico si scatena, annebbiato dalla sete di vendetta fino a giungere alla resa dei conti che avrà luogo in un luna park.
COMMENTO: Il poliziottesco secondo il maestro Fernando Di Leo.
Film dichiaratamente di sinistra con il disincantato commissario interpretato da Vittorio Caprioli alter ego del regista foggiano.
Il film affronta il tema dei sequestri di persona, a cui ovviamente DI LEO da un'impronta particolare, trasformandolo in un western metropolitano.
Il film è molto politico, con il regista che non esita a descrivere il facoltoso industriale come un uomo dal cuore di pietra che si rivolta con voluttà porcina nei suoi denari, esaltando al contempo la figura del proletario vendicatore.
Fernando Di Leo sembra essere particolarmente interessato alla prima parte del film, utilizzata per tracciare la psicologia dei personaggi, mentre la seconda parte è dedicata quasi esclusivamente all'azione.
CURIOSITA'-NOTIZIE: Indimenticabile la risposta pronunciata da Vittorio Caprioli all'assistente che invoca leggi più dure contro i sequestratori: " E se in questa nostra bella Italia non ci fosse più nessuno che se ne andasse in giro con una disponibilità di dieci miliardi, cosi, da un giorno all'altro, come se fossero noccioline, anche in questo caso i sequestri finirebbero".
Incasso che superò gli 800 milioni di lire.
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Italia '70 - Il cinema a mano armata,
registi
giovedì, dicembre 10, 2009
Film in sala dal 11 dicembre
Dieci inverni
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Mieli
Jennifer's Body
( Jennifer's Body )
GENERE: Commedia, Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Karyn Kusama
Land of the Lost
( Land of the Lost )
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Brad Silberling
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Welcome
( Welcome )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Philippe Lioret
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Mieli
Jennifer's Body
( Jennifer's Body )
GENERE: Commedia, Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Karyn Kusama
Land of the Lost
( Land of the Lost )
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Brad Silberling
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Welcome
( Welcome )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Philippe Lioret
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 09, 2009
A SERIOUS MAN
A SERIOUS MAN
di J. & E. Cohen
Minnesota, 1967, Larry Gopnik (M. Stuhlbarg) è un ebreo laborioso, serio e onesto che insegna Fisica.
Larry non ha grandi pretese, desidera esclusivamente una vita tranquilla per sè e la sua famiglia, ma deve fare i conti con una serie infinita di problemi.
La moglie (S. Lennick) ha una relazione con un altro uomo (F. Melamed) e praticamente costringe Larry a trasferirsi in un Motel insieme al fratello disoccupato e malato; il figlio Danny (A. Wolff) è un adolescente che passa le sue giornate ad imbottirsi di canne ascoltando Somebody to Love dei Jefferson Airplane; la figlia maggiore pare non avere altri interessi che lavarsi continuamente i capelli.
Come se non bastasse, il povero Larry, dopo aver rifiutato di farsi corrompere da un alunno si ritrova ad essere ricattato.
A turbare ulteriormente l'esistenza del pacifico professore c'è anche la bellissima vicina di casa che ama farsi guardare mentre prende il sole completamente nuda.
Per cercare conforto e consigli, Larry si rivolge ai rabbini più importanti della comunità, non trovando nella saggezza rabbinica nè risposte, nè adeguate soluzioni.
I fratelli Coen dispensano crudeltà a piene mani in questo nuovo capitolo della loro variegata cinematografia, catapultando un uomo semplice e senza eccessive ambizioni nel più meschino dei mondi (il nostro) possibili.
A fare da sfondo alla storia di A SERIOUS MAN, c'è la comunità ebraica, che i Coen non esitano a criticare, ironizzando ferocemente sulla figura del Rabbino, che viene spesso dipinto come inadeguato al ruolo, indottrinato con frasi fatte, poco avvezzo a confrontarsi con la vita reale.
L'amara ironia dei Coen si abbatte anche sulla lobby degli avvocati ebrei che dietro la loro amabile disponibilità celano parcelle da capogiro, sintomo inequivocabile della loro avidità.
A SERIOUS MAN è una commedia amarissima tratteggiata con sapienza che non sfocia mai in una situazione esplicitamente comica o quantomeno divertente, ma che fa dell'ironia l'arma per scardinare le certezze di un uomo e di una intera comunità.
Il contesto Yiddish non deve indurre lo spettatore ad attendersi freddure o battute alla Woody Allen, da sempre molto aderente alle esigenze del pubblico europeo, che usa il cinismo e il disincanto come ariete per indurre alla risata facile, puntando sulla scarsa conoscenza e il qualunquismo che circonda le comunità ebraiche, in A SERIOUS MAN si punta molto più in alto.
I due registi colpiscono dall'interno, conoscendo perfettamente i punti sensibili.
I fratelli Coen confezionano il loro film miscelando humor nero e spiazzante cinismo, ottenendo grandi risultati e regolando qualche conto in sospeso con le proprie radici.
Ottimo il prologo di ambientazione polacca al pari del finale crudele e liberatorio.
di J. & E. Cohen
Minnesota, 1967, Larry Gopnik (M. Stuhlbarg) è un ebreo laborioso, serio e onesto che insegna Fisica.
Larry non ha grandi pretese, desidera esclusivamente una vita tranquilla per sè e la sua famiglia, ma deve fare i conti con una serie infinita di problemi.
La moglie (S. Lennick) ha una relazione con un altro uomo (F. Melamed) e praticamente costringe Larry a trasferirsi in un Motel insieme al fratello disoccupato e malato; il figlio Danny (A. Wolff) è un adolescente che passa le sue giornate ad imbottirsi di canne ascoltando Somebody to Love dei Jefferson Airplane; la figlia maggiore pare non avere altri interessi che lavarsi continuamente i capelli.
Come se non bastasse, il povero Larry, dopo aver rifiutato di farsi corrompere da un alunno si ritrova ad essere ricattato.
A turbare ulteriormente l'esistenza del pacifico professore c'è anche la bellissima vicina di casa che ama farsi guardare mentre prende il sole completamente nuda.
Per cercare conforto e consigli, Larry si rivolge ai rabbini più importanti della comunità, non trovando nella saggezza rabbinica nè risposte, nè adeguate soluzioni.
I fratelli Coen dispensano crudeltà a piene mani in questo nuovo capitolo della loro variegata cinematografia, catapultando un uomo semplice e senza eccessive ambizioni nel più meschino dei mondi (il nostro) possibili.
A fare da sfondo alla storia di A SERIOUS MAN, c'è la comunità ebraica, che i Coen non esitano a criticare, ironizzando ferocemente sulla figura del Rabbino, che viene spesso dipinto come inadeguato al ruolo, indottrinato con frasi fatte, poco avvezzo a confrontarsi con la vita reale.
L'amara ironia dei Coen si abbatte anche sulla lobby degli avvocati ebrei che dietro la loro amabile disponibilità celano parcelle da capogiro, sintomo inequivocabile della loro avidità.
A SERIOUS MAN è una commedia amarissima tratteggiata con sapienza che non sfocia mai in una situazione esplicitamente comica o quantomeno divertente, ma che fa dell'ironia l'arma per scardinare le certezze di un uomo e di una intera comunità.
Il contesto Yiddish non deve indurre lo spettatore ad attendersi freddure o battute alla Woody Allen, da sempre molto aderente alle esigenze del pubblico europeo, che usa il cinismo e il disincanto come ariete per indurre alla risata facile, puntando sulla scarsa conoscenza e il qualunquismo che circonda le comunità ebraiche, in A SERIOUS MAN si punta molto più in alto.
I due registi colpiscono dall'interno, conoscendo perfettamente i punti sensibili.
I fratelli Coen confezionano il loro film miscelando humor nero e spiazzante cinismo, ottenendo grandi risultati e regolando qualche conto in sospeso con le proprie radici.
Ottimo il prologo di ambientazione polacca al pari del finale crudele e liberatorio.
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recensioni
Nel paese delle creature selvagge
Nel paese delle creature selvagge
di Spike Jonze
Dopo aver portato sullo schermo nevrosi e sceneggiature di un tipo come Charlie Kaufmann, che già il nome sembra definire dentro dimensioni di tipo kafkiano e che invece questa volta non c’entra niente con il nostro, Spike Jonze volge il suo sguardo al mondo dell’infanzia filmando il libro illustrato di Maurice Sendak, e per farlo, decide di rimanere il più attaccato alla realtà, realizzando le creature che danno il titolo al film ed il mondo che ruota attorno a loro, riducendo al massimo l'apparato tecnologico, a favore di uno spettacolo in cui la meraviglia deriva dalla percezione che il corto circuito tra il mondo reale, rappresentato dal bambino, e quello immaginario, popolato dalle creature selvagge, non sia il frutto di un assemblaggio virtuale ma esista veramente in qualche parte del pianeta.
Abbandonandosi alla bellezza delle immagini, illuminate da uno specialista delle luci naturali come Lance Acord, capace di trasformare l'isola in cui si svolge il film in una terra di mezzo, e dopo essersi abituati alla consistenza materica dei mostri, costruiti addosso ad attori in carne ossa che ne assicuravano il movimento, non si fa fatica ad entrare all'interno della storia dimenticandosi della finzione scenica.
Dopo uno splendido inizio, in cui le difficoltà del bambino nel rapportarsi con il mondo degli adulti sono rese con un montaggio emotivo, il film si appesantisce quando deve raccontare l’anarchia di una mente che esorcizza le proprie paure diventando il deus ex machina di un mondo, in cui le esperienze pregresse vengono rielaborate attraverso un modello familiare che ripete, enfatizzandole nella morfologia primordiale delle creature selvagge, le dinamiche relazionali del mondo reale.
I comportamenti sconclusionati e le espressioni a metà tra il serio ed il faceto riempiono lo schermo interromponendo momenti di pausa interminabili, in cui il piccolo fuggiasco metabolizza gli insegnamenti di un esperienza fuori dal normale.
Ed è proprio la delicatezza del giovane interprete, capace di sottolineare con la spontaneità tipica dell’età i vari passaggi della storia, a salvare, almeno in parte un opera che non riesce a bissare sul piano dell’interesse le indubbie qualità della forma.
di Spike Jonze
Dopo aver portato sullo schermo nevrosi e sceneggiature di un tipo come Charlie Kaufmann, che già il nome sembra definire dentro dimensioni di tipo kafkiano e che invece questa volta non c’entra niente con il nostro, Spike Jonze volge il suo sguardo al mondo dell’infanzia filmando il libro illustrato di Maurice Sendak, e per farlo, decide di rimanere il più attaccato alla realtà, realizzando le creature che danno il titolo al film ed il mondo che ruota attorno a loro, riducendo al massimo l'apparato tecnologico, a favore di uno spettacolo in cui la meraviglia deriva dalla percezione che il corto circuito tra il mondo reale, rappresentato dal bambino, e quello immaginario, popolato dalle creature selvagge, non sia il frutto di un assemblaggio virtuale ma esista veramente in qualche parte del pianeta.
Abbandonandosi alla bellezza delle immagini, illuminate da uno specialista delle luci naturali come Lance Acord, capace di trasformare l'isola in cui si svolge il film in una terra di mezzo, e dopo essersi abituati alla consistenza materica dei mostri, costruiti addosso ad attori in carne ossa che ne assicuravano il movimento, non si fa fatica ad entrare all'interno della storia dimenticandosi della finzione scenica.
Dopo uno splendido inizio, in cui le difficoltà del bambino nel rapportarsi con il mondo degli adulti sono rese con un montaggio emotivo, il film si appesantisce quando deve raccontare l’anarchia di una mente che esorcizza le proprie paure diventando il deus ex machina di un mondo, in cui le esperienze pregresse vengono rielaborate attraverso un modello familiare che ripete, enfatizzandole nella morfologia primordiale delle creature selvagge, le dinamiche relazionali del mondo reale.
I comportamenti sconclusionati e le espressioni a metà tra il serio ed il faceto riempiono lo schermo interromponendo momenti di pausa interminabili, in cui il piccolo fuggiasco metabolizza gli insegnamenti di un esperienza fuori dal normale.
Ed è proprio la delicatezza del giovane interprete, capace di sottolineare con la spontaneità tipica dell’età i vari passaggi della storia, a salvare, almeno in parte un opera che non riesce a bissare sul piano dell’interesse le indubbie qualità della forma.
LOOKING FOR ERIC - Il mio amico Eric
Il segno dei tempi pare aver condizionato anche Ken Loach se è vero che persino un regista come lui, abituato ad affondare le mani nei miasmi della vita ed allergico agli artifici hollywoodiani, questa volta si affida ad un personaggio di fantasia (nel senso che Eric Cantona è una proiezione del protagonista appassionato di calcio e fan del giocatore) per dare vita ad una storia che ripropone gli stilemi del suo cinema ma li arricchisce con un immaginazione ed una leggerezza sconosciuta: se la vicenda di Eric, un postino alle prese con i problemi di una famiglia allargata e le conseguenze di un matrimonio fallito ripropone la figura di un uomo che prova ad invertire la propria parabola esistenziale e che il senso di militanza è ancora presente nella vicinanza dei colleghi di lavoro, assidui nel sostenere l’amico eternamente depresso e decisivi (in una scena di rara ilarità) quando lo stesso deciderà di reagire per le rime nei confronti di una pericolosa gang che minaccia i suoi figliastri, è altrettanto vero che gli snodi principali del film (la presa di coscienza della propria condizione, la volontà di recuperare il rapporto con la moglie che aveva abbandonato, il recupero di una dignità perduta) passano attraverso i consigli di un “uomo che non c’è”, e che lo stile, pur rimanendo attaccato al referto documentaristico mostra la volontà di affidarsi a soluzioni di certo cinema americano (l’uso del flash back e la luce d’orata nei ricordi amorosi di Erick ma anche la celerità con cui i personaggi di contorno sono pronti a prodigarsi per alleviare le pene del nostro eroe). Ma anche la decisione di affidarsi alla genuinità di un non attore che rappresenta, seppur con le stimmate del bastian contrario (una specie di Che Quevara dei campi di calcio), la quintessenza di uno sport votato al capitale e di insistere con numerosi inserti di repertorio che illustrano insieme le doti del calciatore e la passione del protagonista è una risposta a chi crede che l’impegno civile passi solo attraverso l’indignazione e la seriosità a tutti i costi. Lunga vita a Ken Loach ed ai suoi sogni di un mondo migliore.
venerdì, dicembre 04, 2009
500 days of summer
500 days of summer
di Marc Webb
Costruire l'amore/Decostruire l'amore: sono questi i presupposti che muovono l’ultimo film di Marc Webb, 500 days of summer, commedia agrodolce imperniata sulle vicende sentimentali di Tom Hansen, inguaribile romantico con la passione per l’architettura e Summer Finn, dolcemente disincantata e decisa a conservare la propria indipendenza, diversamente coinvolti in una relazione fuori dagli schemi eppure segnata dalle idiosincrasie che sempre accompagnano i favoriti da Cupido.
Scandita da un calendario immaginario che la sceneggiatura costruisce per assecondare la voce over, a cui spetta il compito di far progredire la storia ed insieme di dimostrare con andirivieni temporali l'imprevedibilità di un sentimento amoroso, da sempre costretto a declinarsi secondo i parametri del cuore ed anche del destino, la storia di Tom e Summer (che nella versione italiana si chiamerà Sole) ha un gusto vagamente retrò, non solo per la presenza di due caratteri dalla fotogenia anomala, vicina ai gusti di un pubblico che alla bellezza delle forme preferisce quella delle idee, ma anche per le soluzioni di una regia che ammicca apertamente alla New Hollywood, con la musica che diventa manifesto dello stato d’animo dei personaggi e per certe "ingenuità" che hanno caratterizzato alcuni eroi di quel periodo (palese il richiamo al "Laureato" ma anche a "Come Eravamo"), ed al movimento della Novelle Vague, presente nell'inguaribile fiducia (o follia) che permette ai personaggi di sopravvivere con malinconica leggerezza agli ostacoli del cuore.
Ed anche la trovata di invertire le predisposizioni biologiche, attribuendo ai personaggi caratteristiche e vicissitudini che appartengono al sesso opposto contribuisce ad invertire il trend di una commedia americana prevedibilmente sessista.
Purtroppo Webb non riesce a rendere spontanea la propria cinefilià ed appesantisce il film con una serie di trovate, che a cominciare dai fotogrammi che sembrano venire fuori dagli schizzi con cui Tom sfoga la sua frustrazione di architetto mancato, alla complicità con il pubblico ricercata nell’espediente degli attori che si rivolgono allo spettatore, fino ai giochetti temporali volti a pareggiare i momenti felici con quelli deprimenti, tolgono spazio all'emotività di una vicenda che dovendo rispettare l'assunto di partenza frena (per eccessivo schematismo) la performance della coppia Leavitt/Deschanel.
di Marc Webb
Costruire l'amore/Decostruire l'amore: sono questi i presupposti che muovono l’ultimo film di Marc Webb, 500 days of summer, commedia agrodolce imperniata sulle vicende sentimentali di Tom Hansen, inguaribile romantico con la passione per l’architettura e Summer Finn, dolcemente disincantata e decisa a conservare la propria indipendenza, diversamente coinvolti in una relazione fuori dagli schemi eppure segnata dalle idiosincrasie che sempre accompagnano i favoriti da Cupido.
Scandita da un calendario immaginario che la sceneggiatura costruisce per assecondare la voce over, a cui spetta il compito di far progredire la storia ed insieme di dimostrare con andirivieni temporali l'imprevedibilità di un sentimento amoroso, da sempre costretto a declinarsi secondo i parametri del cuore ed anche del destino, la storia di Tom e Summer (che nella versione italiana si chiamerà Sole) ha un gusto vagamente retrò, non solo per la presenza di due caratteri dalla fotogenia anomala, vicina ai gusti di un pubblico che alla bellezza delle forme preferisce quella delle idee, ma anche per le soluzioni di una regia che ammicca apertamente alla New Hollywood, con la musica che diventa manifesto dello stato d’animo dei personaggi e per certe "ingenuità" che hanno caratterizzato alcuni eroi di quel periodo (palese il richiamo al "Laureato" ma anche a "Come Eravamo"), ed al movimento della Novelle Vague, presente nell'inguaribile fiducia (o follia) che permette ai personaggi di sopravvivere con malinconica leggerezza agli ostacoli del cuore.
Ed anche la trovata di invertire le predisposizioni biologiche, attribuendo ai personaggi caratteristiche e vicissitudini che appartengono al sesso opposto contribuisce ad invertire il trend di una commedia americana prevedibilmente sessista.
Purtroppo Webb non riesce a rendere spontanea la propria cinefilià ed appesantisce il film con una serie di trovate, che a cominciare dai fotogrammi che sembrano venire fuori dagli schizzi con cui Tom sfoga la sua frustrazione di architetto mancato, alla complicità con il pubblico ricercata nell’espediente degli attori che si rivolgono allo spettatore, fino ai giochetti temporali volti a pareggiare i momenti felici con quelli deprimenti, tolgono spazio all'emotività di una vicenda che dovendo rispettare l'assunto di partenza frena (per eccessivo schematismo) la performance della coppia Leavitt/Deschanel.
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recensioni
giovedì, dicembre 03, 2009
Film in sala dal 4 dicembre
A Christmas Carol
( A Christmas Carol )
GENERE: Fantasy
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Zemeckis
A Serious Man
( A Serious Man )
GENERE: Commedia, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ethan Coen, Joel Coen
Ben X
( Ben X )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Belgio, Olanda
REGIA: Nic Balthazar
Il mio amico Eric
( Looking for Eric )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sportivo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia
REGIA: Ken Loach
L'isola delle coppie
( Couples Retreat )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Billingsley
L'uomo nero
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Sergio Rubini
Moon
( Moon )
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Duncan Jones
Ninja Assassin
( Ninja Assassin )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: James McTeigue
Non è ancora domani (La Pivellina)
( La Pivellina )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD:2009
NAZIONALITÀ Australia, Italia
REGIA: Tizza Covi, Rainer Frimmel
( A Christmas Carol )
GENERE: Fantasy
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Zemeckis
A Serious Man
( A Serious Man )
GENERE: Commedia, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ethan Coen, Joel Coen
Ben X
( Ben X )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Belgio, Olanda
REGIA: Nic Balthazar
Il mio amico Eric
( Looking for Eric )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sportivo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia
REGIA: Ken Loach
L'isola delle coppie
( Couples Retreat )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Billingsley
L'uomo nero
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Sergio Rubini
Moon
( Moon )
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Duncan Jones
Ninja Assassin
( Ninja Assassin )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: James McTeigue
Non è ancora domani (La Pivellina)
( La Pivellina )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD:2009
NAZIONALITÀ Australia, Italia
REGIA: Tizza Covi, Rainer Frimmel
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 02, 2009
La dura Verita'
La dura Verità
di Robert Luketic
Una commedia che guarda al passato per rinverdire una tradizione di grande cinema e due attori che cercano la definitiva consacrazione sono i motivi principali di “The Ugly Truth”, la commedia di Robert Luketic ambientata nel mondo della televisione ed incentrata sulla dialettica caratteriale che oppone una produttrice impegnata a risollevare gli indici d’ascolto del suo programma ed un conduttore sulla cresta dell’onda per il successo ottenuto dalle dissertazioni amorose dispensate nell’inserto televisivo che da il titolo al film.
"La cruda verità" diventa così lo slogan di un personaggio (Mike Chadway) che fa di tutto per apparire politicamente scorretto, a cominciare dai modi diretti ed un po’ invadenti con cui si propone allo spettatore, e che affrontano senza reticenze i problemi della coppia, oppure divertendosi a provocarne gli istinti con goliardici siparietti che possono prevedere anche evoluzioni acquatiche con la complicità di ragazze compiacenti.
continua a leggere la recensione dl film sul sito di ONDACINEMA
di Robert Luketic
Una commedia che guarda al passato per rinverdire una tradizione di grande cinema e due attori che cercano la definitiva consacrazione sono i motivi principali di “The Ugly Truth”, la commedia di Robert Luketic ambientata nel mondo della televisione ed incentrata sulla dialettica caratteriale che oppone una produttrice impegnata a risollevare gli indici d’ascolto del suo programma ed un conduttore sulla cresta dell’onda per il successo ottenuto dalle dissertazioni amorose dispensate nell’inserto televisivo che da il titolo al film.
"La cruda verità" diventa così lo slogan di un personaggio (Mike Chadway) che fa di tutto per apparire politicamente scorretto, a cominciare dai modi diretti ed un po’ invadenti con cui si propone allo spettatore, e che affrontano senza reticenze i problemi della coppia, oppure divertendosi a provocarne gli istinti con goliardici siparietti che possono prevedere anche evoluzioni acquatiche con la complicità di ragazze compiacenti.
continua a leggere la recensione dl film sul sito di ONDACINEMA
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recensioni
giovedì, novembre 26, 2009
La prima linea
Abituato a circumnavigare il cuore del problema con espedienti rafforzatisi attraverso anni di frequentazioni virtuali e biecamente sospinti verso verità che confermino gli a priori di partenza, lo spettatore assiste alla visione di 'La prima Linea' di Renato De Maria, convinto di trovarsi di fronte ad un film disposto a fare i conti con un pezzo di Storia italiana, la cui ricostruzione è stata di volta in volta complicata, e direi, ostacolata da reticenze di ordine politico ed anche psicologico. Ed è probabile che negli intenti del regista la vicenda della famigerata coppia di assassini doveva assumere un valore paradigmatico rispetto al fallimento di una generazione, che a cavallo degli anni '70 credeva di cambiare il sistema attraverso la lotta armata e senza rendersene conto, si sostituì ai carnefici che cercava di combattere: d’altronde Sergio Segio e Susanna Ronconi furono come gli altri 'compagni di lotta' il prodotto di quell'illusione sessantottina che dopo anni di amore libero e sogni lisergici si trovò ad affrontare gli altiforni delle fabbriche e le regole del capitale.
Le occupazioni e le riunioni sindacali, i cortei per protestare contro condizioni di lavoro improponibili e poi, improvvisamente l’escalation che diede il via alla stagioni delle stragi di stato: Piazza Fontana, il treno Italicus ed altri eventi luttuosi sono i segni di un imbarbarimento al quale viene fatta risalire il primo cambiamento, quello che portò molti giovani a preferire l’eversione e successivamente il terrorismo, per rispondere ad una “strategia della tensione” organizzata dallo stato, con la connivenza dei servizi segreti.
Il film parte proprio da qui, ed attraverso immagini di repertorio ricostruisce il clima politico e sociale che fa da sfondo alla vicenda.
Segio, lo racconta e si racconta dall’interno della prigione dove è stato appena tradotto, attraverso un espediente che gli permette di guardare all’intera vicenda con la disillusione di chi sa di raccontare una sconfitta senza nessuna possibilità di redenzione.
Una scansione temporale dominata dall’avvincendarsi degli eventi - l’incontro con la compagna di una vita, l’omicidio del giudice Alessandrini e quello di un membro della banda, la decisione di fuoriuscire dall’organizzazione e la liberazione della Ronconi dal - e dal solco di una colpa che diventa così profonda da offuscare le ragioni che l’hanno generata.
Un vuoto esistenziale costruito sui volti dei protagonisti, pallidi e svuotati, sui movimenti della macchina da presa, come frenati dalla mestizia che avvolge la storia, su una geografia urbana che diventa sempre più anonima e trascolora nelle forme di un paesaggio naturale privo di punti di riferimento, perfetto contraltare di una gioventù che si è smarrita.
Eppure questa compattezza finisce per saturare i motivi di un operazione che finisce per ribadire le cose di sempre e non fa un passo in avanti verso la comprensione del problema: alla condanna iniziale, chiara ed inequivocabile (e d’altronde come potrebbe essere altrimenti) non riesce a seguire un analisi sui perché di una tale degenerazione: i germi di un malessere che ha contaminato la compagine sociale, i partiti e lo stato, il filo doppio che univa le frange più estremiste ai movimenti sindacali e le ingerenze di una classe politica che sapeva più di quanto voleva lasciava intendere rimangono domande senza risposta. 'Sergio' ed i suoi compagni sembrano fare tutto da soli, schegge impazzite sfuggite al controllo e condannate dal loro stesso comportamento ad una fine già scritta. Un po’troppo poco per chiunque voglia affrontare il terrorismo e gli Anni di Piombo con la voglia di rompere il muro di omertà che circonda quegli anni ed invece si ostina a riproporre un 'Esistenzialismo' fatto di vestiti sdruciti e capelli mai lavati, di parole abbozzate e silenzi siderali.
Dopo la fantapolitica di Martinelli e le soluzioni oniriche di Bellocchio, tra film ancora inediti e progetti rimasti in nuce il cinema italiano rispetto a questo argomento è rimasto ancora fermo a 'Colpire al cuore' di Gianni Amelio che è datato 1982. Quanto dobbiamo ancora aspettare?
Le occupazioni e le riunioni sindacali, i cortei per protestare contro condizioni di lavoro improponibili e poi, improvvisamente l’escalation che diede il via alla stagioni delle stragi di stato: Piazza Fontana, il treno Italicus ed altri eventi luttuosi sono i segni di un imbarbarimento al quale viene fatta risalire il primo cambiamento, quello che portò molti giovani a preferire l’eversione e successivamente il terrorismo, per rispondere ad una “strategia della tensione” organizzata dallo stato, con la connivenza dei servizi segreti.
Il film parte proprio da qui, ed attraverso immagini di repertorio ricostruisce il clima politico e sociale che fa da sfondo alla vicenda.
Segio, lo racconta e si racconta dall’interno della prigione dove è stato appena tradotto, attraverso un espediente che gli permette di guardare all’intera vicenda con la disillusione di chi sa di raccontare una sconfitta senza nessuna possibilità di redenzione.
Una scansione temporale dominata dall’avvincendarsi degli eventi - l’incontro con la compagna di una vita, l’omicidio del giudice Alessandrini e quello di un membro della banda, la decisione di fuoriuscire dall’organizzazione e la liberazione della Ronconi dal - e dal solco di una colpa che diventa così profonda da offuscare le ragioni che l’hanno generata.
Un vuoto esistenziale costruito sui volti dei protagonisti, pallidi e svuotati, sui movimenti della macchina da presa, come frenati dalla mestizia che avvolge la storia, su una geografia urbana che diventa sempre più anonima e trascolora nelle forme di un paesaggio naturale privo di punti di riferimento, perfetto contraltare di una gioventù che si è smarrita.
Eppure questa compattezza finisce per saturare i motivi di un operazione che finisce per ribadire le cose di sempre e non fa un passo in avanti verso la comprensione del problema: alla condanna iniziale, chiara ed inequivocabile (e d’altronde come potrebbe essere altrimenti) non riesce a seguire un analisi sui perché di una tale degenerazione: i germi di un malessere che ha contaminato la compagine sociale, i partiti e lo stato, il filo doppio che univa le frange più estremiste ai movimenti sindacali e le ingerenze di una classe politica che sapeva più di quanto voleva lasciava intendere rimangono domande senza risposta. 'Sergio' ed i suoi compagni sembrano fare tutto da soli, schegge impazzite sfuggite al controllo e condannate dal loro stesso comportamento ad una fine già scritta. Un po’troppo poco per chiunque voglia affrontare il terrorismo e gli Anni di Piombo con la voglia di rompere il muro di omertà che circonda quegli anni ed invece si ostina a riproporre un 'Esistenzialismo' fatto di vestiti sdruciti e capelli mai lavati, di parole abbozzate e silenzi siderali.
Dopo la fantapolitica di Martinelli e le soluzioni oniriche di Bellocchio, tra film ancora inediti e progetti rimasti in nuce il cinema italiano rispetto a questo argomento è rimasto ancora fermo a 'Colpire al cuore' di Gianni Amelio che è datato 1982. Quanto dobbiamo ancora aspettare?
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italia,
recensioni
Film in sala dal 27 novembre
500 giorni insieme
( (500) Days of Summer )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mark Webb
Cado dalle nubi
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Gennaro Nunziante
Dorian Gray
( Dorian Gray )
GENERE: Drammatico, Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Oliver Parker
Francesca
( Francesca )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Romania
REGIA: Bobby Paunescu
La dura verità
( The Ugly Truth )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Luketic
Meno male che ci sei
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luis Prieto
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Triage
( Triage )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Belgio, Irlanda
REGIA: Danis Tanovic
( (500) Days of Summer )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mark Webb
Cado dalle nubi
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Gennaro Nunziante
Dorian Gray
( Dorian Gray )
GENERE: Drammatico, Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Oliver Parker
Francesca
( Francesca )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Romania
REGIA: Bobby Paunescu
La dura verità
( The Ugly Truth )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Luketic
Meno male che ci sei
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luis Prieto
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Triage
( Triage )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Belgio, Irlanda
REGIA: Danis Tanovic
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film in uscita 2009
mercoledì, novembre 25, 2009
Tetro - Segreti di Famiglia
Tetro - Segreti di Famiglia
di F. F. Coppola
L'acerbo e ingenuo diciottenne Bennie (un implume ed espressivo Alden Ehrenreich, molto somigliante a leonardo di caprio dei tempi di mr. grape), si reca a Buenos Aires per cercare il fratello maggiore Angel (Vincent Gallo), scomparso come nel nulla da molti anni, in fuga dalla famiglia e che ha giurato di non vedere piu' nessuno dei suoi parenti, in particolare il padre Carlo (Klaus Maria Brandauer), dalla personalità impetuosa ed ingombrante.
La loro è una famiglia di emigranti italoargentini che, a causa del lavoro del padre, acclamato direttore d'orchestra, si è trasferita a New York da molto tempo. Quando Bennie ritrova il fratello ne scopre il talento poetico e drammaturgico. Angel è ora Tetro, poeta dannato, consumato sui propri ricordi, arroccato in una rabbia primordiale che da tempo gli strizza le viscere. Tetro, un Vincent Gallo strepitoso, si nasconde da un passato che non riesce a metabolizzare scontrandosi, per assurdo, con un presente in cui non riece ad espimere completamente se stesso.
Bennie scopre che il fratello è molto diverso da come si aspettava ma decide ugualmente di vivere con lui e con la sua fidanzata Miranda (Maribel Verdú), una paziente e amorevole presenza che saprà aiutare a sciogliere i molti nodi che bloccano i due fratelli. L'arrivo di Bennie scatenerà una serie di eventi che condurranno all'insolito epilogo.
Girato quasi completamente in un bianco e nero scintillante (del magistrale romeno Mihai Malamaire jr) che scolpisce le figure in scena come un michelangelo modellerebbe il marmo, e che rende omaggio a gran parte del cinema americano anni '40 e del neorealismo italiano, Tetro, infelicemente tradotto in Italia con uno sciapo Segreti di famiglia, mette in scena l'ennesimo dramma famigliare con toni grevi e soventi eccessi di stile, circondato da uno sguardo di autocompiacimento estatico che, purtroppo, conduce Coppola al piano dell'esagerazione vacua.
Coppola solca ancora una volta il tema del conflitto tra figli e padri, della famiglia culla di successi ed incomprensioni, rivisitando senza troppe idee la tragedia famiglaire nella sua più classica delle visioni.
Se all'inizio si strizza l'occhio a Rusty il selvaggio, ben presto il film si abbandona a derive malinconiche.
Lo script offre una narrazione fluida nel complesso ma mancante di quell'originalità che avrebbe potuto dare al prodotto finale: la passione e il coinvolgimento, di cui si avverte la mancanza, non trasudano dai personaggi, dal dramma posto in essere. Tutto si consuma coi ritmi sterili ed ossessivi del rancoroso Tetro e con l'ansia della ricerca della verità del giovane Bennie, sospesi su espedienti narrativi già visti.
Coppola raggiunge la perfezione stilistica e tecnica, perdendo però colpi nello sviluppo dei personaggi e del dramma, che sulle ultime note cade ingloriosamente nel melò. Gli intrecci tra passato e presente reggono, seppure in modo posticcio, una storia il cui pretesto pare essere quello di riproporre, in uno stile felliniano, l'esposizione del ricordo e del sogno.
L'ottimo contributo degli attori, tutti molto adatti per le parti assegnate e dalla partecipazione che va oltre il definibile nel trattamento, non sembra bastarci per credere completamente in questo prodotto targato American Zoetrope e che restituisce Coppola al cinema indipendente.
Gli eisodi legati ai ricordi e ai sogni sono incastonati nella trama con sequenze a colori, dai toni caldi ed avvolgenti. La parziale elaborazione del coflitto e de lutto lasciano l'amaro senso di incompiuto in bocca. Ed il finale arriva troppo presto, pur dopo due ore di film, a risolvere in modo affrettato le faccende di famiglia.
Il cameo di Carmen Maura sembra più un omaggio al cinema che altro, come fosse una Liz Taylor oppure una Stefania Sandrelli in terra Agrgentina. Purtroppo non si discosta da questo: Alone, la produttrice/critica teatrale che interpreta, non viene sviluppata, galleggia come una zattera abbandonata nel flusso della storia.
di F. F. Coppola
L'acerbo e ingenuo diciottenne Bennie (un implume ed espressivo Alden Ehrenreich, molto somigliante a leonardo di caprio dei tempi di mr. grape), si reca a Buenos Aires per cercare il fratello maggiore Angel (Vincent Gallo), scomparso come nel nulla da molti anni, in fuga dalla famiglia e che ha giurato di non vedere piu' nessuno dei suoi parenti, in particolare il padre Carlo (Klaus Maria Brandauer), dalla personalità impetuosa ed ingombrante.
La loro è una famiglia di emigranti italoargentini che, a causa del lavoro del padre, acclamato direttore d'orchestra, si è trasferita a New York da molto tempo. Quando Bennie ritrova il fratello ne scopre il talento poetico e drammaturgico. Angel è ora Tetro, poeta dannato, consumato sui propri ricordi, arroccato in una rabbia primordiale che da tempo gli strizza le viscere. Tetro, un Vincent Gallo strepitoso, si nasconde da un passato che non riesce a metabolizzare scontrandosi, per assurdo, con un presente in cui non riece ad espimere completamente se stesso.
Bennie scopre che il fratello è molto diverso da come si aspettava ma decide ugualmente di vivere con lui e con la sua fidanzata Miranda (Maribel Verdú), una paziente e amorevole presenza che saprà aiutare a sciogliere i molti nodi che bloccano i due fratelli. L'arrivo di Bennie scatenerà una serie di eventi che condurranno all'insolito epilogo.
Girato quasi completamente in un bianco e nero scintillante (del magistrale romeno Mihai Malamaire jr) che scolpisce le figure in scena come un michelangelo modellerebbe il marmo, e che rende omaggio a gran parte del cinema americano anni '40 e del neorealismo italiano, Tetro, infelicemente tradotto in Italia con uno sciapo Segreti di famiglia, mette in scena l'ennesimo dramma famigliare con toni grevi e soventi eccessi di stile, circondato da uno sguardo di autocompiacimento estatico che, purtroppo, conduce Coppola al piano dell'esagerazione vacua.
Coppola solca ancora una volta il tema del conflitto tra figli e padri, della famiglia culla di successi ed incomprensioni, rivisitando senza troppe idee la tragedia famiglaire nella sua più classica delle visioni.
Se all'inizio si strizza l'occhio a Rusty il selvaggio, ben presto il film si abbandona a derive malinconiche.
Lo script offre una narrazione fluida nel complesso ma mancante di quell'originalità che avrebbe potuto dare al prodotto finale: la passione e il coinvolgimento, di cui si avverte la mancanza, non trasudano dai personaggi, dal dramma posto in essere. Tutto si consuma coi ritmi sterili ed ossessivi del rancoroso Tetro e con l'ansia della ricerca della verità del giovane Bennie, sospesi su espedienti narrativi già visti.
Coppola raggiunge la perfezione stilistica e tecnica, perdendo però colpi nello sviluppo dei personaggi e del dramma, che sulle ultime note cade ingloriosamente nel melò. Gli intrecci tra passato e presente reggono, seppure in modo posticcio, una storia il cui pretesto pare essere quello di riproporre, in uno stile felliniano, l'esposizione del ricordo e del sogno.
L'ottimo contributo degli attori, tutti molto adatti per le parti assegnate e dalla partecipazione che va oltre il definibile nel trattamento, non sembra bastarci per credere completamente in questo prodotto targato American Zoetrope e che restituisce Coppola al cinema indipendente.
Gli eisodi legati ai ricordi e ai sogni sono incastonati nella trama con sequenze a colori, dai toni caldi ed avvolgenti. La parziale elaborazione del coflitto e de lutto lasciano l'amaro senso di incompiuto in bocca. Ed il finale arriva troppo presto, pur dopo due ore di film, a risolvere in modo affrettato le faccende di famiglia.
Il cameo di Carmen Maura sembra più un omaggio al cinema che altro, come fosse una Liz Taylor oppure una Stefania Sandrelli in terra Agrgentina. Purtroppo non si discosta da questo: Alone, la produttrice/critica teatrale che interpreta, non viene sviluppata, galleggia come una zattera abbandonata nel flusso della storia.
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lunedì, novembre 23, 2009
Torino film festival 2009: i film premiati
Ecco la lista dei vincitori del Torino Film Festival 2009:
Miglior film
La bocca del lupo, regia di Pietro Marcello
Premio speciale della Giuria (ex aequo)
Crackie, regia di Sherry White
Guy and Madeline on a Park Bench, regia di Damien Chazelle
Miglior sceneggiatura - Premio Invito alla Scuola Holden
Calin Peter Netzer - Medalia de onoare - Medal of Honor
Miglior attore (ex aequo)
Robert Duvall - Get Low
Bill Murray - Get Low
Miglior attrice
Catalina Saavedra - La Nana - The Maid
Miglior documentario italiano
Valentina Postika in attesa di partire, regia di Caterina Carone
Italiana.DOC - Premio speciale della giuria (ex aequo)
Corde, regia di Marcello Sannino
The Cambodian Room - Situations with Antoine D'Agata, regia di Tommaso Lusena e Giuseppe Schillaci
Italiana.DOC - Menzione speciale
Je suis Simone (La condition ouvrière), regia di Fabrizio Ferraro
Premio Cult - Il cinema della realtà
Oil City Confidential, regia di Julien Temple
Premio Cipputi - Miglior film sul mondo del lavoro
Baseco Bakal Boys, regia di Ralston Jover
Premio Cult - Menzione speciale
45365, regia di Bill Ross e Turner Ross
Premio FIPRESCI
La bocca del lupo, regia di Pietro Marcello
Premio del pubblico Achille Valdata per il miglior film
Medalia de onoare - Medal of Honor, regia di Calin Peter Netzer
Premio UCCA - Venti Città
Magari le cose cambiano, regia di Andrea Segrè
Premio Maurizio Collino per il miglior film su temi giovanili
Welcome, regia di Philippe Lioret
Ringrazio molto 'cinema e viaggi'. per le preziose e tempestive info
Miglior film
La bocca del lupo, regia di Pietro Marcello
Premio speciale della Giuria (ex aequo)
Crackie, regia di Sherry White
Guy and Madeline on a Park Bench, regia di Damien Chazelle
Miglior sceneggiatura - Premio Invito alla Scuola Holden
Calin Peter Netzer - Medalia de onoare - Medal of Honor
Miglior attore (ex aequo)
Robert Duvall - Get Low
Bill Murray - Get Low
Miglior attrice
Catalina Saavedra - La Nana - The Maid
Miglior documentario italiano
Valentina Postika in attesa di partire, regia di Caterina Carone
Italiana.DOC - Premio speciale della giuria (ex aequo)
Corde, regia di Marcello Sannino
The Cambodian Room - Situations with Antoine D'Agata, regia di Tommaso Lusena e Giuseppe Schillaci
Italiana.DOC - Menzione speciale
Je suis Simone (La condition ouvrière), regia di Fabrizio Ferraro
Premio Cult - Il cinema della realtà
Oil City Confidential, regia di Julien Temple
Premio Cipputi - Miglior film sul mondo del lavoro
Baseco Bakal Boys, regia di Ralston Jover
Premio Cult - Menzione speciale
45365, regia di Bill Ross e Turner Ross
Premio FIPRESCI
La bocca del lupo, regia di Pietro Marcello
Premio del pubblico Achille Valdata per il miglior film
Medalia de onoare - Medal of Honor, regia di Calin Peter Netzer
Premio UCCA - Venti Città
Magari le cose cambiano, regia di Andrea Segrè
Premio Maurizio Collino per il miglior film su temi giovanili
Welcome, regia di Philippe Lioret
Ringrazio molto 'cinema e viaggi'. per le preziose e tempestive info
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venerdì, novembre 20, 2009
Coppola e il cinema Italiano
"Ho visto Gomorra ed è stata una brutta esperienza, è un film troppo duro, anche se molto ben recitato".
È secco il giudizio di Francis Ford Coppola, riportato dal quotidiano di informazione cinematografica on line Cinecittà News.
...
"Il Divo, che non ho visto, e Gomorra sono un po' poco per parlare di rinascita – prosegue Coppola - Specie se confrontati con i film di Rosi, Rossellini, Monicelli, Antonioni, Dino Risi e Nanni Loy. Il vostro problema sono i maschi italiani, padri che non mollano l'osso, che vogliono tutte le donne e tutta la fama per se stessi e ai figli lasciano le briciole. Per i giovani non ci sono abbastanza opportunità, anche nel cinema"
Francis Ford Coppola in questi giorni è a Torino, al 27° TFF, ospite di Gianni Amelio, per una due giorni cinematografica intensa, durante la quale ha presentato, in anteprima al pubblico italiano, la sua ultima fatica, Segreti di famiglia, già visto a Cannes 2009.
Cosa ne pensate dell'opinione di F. F. Coppola sul cinema attuale italiano?
Leggi tutto l'articolo de L'Unita' da cui ho tratto il post:
Coppola: "Gomorra è stata una brutta esperienza", di Gabriella Gallozzi, l'Unità, 19 novembre 2009.
È secco il giudizio di Francis Ford Coppola, riportato dal quotidiano di informazione cinematografica on line Cinecittà News.
...
"Il Divo, che non ho visto, e Gomorra sono un po' poco per parlare di rinascita – prosegue Coppola - Specie se confrontati con i film di Rosi, Rossellini, Monicelli, Antonioni, Dino Risi e Nanni Loy. Il vostro problema sono i maschi italiani, padri che non mollano l'osso, che vogliono tutte le donne e tutta la fama per se stessi e ai figli lasciano le briciole. Per i giovani non ci sono abbastanza opportunità, anche nel cinema"
Francis Ford Coppola in questi giorni è a Torino, al 27° TFF, ospite di Gianni Amelio, per una due giorni cinematografica intensa, durante la quale ha presentato, in anteprima al pubblico italiano, la sua ultima fatica, Segreti di famiglia, già visto a Cannes 2009.
Cosa ne pensate dell'opinione di F. F. Coppola sul cinema attuale italiano?
Leggi tutto l'articolo de L'Unita' da cui ho tratto il post:
Coppola: "Gomorra è stata una brutta esperienza", di Gabriella Gallozzi, l'Unità, 19 novembre 2009.
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giovedì, novembre 19, 2009
Film in sala dal 20 novembre
Twilight Saga : New Moon
( The Twilight Saga: New Moon )
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy, Sentimentale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Chris Weitz
Ce n'è per tutti
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luciano Melchionna
Francesca
( Francesca )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Romania
REGIA: Bobby Paunescu
Planet 51
( Planet 51 )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Spagna, Gran Bretagna
REGIA: Javier Abad, Jorge Blanco
Segreti di famiglia
( Tetro )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Argentina, USA
REGIA: Francis Ford Coppola
Valentino: The Last Emperor
( Valentino: The Last Emperor )
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Matt Tyrnauer
( The Twilight Saga: New Moon )
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy, Sentimentale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Chris Weitz
Ce n'è per tutti
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luciano Melchionna
Francesca
( Francesca )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Romania
REGIA: Bobby Paunescu
Planet 51
( Planet 51 )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Spagna, Gran Bretagna
REGIA: Javier Abad, Jorge Blanco
Segreti di famiglia
( Tetro )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Argentina, USA
REGIA: Francis Ford Coppola
Valentino: The Last Emperor
( Valentino: The Last Emperor )
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Matt Tyrnauer
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film in uscita 2009
giovedì, novembre 12, 2009
Film in sala dal 13 novembre
2012
( 2012 )
GENERE: Fantascienza, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Canada, USA
REGIA: Roland Emmerich
Gli abbracci spezzati
( Los Abrazos Rotos )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Spagna
REGIA: Pedro Almodóvar
Good Morning, Aman
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Claudio Noce
Il viaggio di Jeanne
( Les grandes personnes )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia, Svezia
REGIA: Anna Novion
Un alibi perfetto
( Beyond a reasonable doubt )
GENERE: Drammatico, Giallo, Thriller, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Hyams
27 TFF - Torino Film Festival
a Torino dal 13 al 22 novembre.
cinema: Ambrosio, Massimo, Greenwich, Nazionale
( 2012 )
GENERE: Fantascienza, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Canada, USA
REGIA: Roland Emmerich
Gli abbracci spezzati
( Los Abrazos Rotos )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Spagna
REGIA: Pedro Almodóvar
Good Morning, Aman
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Claudio Noce
Il viaggio di Jeanne
( Les grandes personnes )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia, Svezia
REGIA: Anna Novion
Un alibi perfetto
( Beyond a reasonable doubt )
GENERE: Drammatico, Giallo, Thriller, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Hyams
27 TFF - Torino Film Festival
a Torino dal 13 al 22 novembre.
cinema: Ambrosio, Massimo, Greenwich, Nazionale
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film in uscita 2009
LO SPAZIO BIANCO
Dopo aver lavato i panni sporchi di un Italia corrotta ed in crisi di valori, Francesca Comencini torna a raccontare la vita quotidiana attraverso l’esperienza di Maria, single quarantenne costretta ad affrontare le conseguenze di un parto prematuro e le incognite legate alle precarie condizioni del nascituro. L’evento, accolto sulle prime con rassegnata accettazione si trasforma per fasi successive in una sorta di confronto tra le aspirazioni di una personalità ai limiti della nevrosi e le responsabilità di un maternità complicata dall’incerto futuro del bambino, tenuto in vita dalla speranza della madre e, paradossalmente, dalla mancanza di risposte dell’apparato medicale.
zL’attesa per lo scioglimento della prognosi diventa il tempo di una seconda gestazione, la palingenesi di una donna che ritrova se stessa attraverso il confronto con quella parte di sé che aveva sempre negato - esemplare in questo senso la scena in cui dopo aver fatto l’amore Maria, nuda e con la sigaretta in mano, osserva con sguardo distante il bambino del suo amante- e la possibilità di una condivisione senza merce di scambio, attuata sulla base di una condizione in cui il bisogno di solidarietà è più forte delle differenze sociali. La Comencini privilegia la dimensione personale della vicenda immergendo lo spettatore nell’universo emozionale della protagonista: la storia procede in un unicum in cui presente e passato, omissioni e disvelamenti si confondono sullo sfondo di un paesaggio che non riesce mai a diventare completamente reale ma è sempre il risultato di uno stato d’animo o la reazione ad una situazione contingente. Una rappresentazione che diventa onirica nelle scene più belle, quelle dedicate al primo contatto tra la madre ed il figlio, avvenuto in un ospedale che la fotografia di Bigazzi trasforma in un non luogo dai contorni sfumati di bianco e dove le figure diventano il riflesso della loro essenza. Un lavoro di sottrazione a cui poco si addicono le improvvise (e molto forzate) aperture verso la realtà del paese, di volta in volta rappresentate dalla figura del magistrato in lotta contro la mafia o dallo sguardo sulla condizione femminile, la cui solitudine viene enfatizzata dalla lunga carrellata (ripetuta all’inizio ed alla fine del film) sugli interni delle abitazioni che Maria vede dall’autobus che la porta a lavoro. Nuoce soprattutto la scelta di un attrice (Margherita Buy) che ci mette la faccia (con rughe programmaticamente enfatizzate) ed anche il corpo (accenno di nudo integrale salvato dalla scarsa illuminazione dell’ambiente) ma non riesce mai a lasciarsi andare: basterebbe considerare la scena iniziale, quella in cui la protagonista è intenta a ballare ed insieme, a liberarsi delle proprie inibizioni. Ecco proprio lì, in quei movimenti che non diventano mai fluidi c’è il succo di una scommessa non riuscita e del film che poteva essere ed invece non è.
zL’attesa per lo scioglimento della prognosi diventa il tempo di una seconda gestazione, la palingenesi di una donna che ritrova se stessa attraverso il confronto con quella parte di sé che aveva sempre negato - esemplare in questo senso la scena in cui dopo aver fatto l’amore Maria, nuda e con la sigaretta in mano, osserva con sguardo distante il bambino del suo amante- e la possibilità di una condivisione senza merce di scambio, attuata sulla base di una condizione in cui il bisogno di solidarietà è più forte delle differenze sociali. La Comencini privilegia la dimensione personale della vicenda immergendo lo spettatore nell’universo emozionale della protagonista: la storia procede in un unicum in cui presente e passato, omissioni e disvelamenti si confondono sullo sfondo di un paesaggio che non riesce mai a diventare completamente reale ma è sempre il risultato di uno stato d’animo o la reazione ad una situazione contingente. Una rappresentazione che diventa onirica nelle scene più belle, quelle dedicate al primo contatto tra la madre ed il figlio, avvenuto in un ospedale che la fotografia di Bigazzi trasforma in un non luogo dai contorni sfumati di bianco e dove le figure diventano il riflesso della loro essenza. Un lavoro di sottrazione a cui poco si addicono le improvvise (e molto forzate) aperture verso la realtà del paese, di volta in volta rappresentate dalla figura del magistrato in lotta contro la mafia o dallo sguardo sulla condizione femminile, la cui solitudine viene enfatizzata dalla lunga carrellata (ripetuta all’inizio ed alla fine del film) sugli interni delle abitazioni che Maria vede dall’autobus che la porta a lavoro. Nuoce soprattutto la scelta di un attrice (Margherita Buy) che ci mette la faccia (con rughe programmaticamente enfatizzate) ed anche il corpo (accenno di nudo integrale salvato dalla scarsa illuminazione dell’ambiente) ma non riesce mai a lasciarsi andare: basterebbe considerare la scena iniziale, quella in cui la protagonista è intenta a ballare ed insieme, a liberarsi delle proprie inibizioni. Ecco proprio lì, in quei movimenti che non diventano mai fluidi c’è il succo di una scommessa non riuscita e del film che poteva essere ed invece non è.
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lunedì, novembre 09, 2009
IL NASTRO BIANCO
Il maestro Michael Haneke, autore di capolavori come FUNNY GAMES (1997) LA PIANISTA (gran premio della giuria, miglior attore, miglior attrice a Cannes 2001) NIENTE DA NASCONDERE (miglior regia Cannes 2005), torna finalmente sugli schermi con IL NASTRO BIANCO (vincitore a Cannes 2009).
All'alba della prima guerra mondiale la vita monotona di un villaggio della Germania viene turbata da alcuni inquietanti avvenimenti: una corda tesa tra due alberi fa cadere da cavallo il medico del villaggio; una contadina è vittima di uno strano incidente sul lavoro che le costa la vita; alcuni bambini vengono seviziati.
Il disturbante regista austriaco ci racconta la vita di una comunità chiusa, economicamente dipendente dal signorotto locale e pesantemente influenzata da una religione (protestante) esclusivamente utilizzata come forma di repressione dal pastore del villaggio.
A turbare l'apparente tranquillità dell'intero villaggio ci sono i bambini, unico granello di sabbia in un ingranaggio sociale ben oliato, pericoloso elemento di disturbo che va ferocemente represso con punizioni corporali e l'umiliazione, quest'ultima rappresentata da un nastro bianco da indossare in pubblico.
Haneke è geniale nel fornire di nomi solo i bambini, mentre gli adulti sono rappresentati solo con i loro titoli o ruoli che gli forniscono autorità: il barone, il pastore, il medico, il signor padre.
Ma repressione, violenza, umiliazioni e soffocamento delle pulsioni possono solo far germogliare il seme dell'odio nei giovanissimi.
I nastri bianchi che il pastore vuole erigere a simbolo di purezza diventeranno le stelle di davide che i bambini oppressi di Haneke, una volta divenuti adulti, appunteranno sul petto degli ebrei.
Molto bello esteticamente, con camera fissa ad incorniciare tante cartoline d'epoca, spazio delimitato e soffocante che vuole rappresentare il mondo chiuso e opprimente in cui si svolgono i fatti narrati.
Stampato in un bianco e nero gelido e avvolgente e senza musiche, il NASTRO BIANCO è l'incubazione del male secondo Haneke.
Ennesimo capolavoro.
Imperdibile.
All'alba della prima guerra mondiale la vita monotona di un villaggio della Germania viene turbata da alcuni inquietanti avvenimenti: una corda tesa tra due alberi fa cadere da cavallo il medico del villaggio; una contadina è vittima di uno strano incidente sul lavoro che le costa la vita; alcuni bambini vengono seviziati.
Il disturbante regista austriaco ci racconta la vita di una comunità chiusa, economicamente dipendente dal signorotto locale e pesantemente influenzata da una religione (protestante) esclusivamente utilizzata come forma di repressione dal pastore del villaggio.
A turbare l'apparente tranquillità dell'intero villaggio ci sono i bambini, unico granello di sabbia in un ingranaggio sociale ben oliato, pericoloso elemento di disturbo che va ferocemente represso con punizioni corporali e l'umiliazione, quest'ultima rappresentata da un nastro bianco da indossare in pubblico.
Haneke è geniale nel fornire di nomi solo i bambini, mentre gli adulti sono rappresentati solo con i loro titoli o ruoli che gli forniscono autorità: il barone, il pastore, il medico, il signor padre.
Ma repressione, violenza, umiliazioni e soffocamento delle pulsioni possono solo far germogliare il seme dell'odio nei giovanissimi.
I nastri bianchi che il pastore vuole erigere a simbolo di purezza diventeranno le stelle di davide che i bambini oppressi di Haneke, una volta divenuti adulti, appunteranno sul petto degli ebrei.
Molto bello esteticamente, con camera fissa ad incorniciare tante cartoline d'epoca, spazio delimitato e soffocante che vuole rappresentare il mondo chiuso e opprimente in cui si svolgono i fatti narrati.
Stampato in un bianco e nero gelido e avvolgente e senza musiche, il NASTRO BIANCO è l'incubazione del male secondo Haneke.
Ennesimo capolavoro.
Imperdibile.
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sabato, novembre 07, 2009
Nemico Pubblico - di M. Mann
Ancora una volta un uomo al di fuori della legge, e come al solito il ritratto di una personalità che si nasconde tra le pieghe di una violenza programmatica. La vita del bandito più celebre d'America diventa il pretesto per la riscoperta di un pezzo di storia americana che Michael Mann ricostruisce sulla base di un resoconto che evita la leggenda e preferisce la realtà dei fatti. La vita pubblica di John Dillinger, passato alle cronache per l'abilità malavitosa dopo una giovinezza trascorsa in riformatorio, diventa l'epitaffio di un'esistenza bruciata dalla voglia di vivere e dalla consapevolezza della caducità del tempo e delle cose.
Il 1933, quarto anno della grande depressione, diventa anche lo spartiacque per le imprese del bandito e della sua gang rispetto ad un mondo avviato ad una trasformazione necessaria alla sua sopravvivenza.
Icaro moderno, ma anche modello di una gioventù bruciatà sull'altare del progresso, Dillinger affronta il suo destino con la spavalderia di chi non ha nulla da perdere e con i modi eleganti delle star cinematografiche di cui si nutre il suo immaginario e che non mancano di ripresentarsi nei borsalini impeccabilmente calati sullo sguardo tenebroso, o nella conferenza stampa all'indomani della sua cattura, quando alla pari di un novello George Clooney gigioneggia con i giornalisti accorsi ad intervistarlo.
Espressione distorta dei valori fondanti della nazione americana (successo, denaro, individualismo), Dillinger è un uomo sorpassato da una società che ha trovato la modernità in un'economia in cui il denaro viene sostituito dalle speculazioni finanziarie e le sicurezze in un'organizzazione anticrimine i cui metodi, compresa la tortura, ricordano da vicino quelli usati per i prigionieri di Guantanamo.
La leggenda che accompagna le sue imprese (nelle stanze del potere come nelle pagine dei giornali non si parla d’altro) è scandita da una vertigine esistenziale che non si ferma neanche di fronte al grande amore (Billie Frechette) e che deve confrontarsi con un alter ego altrettanto determinato (il poliziotto Elvis Purvuis, ingaggiato da E. Hoover per catturare il fuorilegge), ma come lui espressione di un'America che reagisce allo smarrimento dei tempi, radicalizzando i valori di una vita.
Sulla base di una struttura ormai nota (il duello a distanza tra l'antieroe e la sua nemesi, la consapevolezza di un destino ineluttabile, la distanza tra il mondo ideale e quello immaginato) Mann continua un percorso di cineasta che riesce ad essere innovativo ed allo stesso tempo tempo funzionale all'apparato produttivo che lo sostiene.
Sovrapponendo le componenti divistiche del personaggio reale a quelle artistiche dell'attore che lo impersona (un Johnny Deep decisivo per la veicolazione dell'opera), Mann annulla le distanze con il passato, cristallizzandolo in un presente che sembra ieri, grazie ad un utilizzo del mezzo digitale, che se da una parte penalizza il film sotto il profilo dell'immaginario filmico, togliendogli quella patina di finzione che costituisce anche il suo lato più affascinante, dall'altra lo rinforza sia in termini percettivi, per la forza di immagini rubate agli ambienti più improbabili (l'interno di una macchina d'epoca o il locale simil 'Cotton Club' in cui Dillinger incontra la sua amata) e nelle condizioni più difficili (per la capacità di mantenere inalterata la profondità di campo anche in condizioni di scarsa visibilità), che di verosimiglianza, per la caratteristiche del mezzo di restituire i particolari di un ambiente (filologicamente riproposto da locations che a suo tempo furono testimoni di quegli avvenimenti) o la fisognomica dei protagonisti.
Sviluppato in maniera classica, con un perfetto equilibrio tra i momenti di azione (un classico dei film del regista) e quelli riservati alla progressione del racconto, Nemico Pubblico riesce anche ad essere altro, ritagliandosi momenti di cinema espressionista, con ombre che si allungano sulle pareti o che si sostituiscono alle stesse figure umane (spesso letteralmente risucchiate all'interno di uno sfondo indefinito), oppure crepuscolare, per la prevalenza dei toni notturni e delle penombre che sembrano evocare le incertezze di un epoca di piena transizione.
Ma Michael Mann è comunque abile a mischiare le carte, evitando pericolosi sbilanciamenti a favore di questa o quella componente, orchestrando un ritmo interno alle singole scene, in cui la staticità del movimento è continuamente interrotta dalla frammentazione di inquadrature che cambiano continuamente prospettiva o sono sistematicamente decentrate rispetto all'oggetto della loro osservazione.
Supportato dal miglior Johnny Deep degli ultimi tempi, finalmente in un ruolo che lo allontana da pericolose derive manieristiche, e corroborato da una serie di comprimari che possono vantare addirittura un Oscar (Marion Cotillard nel ruolo di Billie Frechette) oppure il carisma per ruoli di primo piano (Christian Bates), Nemico Pubblico conferma anche una venerazione attoriale che si traduce in una specie di chiamata alle armi da parte di attori già affermati, disposti anche a ruoli di contorno pur di partecipare all’ennesima impresa artistica.
Il 1933, quarto anno della grande depressione, diventa anche lo spartiacque per le imprese del bandito e della sua gang rispetto ad un mondo avviato ad una trasformazione necessaria alla sua sopravvivenza.
Icaro moderno, ma anche modello di una gioventù bruciatà sull'altare del progresso, Dillinger affronta il suo destino con la spavalderia di chi non ha nulla da perdere e con i modi eleganti delle star cinematografiche di cui si nutre il suo immaginario e che non mancano di ripresentarsi nei borsalini impeccabilmente calati sullo sguardo tenebroso, o nella conferenza stampa all'indomani della sua cattura, quando alla pari di un novello George Clooney gigioneggia con i giornalisti accorsi ad intervistarlo.
Espressione distorta dei valori fondanti della nazione americana (successo, denaro, individualismo), Dillinger è un uomo sorpassato da una società che ha trovato la modernità in un'economia in cui il denaro viene sostituito dalle speculazioni finanziarie e le sicurezze in un'organizzazione anticrimine i cui metodi, compresa la tortura, ricordano da vicino quelli usati per i prigionieri di Guantanamo.
La leggenda che accompagna le sue imprese (nelle stanze del potere come nelle pagine dei giornali non si parla d’altro) è scandita da una vertigine esistenziale che non si ferma neanche di fronte al grande amore (Billie Frechette) e che deve confrontarsi con un alter ego altrettanto determinato (il poliziotto Elvis Purvuis, ingaggiato da E. Hoover per catturare il fuorilegge), ma come lui espressione di un'America che reagisce allo smarrimento dei tempi, radicalizzando i valori di una vita.
Sulla base di una struttura ormai nota (il duello a distanza tra l'antieroe e la sua nemesi, la consapevolezza di un destino ineluttabile, la distanza tra il mondo ideale e quello immaginato) Mann continua un percorso di cineasta che riesce ad essere innovativo ed allo stesso tempo tempo funzionale all'apparato produttivo che lo sostiene.
Sovrapponendo le componenti divistiche del personaggio reale a quelle artistiche dell'attore che lo impersona (un Johnny Deep decisivo per la veicolazione dell'opera), Mann annulla le distanze con il passato, cristallizzandolo in un presente che sembra ieri, grazie ad un utilizzo del mezzo digitale, che se da una parte penalizza il film sotto il profilo dell'immaginario filmico, togliendogli quella patina di finzione che costituisce anche il suo lato più affascinante, dall'altra lo rinforza sia in termini percettivi, per la forza di immagini rubate agli ambienti più improbabili (l'interno di una macchina d'epoca o il locale simil 'Cotton Club' in cui Dillinger incontra la sua amata) e nelle condizioni più difficili (per la capacità di mantenere inalterata la profondità di campo anche in condizioni di scarsa visibilità), che di verosimiglianza, per la caratteristiche del mezzo di restituire i particolari di un ambiente (filologicamente riproposto da locations che a suo tempo furono testimoni di quegli avvenimenti) o la fisognomica dei protagonisti.
Sviluppato in maniera classica, con un perfetto equilibrio tra i momenti di azione (un classico dei film del regista) e quelli riservati alla progressione del racconto, Nemico Pubblico riesce anche ad essere altro, ritagliandosi momenti di cinema espressionista, con ombre che si allungano sulle pareti o che si sostituiscono alle stesse figure umane (spesso letteralmente risucchiate all'interno di uno sfondo indefinito), oppure crepuscolare, per la prevalenza dei toni notturni e delle penombre che sembrano evocare le incertezze di un epoca di piena transizione.
Ma Michael Mann è comunque abile a mischiare le carte, evitando pericolosi sbilanciamenti a favore di questa o quella componente, orchestrando un ritmo interno alle singole scene, in cui la staticità del movimento è continuamente interrotta dalla frammentazione di inquadrature che cambiano continuamente prospettiva o sono sistematicamente decentrate rispetto all'oggetto della loro osservazione.
Supportato dal miglior Johnny Deep degli ultimi tempi, finalmente in un ruolo che lo allontana da pericolose derive manieristiche, e corroborato da una serie di comprimari che possono vantare addirittura un Oscar (Marion Cotillard nel ruolo di Billie Frechette) oppure il carisma per ruoli di primo piano (Christian Bates), Nemico Pubblico conferma anche una venerazione attoriale che si traduce in una specie di chiamata alle armi da parte di attori già affermati, disposti anche a ruoli di contorno pur di partecipare all’ennesima impresa artistica.
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giovedì, novembre 05, 2009
Film in sala dal 6 novembre
Alza la testa
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Alessandro Angelini
Anno uno
( Year One )
GENERE: Comico, Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Harold Ramis
Berlin Calling
( Berlin Calling )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Germania
L'uomo che fissa le capre
( The Men Who Stare at Goats )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Grant Heslov
Marpiccolo
( Marpiccolo )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Alessandro Di Robilant
Nemico Pubblico
( Public Enemies )
GENERE: Azione, Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Michael Mann
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Alessandro Angelini
Anno uno
( Year One )
GENERE: Comico, Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Harold Ramis
Berlin Calling
( Berlin Calling )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Germania
L'uomo che fissa le capre
( The Men Who Stare at Goats )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Grant Heslov
Marpiccolo
( Marpiccolo )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Alessandro Di Robilant
Nemico Pubblico
( Public Enemies )
GENERE: Azione, Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Michael Mann
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film in uscita 2009
martedì, novembre 03, 2009
Zack e miri make a porno
Kevin Smiths è forse il rappresentante più iconoclasta fuoriuscito dalla fucina di quel Sundance che proprio in questi giorni torna a far sentire la sua impronta grazie all’ultimo Tarantino: a corto di memoria cinefila e per niente allettato dalle lusinghe delle grandi produzioni, a cui peraltro non potrebbe offrire progetti ad ampio respiro, ma soprattutto limitato dalla magnifica irriverenza con cui tratteggia da anni i luoghi comuni della cultura popolare (soprattutto cinema e cartoon), Smith continua a disegnare le sue striscie di celluloide attorno alla variopinta umanità che costituisce il tessuto culturale ed economico di un America ferocemente condizionata dal monopolio delle grandi catene commerciali.
Personaggi abituati a consumare in fretta interessi e passioni; feroci catalogatori di abitudini e tendenze, tracimate attraverso una visione del mondo a dimensione personale eppure capace di parlare un linguaggio universale perché nutrito dagli stessi bisogni consumistici dei loro spettatori. Una generazione da sempre abituata a sbarcare il lunario con stratagemmi tanto assurdi quanto divertenti, e che qui, dopo i riferimenti più o meno espliciti dei precedenti episodi
(ricordiamo l’esibizione erotica con l’Asino nell’ultimo “Clerks 2”) si cimenta nella mercificazione dell’atto amoroso concepito come mero strumento di guadagno ed allo stesso tempo cinico artificio per mascherare la vulnerabilità della sfera sentimentale.
Senza soldi e con l’affitto da pagare, Zack e Miri ( rispettivamente Seth Rogen ed Emily Banks) sono i protagonisti di un menage che si ferma davanti alle rispettive camere da letto (il sesso complica i rapporti) fino a quando i due, costretti dalle ristrettezze economiche, decidono di risolvere i loro problemi problemi girando un film porno, in cui, insieme ad improbabili compagni di lavoro, dovranno rompere il patto di astinenza, consumando la loro prima volta davanti all’occhio delle telecamere.
Girato con una scioltezza e una semplicità che da sole sono già un atto di irriverenza verso le regole di un movimento (indie) a cui piace esibire il proprio talento, “Zack e Miri” gioca con lo spettatore attraverso la solita costellazione di situazione irriverenti e battute al fulmicotone, in cui la presa in giro di quel film (l’ultimo Superman sbeffeggiato attraverso la proposizione di un Brandon Routh che interpreta un attore porno dichiaratamente gay) o di quella categoria (l’afroamericano ossessionato da possibili riferimenti razzistici) diventano il modo migliore per liberarsi dai propri pregiudizi. Ma questa volta il pretesto è troppo debole per sostenere il parolaio di caratteri e situazioni, mentre la regia, abituata all’esternazione incondizionata, non riesce a cortocircuitare i limiti di una visibilità legata alla commerciabilità del prodotto: Zack e Miri sono troppo buoni ed innamorati per creare scompiglio, mentre i loro compagni di viaggio assomigliano ad i motivi disegnati su una carta da parati. Così facendo il film si sposta sempre di più sulla coppia impegnata a risolvere i propri dilemmi amorosi e tralascia i motivi di interesse (e divertimento) legati alla sgangherata produzione del porno movie. Fatta eccezione per la scena in cui il tifoso ubriaco si ritrova nel mezzo di un amplesso organizzato all’interno del locale dove Zack lavora, riproposizione di un idea di un cinema “casalingo” che appartiene di diritto alla biografia del regista (“Clerks” fu realizzato nell’emporio dove Smith lavorava come commesso), e per le sorprese relative alla festa con i vecchi compagni di scuola, costruite su misura per ribaltare il mito di giovinezza troppo spesso idealizzata e qui demolita attraverso la figura del campione di football di cui Miri è innamorata, la storia procede senza particolare originalità verso uno scontato lieto fine. Occasione mancata o rischio calcolato, Zack e Miri rimane un'altra tappa, seppur deludente, di una commedia umana da dimenticare per i visitatori occasionali, ma comunque imprescindibile per gli aficionados del regista americano.
Personaggi abituati a consumare in fretta interessi e passioni; feroci catalogatori di abitudini e tendenze, tracimate attraverso una visione del mondo a dimensione personale eppure capace di parlare un linguaggio universale perché nutrito dagli stessi bisogni consumistici dei loro spettatori. Una generazione da sempre abituata a sbarcare il lunario con stratagemmi tanto assurdi quanto divertenti, e che qui, dopo i riferimenti più o meno espliciti dei precedenti episodi
(ricordiamo l’esibizione erotica con l’Asino nell’ultimo “Clerks 2”) si cimenta nella mercificazione dell’atto amoroso concepito come mero strumento di guadagno ed allo stesso tempo cinico artificio per mascherare la vulnerabilità della sfera sentimentale.
Senza soldi e con l’affitto da pagare, Zack e Miri ( rispettivamente Seth Rogen ed Emily Banks) sono i protagonisti di un menage che si ferma davanti alle rispettive camere da letto (il sesso complica i rapporti) fino a quando i due, costretti dalle ristrettezze economiche, decidono di risolvere i loro problemi problemi girando un film porno, in cui, insieme ad improbabili compagni di lavoro, dovranno rompere il patto di astinenza, consumando la loro prima volta davanti all’occhio delle telecamere.
Girato con una scioltezza e una semplicità che da sole sono già un atto di irriverenza verso le regole di un movimento (indie) a cui piace esibire il proprio talento, “Zack e Miri” gioca con lo spettatore attraverso la solita costellazione di situazione irriverenti e battute al fulmicotone, in cui la presa in giro di quel film (l’ultimo Superman sbeffeggiato attraverso la proposizione di un Brandon Routh che interpreta un attore porno dichiaratamente gay) o di quella categoria (l’afroamericano ossessionato da possibili riferimenti razzistici) diventano il modo migliore per liberarsi dai propri pregiudizi. Ma questa volta il pretesto è troppo debole per sostenere il parolaio di caratteri e situazioni, mentre la regia, abituata all’esternazione incondizionata, non riesce a cortocircuitare i limiti di una visibilità legata alla commerciabilità del prodotto: Zack e Miri sono troppo buoni ed innamorati per creare scompiglio, mentre i loro compagni di viaggio assomigliano ad i motivi disegnati su una carta da parati. Così facendo il film si sposta sempre di più sulla coppia impegnata a risolvere i propri dilemmi amorosi e tralascia i motivi di interesse (e divertimento) legati alla sgangherata produzione del porno movie. Fatta eccezione per la scena in cui il tifoso ubriaco si ritrova nel mezzo di un amplesso organizzato all’interno del locale dove Zack lavora, riproposizione di un idea di un cinema “casalingo” che appartiene di diritto alla biografia del regista (“Clerks” fu realizzato nell’emporio dove Smith lavorava come commesso), e per le sorprese relative alla festa con i vecchi compagni di scuola, costruite su misura per ribaltare il mito di giovinezza troppo spesso idealizzata e qui demolita attraverso la figura del campione di football di cui Miri è innamorata, la storia procede senza particolare originalità verso uno scontato lieto fine. Occasione mancata o rischio calcolato, Zack e Miri rimane un'altra tappa, seppur deludente, di una commedia umana da dimenticare per i visitatori occasionali, ma comunque imprescindibile per gli aficionados del regista americano.
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venerdì, ottobre 30, 2009
Oggi sposi
Quattro coppie a un passo dall'altare, tra preparativi e mille peripezie.
Un poliziotto di origini pugliesi (L. Argentero) vuole in sposa la figlia (M. Atias) dell'ambasciatore dell'India ma deve fare i conti con un padre contadino tradizionalista (M. Placido);
L'aiuto cuoco (D. bandiera) e la cameriera (I. Ragonese) poveri in canna, alle prese con decine di invitati; Un giudice (F. Nigro) che si invaghisce della giovanissima fidanzata (C. Crescentini) del padre settantenne (R. Pozzetto); Un Giovane finanziere rampante (F. Montanari) e una soubrettina (G. Pession) alle prese con la preparazione del loro matrimonio tra paparazzi, presunti vip e servizi in esclusiva.
OGGI SPOSI è una commedia sul matrimonio che copre il periodo che va dalla dichiarazione ufficiale fino al giorno del fatidico "si".
Il film è divertente e riesce a far ridere tenendosi lontano dalle volgarità che ormai imperversano nella (presunta) commedia all'italiana.
Dei quattro segmenti che compongono il film quello riguardante i due precari (Bandiera-Ragonese) è senza dubbio il più debole e peggio interpretato.
Ottime prove per F. Montanari (il "libanese" della serie tv Romanzo Criminale) e G. Pession, oltre ad un convincente L. Argentero.
Ma il vero mattatore del film è uno stratosferico Michele Placido in versione comica come non si era mai visto.
Placido interpreta Sabino, il padre di Argentero, un contadino pugliese rozzo, che vive nella sua masseria con moglie e fratello e che si trova di fronte l'ambasciatore indiano in Italia, suo futuro suocero, con il quale organizzare le nozze.
Un film nel film, quello di Placido, che fornisce prova tangibile di come un grande attore riesca ad adattarsi a qualsiasi ruolo rimanendo credibilissimo.
Il film di Lucini è ben confezionato, il regista non si limita a posizionare la macchina da presa in faccia a chi parla e la scenggiatura condita da intercettazioni, silicone e furbetti del quartierino è più che mai attuale.
OGGI SPOSI con le sue quattro storie distinte che finiscono per incrociarsi e con i personaggi ovviamente estremizzati, è una commedia ben fatta che fornisce un quadro abbastanza (in)credibile della realtà italiana.
Prodotto commerciale che riesce a ridare dignità alla commedia all'italiana
Un poliziotto di origini pugliesi (L. Argentero) vuole in sposa la figlia (M. Atias) dell'ambasciatore dell'India ma deve fare i conti con un padre contadino tradizionalista (M. Placido);
L'aiuto cuoco (D. bandiera) e la cameriera (I. Ragonese) poveri in canna, alle prese con decine di invitati; Un giudice (F. Nigro) che si invaghisce della giovanissima fidanzata (C. Crescentini) del padre settantenne (R. Pozzetto); Un Giovane finanziere rampante (F. Montanari) e una soubrettina (G. Pession) alle prese con la preparazione del loro matrimonio tra paparazzi, presunti vip e servizi in esclusiva.
OGGI SPOSI è una commedia sul matrimonio che copre il periodo che va dalla dichiarazione ufficiale fino al giorno del fatidico "si".
Il film è divertente e riesce a far ridere tenendosi lontano dalle volgarità che ormai imperversano nella (presunta) commedia all'italiana.
Dei quattro segmenti che compongono il film quello riguardante i due precari (Bandiera-Ragonese) è senza dubbio il più debole e peggio interpretato.
Ottime prove per F. Montanari (il "libanese" della serie tv Romanzo Criminale) e G. Pession, oltre ad un convincente L. Argentero.
Ma il vero mattatore del film è uno stratosferico Michele Placido in versione comica come non si era mai visto.
Placido interpreta Sabino, il padre di Argentero, un contadino pugliese rozzo, che vive nella sua masseria con moglie e fratello e che si trova di fronte l'ambasciatore indiano in Italia, suo futuro suocero, con il quale organizzare le nozze.
Un film nel film, quello di Placido, che fornisce prova tangibile di come un grande attore riesca ad adattarsi a qualsiasi ruolo rimanendo credibilissimo.
Il film di Lucini è ben confezionato, il regista non si limita a posizionare la macchina da presa in faccia a chi parla e la scenggiatura condita da intercettazioni, silicone e furbetti del quartierino è più che mai attuale.
OGGI SPOSI con le sue quattro storie distinte che finiscono per incrociarsi e con i personaggi ovviamente estremizzati, è una commedia ben fatta che fornisce un quadro abbastanza (in)credibile della realtà italiana.
Prodotto commerciale che riesce a ridare dignità alla commedia all'italiana
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giovedì, ottobre 29, 2009
Film in sala dal 30 ottobre
Michael Jackson's This Is It
( Michael Jackson's This Is It )
GENERE: Documentario, Musicale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Kenny Ortega
Amore 14
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Moccia
Capitalism: a Love Story
( Capitalism: a Love Story )
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Michael Moore
Il nastro bianco
( Le Ruban blanc (Das Weisse Band) )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Austria, Germania, Francia
REGIA: Michael Haneke
Nel paese delle creature selvagge
( Where the Wild Things Are )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Spike Jonze
( Michael Jackson's This Is It )
GENERE: Documentario, Musicale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Kenny Ortega
Amore 14
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Moccia
Capitalism: a Love Story
( Capitalism: a Love Story )
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Michael Moore
Il nastro bianco
( Le Ruban blanc (Das Weisse Band) )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Austria, Germania, Francia
REGIA: Michael Haneke
Nel paese delle creature selvagge
( Where the Wild Things Are )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Spike Jonze
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film in uscita 2009
lunedì, ottobre 26, 2009
LA DOPPIA ORA
La doppia Ora
di Fabrizio Luperto
Sonia (K. Rappoport) è slovena di Lubiana, ma di padre italiano; si guadagna da vivere lavorando come cameriera in un hotel di Torino.
Guido (F. Timi) è un ex poliziotto che ora fa il guardiano in una lussuosa villa.
Dopo un solo incontro avvenuto durante uno speed date, i due provano una profonda attrazione che potrebbe trasformarsi in storia d'amore.
I produttori de LA RAGAZZA DEL LAGO (2007), a mio avviso un film molto sopravvalutato, rigiocano la carta del film di genere e, come nella precedente occasione, stanno attenti a non discostarsi eccessivamente dai gusti dello spettatore televisivo.
Mi spiego meglio. Regista e produttori de LA DOPPIA ORA si preoccupano di aiutare lo spettatore e forniscono almeno due elementi affinché la lettura del film non risulti troppo complicata (parlo sempre di standard televisivi).
Il primo suggerimento lo troviamo già nel titolo, che preannuncia una doppia "verità" o comunque una doppia dimensione; il secondo consiste nel fatto che il protagonista maschile muore dopo mezz'ora di film, facendo drizzare le antenne allo spettatore che a questo punto sa benissimo che prima o poi riapparirà (in sogno? in un altra dimensione?).
Detto questo, bisogna sottolineare che LA DOPPIA ORA è film nettamente superiore a LA RAGAZZA DEL LAGO; è scritto in maniera sintetica e senza inutili divagazioni, la sceggiatura è ben calcolata con i suoi colpi di scena ogni mezz'ora e il regista bluffa (un classico in questo genere di pellicole) restando nei limiti della decenza.
Ottima Ksenia Rappoport, premiata come miglior attrice a venezia 2009, che ripete la bella prova offerta ne LA SCONOSCIUTA (2006).
L'attrice russa, a mio parere, dovrebbe valutare meglio le offerte che le giungono, per non rischiare di ritrovarsi protagonista di film che potrebbero offuscare la sua bravura, come successo con L'UOMO CHE AMA (2008) e ITALIANS (2009).
Bravo Filippo Timi nell'interpretare un personaggio che deve fare i conti con un oscuro passato e sempre in bilico tra estrema lucidità e crisi di nervi.
Il film di Capotondi è un film di genere abbastanza maturo, un noir che non delude e che merita la visione.
Fabrizio Luperto
di Fabrizio Luperto
Sonia (K. Rappoport) è slovena di Lubiana, ma di padre italiano; si guadagna da vivere lavorando come cameriera in un hotel di Torino.
Guido (F. Timi) è un ex poliziotto che ora fa il guardiano in una lussuosa villa.
Dopo un solo incontro avvenuto durante uno speed date, i due provano una profonda attrazione che potrebbe trasformarsi in storia d'amore.
I produttori de LA RAGAZZA DEL LAGO (2007), a mio avviso un film molto sopravvalutato, rigiocano la carta del film di genere e, come nella precedente occasione, stanno attenti a non discostarsi eccessivamente dai gusti dello spettatore televisivo.
Mi spiego meglio. Regista e produttori de LA DOPPIA ORA si preoccupano di aiutare lo spettatore e forniscono almeno due elementi affinché la lettura del film non risulti troppo complicata (parlo sempre di standard televisivi).
Il primo suggerimento lo troviamo già nel titolo, che preannuncia una doppia "verità" o comunque una doppia dimensione; il secondo consiste nel fatto che il protagonista maschile muore dopo mezz'ora di film, facendo drizzare le antenne allo spettatore che a questo punto sa benissimo che prima o poi riapparirà (in sogno? in un altra dimensione?).
Detto questo, bisogna sottolineare che LA DOPPIA ORA è film nettamente superiore a LA RAGAZZA DEL LAGO; è scritto in maniera sintetica e senza inutili divagazioni, la sceggiatura è ben calcolata con i suoi colpi di scena ogni mezz'ora e il regista bluffa (un classico in questo genere di pellicole) restando nei limiti della decenza.
Ottima Ksenia Rappoport, premiata come miglior attrice a venezia 2009, che ripete la bella prova offerta ne LA SCONOSCIUTA (2006).
L'attrice russa, a mio parere, dovrebbe valutare meglio le offerte che le giungono, per non rischiare di ritrovarsi protagonista di film che potrebbero offuscare la sua bravura, come successo con L'UOMO CHE AMA (2008) e ITALIANS (2009).
Bravo Filippo Timi nell'interpretare un personaggio che deve fare i conti con un oscuro passato e sempre in bilico tra estrema lucidità e crisi di nervi.
Il film di Capotondi è un film di genere abbastanza maturo, un noir che non delude e che merita la visione.
Fabrizio Luperto
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venerdì, ottobre 23, 2009
THE INFORMERS
Probabilmente assuefatto al successo letterario, Brett Easton Ellis sembra deciso ad impegnarsi anche nel cinema, e nel giro di poco tempo è riuscito a trasportare su pellicola una manciata di libri che a suo tempo lo avevano riportato all'attenzione degli appassionati, dopo un periodo di relativo anonimato: il primo di questi è appunto "The Informer", affresco generazionale ed anche epitaffio di una stagione come quella degli anni 80, di cui Ellis fu un dei massimi cantori, e che anche qui, seguendo il modello della pagina scritta, viene fotografata attraverso una serie di storie incrociate, in cui l’insoddisfazione personale e la superficialità dei rapporti umani diventa il motivo di unione delle differenti esperienze.
Ambientato nella Los Angeles del 1983, anno cruciale per la scoperta del virus dell'Aids determinante per le influenze sui costumi sessuali di quel periodo, The Informers ci catapulta immediatamente nel clima di quegli anni a colpi di decibel (New Cold Dream dei Simple Minds) e corpi danzanti, in un deliquio generale di ambiguità e rimandi sessuali.
Il disimpegno come laboratorio di dinamiche sociali, in cui l'agone della gioventù benestante sfoga il bisogno un affettività familiare sacrificata alla sicurezza degli oggetti.
Un crescendo emotivo interrotto bruscamente da un incidente mortale che cambia il volto del film.
Siamo solo agli inizi, ma da quel momento il film sembra quasi fermarsi, mentre cerca di raccontare le conseguenze del tragico evento su un nucleo di persone diversamente legate allo scomparso.
Una compagnia di amici legata dalle convenienze sociali, due belli e dannati in cerca di nuove esperienze, il produttore cinematografico passivamente indeciso tra la giovane amante ed una moglie depressa, il portiere d’albergo coinvolto da un losco lestofante nel rapimento di un bambino e la star musicale distrutta dalla droga sono il milieu scelto dal regista per declinare il decennio.
Peccato che la desolazione ed il deserto sentimentale derivi più che altro dalla presenza di interpreti che vissero in quegli anni il massimo fulgore e che qui sovrappongono il loro declino personale e quello dei personaggi interpretati: Mickey Rourke, alle prese con l'ennesimo ruolo di bad guy, Kim Basinger impegnata a rinverdire la sua fama di irresistibile mangiauomini, Wynona Ryder a cui sono rimasti solo gli occhi di cerbiatto ed anche Brad Renfro, segnato da una vita vissuta al limite e qui alla sua ultima interpretazione (il film è dedicato alla sua memoria), sono gli scalpi rubati ad un epoca che è già diventata passato remoto.
Il film rievoca queste facce e questi corpi, limitandosi ad illustrare tutto il resto nella perfezione di immagini che spengono qualsiasi introspezione e lasciano lo spettatore nell’indifferenza del già visto.
Gregor Giordan, scelto per motivi di logiche produttive, non rischia niente e si limita ad esporre la merce a sua disposizione (su tutti Amber Heard, generosa protagonista di nudi alla Helmut Newton), sorvolando quando invece si tratterebbe di approfondire (la presenza degli episodi che coinvolgono Mickey Rourke e Brad Renfro da una parte e Taylor Pucci e Chris Isaak sembrano più una svista del montatore che una reale necessità).
L'interesse dell’operazione si riduce ad un catalogo di cose e situazioni che, tolte dal contesto storico in cui sono inserite, potrebbero appartenere all'inutile di ogni epoca ed una volta tanto bisogna rendere merito alla mancata (fin qui) distribuzione dello stesso nelle sale italiane.
Ambientato nella Los Angeles del 1983, anno cruciale per la scoperta del virus dell'Aids determinante per le influenze sui costumi sessuali di quel periodo, The Informers ci catapulta immediatamente nel clima di quegli anni a colpi di decibel (New Cold Dream dei Simple Minds) e corpi danzanti, in un deliquio generale di ambiguità e rimandi sessuali.
Il disimpegno come laboratorio di dinamiche sociali, in cui l'agone della gioventù benestante sfoga il bisogno un affettività familiare sacrificata alla sicurezza degli oggetti.
Un crescendo emotivo interrotto bruscamente da un incidente mortale che cambia il volto del film.
Siamo solo agli inizi, ma da quel momento il film sembra quasi fermarsi, mentre cerca di raccontare le conseguenze del tragico evento su un nucleo di persone diversamente legate allo scomparso.
Una compagnia di amici legata dalle convenienze sociali, due belli e dannati in cerca di nuove esperienze, il produttore cinematografico passivamente indeciso tra la giovane amante ed una moglie depressa, il portiere d’albergo coinvolto da un losco lestofante nel rapimento di un bambino e la star musicale distrutta dalla droga sono il milieu scelto dal regista per declinare il decennio.
Peccato che la desolazione ed il deserto sentimentale derivi più che altro dalla presenza di interpreti che vissero in quegli anni il massimo fulgore e che qui sovrappongono il loro declino personale e quello dei personaggi interpretati: Mickey Rourke, alle prese con l'ennesimo ruolo di bad guy, Kim Basinger impegnata a rinverdire la sua fama di irresistibile mangiauomini, Wynona Ryder a cui sono rimasti solo gli occhi di cerbiatto ed anche Brad Renfro, segnato da una vita vissuta al limite e qui alla sua ultima interpretazione (il film è dedicato alla sua memoria), sono gli scalpi rubati ad un epoca che è già diventata passato remoto.
Il film rievoca queste facce e questi corpi, limitandosi ad illustrare tutto il resto nella perfezione di immagini che spengono qualsiasi introspezione e lasciano lo spettatore nell’indifferenza del già visto.
Gregor Giordan, scelto per motivi di logiche produttive, non rischia niente e si limita ad esporre la merce a sua disposizione (su tutti Amber Heard, generosa protagonista di nudi alla Helmut Newton), sorvolando quando invece si tratterebbe di approfondire (la presenza degli episodi che coinvolgono Mickey Rourke e Brad Renfro da una parte e Taylor Pucci e Chris Isaak sembrano più una svista del montatore che una reale necessità).
L'interesse dell’operazione si riduce ad un catalogo di cose e situazioni che, tolte dal contesto storico in cui sono inserite, potrebbero appartenere all'inutile di ogni epoca ed una volta tanto bisogna rendere merito alla mancata (fin qui) distribuzione dello stesso nelle sale italiane.
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recensioni
La ragazza che giocava con il fuoco
di PARSEC
Scheletri nell’armadio e fantasmi del passato tornano a perseguitare la cazzutissima hacker Lisbeth Salander che con l’ostinazione della bestia ferita si barrica dentro il suo cuore-marmo-di-carrara senza mostrare il minimo segno di cedimento di fronte ai super cattivi i quali solo vagamente scalfiscono la sua scorza dura di vittima risentita e risoluta giustiziera.
Amorevolmente ma poco efficacemente sorvegliata a distanza dall’amico giornalista-custode, subisce senza battere ciglio la sua massiccia dose annuale di maltrattamenti tanto feroci da spezzare Rambo ma non la nostra eroina sempre più dark che, nonostante il destino avverso e un corpicino da teenager, mai presta il fianco alla scioglievolezza di lindor e dunque investiga, si nasconde, scappa, si traveste (ad un certo punto e senza una ragione mostra un trucco al viso che ricorda l’ultimo joker in batman) le prende e le dà, soffre e soprattutto fuma troppe sigarette, non ride mai e ha sempre gli stessi vestiti da fan dei Cure.
In questo secondo episodio della trilogia sono cambiati regista e sceneggiatori e si sente. Mancano quella bella atmosfera alla Chandler e la compattezza narrativa che avevano fatto del precedente un buon film di genere. Qui siamo alla fiction tv. Il film è zoppo: forse gli autori confidano che il pubblico si appoggi al ricordo del prequel non tanto ai fini della storia quanto per attingere ad emozioni che qui mancano. È brutto: non c’è coinvolgimento, non ci sono paura, suggestione, suspense, orrore, la storia che sulla carta dovrebbe essere intrigante diventa banale e meno emozionante dell’ ‘ora esatta’ che davano una volta sulle reti rai. Insomma, sembra che regista e sceneggiatori abbiano deciso che sarebbe stato il pubblico a fare tutto il lavoro al posto loro e il risultato è la noia: mentre Uomini che odiano le donne era autonomo, questa Ragazza che gioca col fuoco puzza di film di transizione (non c’è nemmeno il tempo fisiologico del finale dopo il momento topico del film), non aggiunge niente a quello che già sapevamo e non riesce nemmeno a creare un alone mitico, anche solo per accumulo e ridondanze, intorno al personaggio protagonista che al contrario cade più volte nel grottesco.
Voto 4
Scheletri nell’armadio e fantasmi del passato tornano a perseguitare la cazzutissima hacker Lisbeth Salander che con l’ostinazione della bestia ferita si barrica dentro il suo cuore-marmo-di-carrara senza mostrare il minimo segno di cedimento di fronte ai super cattivi i quali solo vagamente scalfiscono la sua scorza dura di vittima risentita e risoluta giustiziera.
Amorevolmente ma poco efficacemente sorvegliata a distanza dall’amico giornalista-custode, subisce senza battere ciglio la sua massiccia dose annuale di maltrattamenti tanto feroci da spezzare Rambo ma non la nostra eroina sempre più dark che, nonostante il destino avverso e un corpicino da teenager, mai presta il fianco alla scioglievolezza di lindor e dunque investiga, si nasconde, scappa, si traveste (ad un certo punto e senza una ragione mostra un trucco al viso che ricorda l’ultimo joker in batman) le prende e le dà, soffre e soprattutto fuma troppe sigarette, non ride mai e ha sempre gli stessi vestiti da fan dei Cure.
In questo secondo episodio della trilogia sono cambiati regista e sceneggiatori e si sente. Mancano quella bella atmosfera alla Chandler e la compattezza narrativa che avevano fatto del precedente un buon film di genere. Qui siamo alla fiction tv. Il film è zoppo: forse gli autori confidano che il pubblico si appoggi al ricordo del prequel non tanto ai fini della storia quanto per attingere ad emozioni che qui mancano. È brutto: non c’è coinvolgimento, non ci sono paura, suggestione, suspense, orrore, la storia che sulla carta dovrebbe essere intrigante diventa banale e meno emozionante dell’ ‘ora esatta’ che davano una volta sulle reti rai. Insomma, sembra che regista e sceneggiatori abbiano deciso che sarebbe stato il pubblico a fare tutto il lavoro al posto loro e il risultato è la noia: mentre Uomini che odiano le donne era autonomo, questa Ragazza che gioca col fuoco puzza di film di transizione (non c’è nemmeno il tempo fisiologico del finale dopo il momento topico del film), non aggiunge niente a quello che già sapevamo e non riesce nemmeno a creare un alone mitico, anche solo per accumulo e ridondanze, intorno al personaggio protagonista che al contrario cade più volte nel grottesco.
Voto 4
giovedì, ottobre 22, 2009
Film in sala dal 23 ottobre
Bruno
( Brüno )
GENERE: Commedia, Parodia, Farsesco
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Larry Charles
Io, Don Giovanni
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Germania, Italia
REGIA: Carlos Saura
Julie & Julia
( Julie & Julia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Nora Ephron
La battaglia dei Tre Regni
( Red Cliff )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Cina
REGIA: John Woo
Lebanon
( Levanon )
GENERE: Drammatico, Guerra
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Israele
REGIA: Samuel Maoz
Oggi sposi
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luca Lucini
Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il Diavolo
( The Imaginarium of Doctor Parnassus )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Canada, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Terry Gilliam
( Brüno )
GENERE: Commedia, Parodia, Farsesco
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Larry Charles
Io, Don Giovanni
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Germania, Italia
REGIA: Carlos Saura
Julie & Julia
( Julie & Julia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Nora Ephron
La battaglia dei Tre Regni
( Red Cliff )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Cina
REGIA: John Woo
Lebanon
( Levanon )
GENERE: Drammatico, Guerra
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Israele
REGIA: Samuel Maoz
Oggi sposi
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luca Lucini
Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il Diavolo
( The Imaginarium of Doctor Parnassus )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Canada, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Terry Gilliam
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film in uscita 2009
giovedì, ottobre 15, 2009
Gamer
Recensione di Gamer pubblicata su ONDACINEMA.IT
La rappresentazione di una società asservita e manipolata da oscuri cospiratori è una delle tematiche più frequenti del cinema fantapolitico ed anche la presenza della componente ludica come elemento catalizzatore di questa dipendenza (dal capostipite "Rollerball" di cui esiste pure un inguardabile remake a "The running man" di PM Glaser con Schwarzenegger) è solo una variante, peraltro piuttosto sfruttata in questo tipo di operazioni.
In questo caso il grande fratello di turno risponde al nome di Ken Kastle, un genio del male che produce giochi, in cui l'elemento virtuale viene sostituito da esseri umani in carne ed ossa che lottano per la propria sopravvivenza, sullo sfondo di uno scenario apocalittico.
Il successo del prodotto e la legittimazione del controllo sociale vengono messi in discussione quando Kable, la star indiscussa del gioco si ribella al suo destino di schiavitù ed inizia un percorso in cui la vendetta personale diventa il viatico per il ritorno alla vita.
CONTINUA A LEGGERE LA RECENSIONE SU ONDACINEMA.IT !!!
La rappresentazione di una società asservita e manipolata da oscuri cospiratori è una delle tematiche più frequenti del cinema fantapolitico ed anche la presenza della componente ludica come elemento catalizzatore di questa dipendenza (dal capostipite "Rollerball" di cui esiste pure un inguardabile remake a "The running man" di PM Glaser con Schwarzenegger) è solo una variante, peraltro piuttosto sfruttata in questo tipo di operazioni.
In questo caso il grande fratello di turno risponde al nome di Ken Kastle, un genio del male che produce giochi, in cui l'elemento virtuale viene sostituito da esseri umani in carne ed ossa che lottano per la propria sopravvivenza, sullo sfondo di uno scenario apocalittico.
Il successo del prodotto e la legittimazione del controllo sociale vengono messi in discussione quando Kable, la star indiscussa del gioco si ribella al suo destino di schiavitù ed inizia un percorso in cui la vendetta personale diventa il viatico per il ritorno alla vita.
CONTINUA A LEGGERE LA RECENSIONE SU ONDACINEMA.IT !!!
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anteprime,
recensioni
Film in sala dal 16 ottobre
Up
( Up )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Docter, Bob Peterson
Di me cosa ne sai
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Jalongo, Francesco Apolloni, Giulio Manfredonia
Funny People
( Funny People )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Judd Apatow
Genova
( Genova )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Michael Winterbottom
Halloween II
( H2: Halloween II )
GENERE: Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Rob Zombie
Lo spazio bianco
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Francesca Comencini
Orphan
( Orphan )
GENERE: Horror, Thriller, Mystery
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jaume Collet-Serra
Viola di mare
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Donatella Maiorca
( Up )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Docter, Bob Peterson
Di me cosa ne sai
GENERE: Documentario
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Jalongo, Francesco Apolloni, Giulio Manfredonia
Funny People
( Funny People )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Judd Apatow
Genova
( Genova )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Michael Winterbottom
Halloween II
( H2: Halloween II )
GENERE: Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Rob Zombie
Lo spazio bianco
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Francesca Comencini
Orphan
( Orphan )
GENERE: Horror, Thriller, Mystery
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jaume Collet-Serra
Viola di mare
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Donatella Maiorca
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film in uscita 2009
lunedì, ottobre 12, 2009
TENDERNESS
La cognizione del dolore attraverso i gesti di una quotidianità, sofferta ma indispensabile a reiterare la sensazione di esistenza, altrimenti percepità come vuoto asettico ed impalpabile. Il tentativo di afferare la vita riproducendola secondo lo schema preordinato di un misterioso demiurgo. Strade solitarie ed interminabili si presentano davanti ai tentativi di cambiare lo stato delle cose. Eric Poole è un diciottenne che ha ucciso i propri genitori per preservare un terribile segreto.
Uscito anzitempo di prigione trova ad aspettarlo il detective Cristofuoforo (Russel Crowe), convinto della sua natura psicopatica e deciso ad impedire nuovi misfatti, e Lori, una ragazza che in qualche modo sembra essere a conoscenza dell’oscuro passato del giovane. Un triangolo eterogeneo ma unito da una condizione di sofferenza che assume le forme di una dipendenza verso le vite degli altri, scandagliate con metodicità ed umana dedizione (il detective), distorte dalla fantasia di un adolescenza turbata dalle precoci attenzioni degli adulti (Lori), ed infine distrutte (Eric) nel tentativo di afferrare quella felicità negata dalla natura della propria condizione.
Roger Polson dopo una manciata di esperienze dedicate al cinema di genere esordisce in quello d’autore con un opera che deve molto al cinema di Clint Eastwood, a cominciare dall’aspetto visuale, calorosamente raggelato dalla telecamera di Tom Stern, operatore di fiducia nel magnifico settantenne, e anche qui capace di fondere la tensione morale dei personaggi, sempre sul punto di esplodere in un azione definitiva, con l’immota presenza di un paesaggio, geografico ed umano, che sembra confermare nella sua distaccata partecipazione, le insondabili ragione delle meccaniche celesti. Polson filma con discrezione, lasciando fuori campo sensazionalismi e facili pruderie, per concentrarsi sul privato di una vicenda che inizia come un road movie, con i due giovani che si avviano verso un fatidico appuntamento, attraverso un America da quadro Hopperiano, frantumata in una costellazione interminabile di spazi limitati e prospettive siderali, ed assume le caratteristiche di una detection, quando Cristuoforo, a sua volta prostrato da un privato altrettanto straziante (deve accudire la moglie in coma vegetativo), insegue la coppia con un attitudine che trova le proprie motivazioni nel tentativo di arginare, anche per interposta persona, la scia di afflizione che lo pervade. La macchina da presa si cala lentamente nell’inferno quotidiano rispettando gli spazi del pudore e così facendo sembra offrire i margini di un possibile cambiamento; movimenti che traducono in immagini i pensieri dei personaggi, senza alterare la registrazione del presente.
Abiti stazzonati e fisico appesantito Russel Crowe nella parte del malinconico poliziotto è perfetto nel tratteggiare l’impotenza di un uomo che non riesce a cambiare il corso delle cose, mentre i due giovani attori, John Foster, nei panni di un uomo dominato dai propri fantasmi e Sophie Traub, in quelli della innamorata non corrisposta hanno la giusta dose di freschezza, per rappresentare lo smarrimento di una gioventù precocemente interrotta. Il film, ancora non distribuito sul mercato americano, forse per l’eccessivo pessimismo o più probabilmente per l’understatement interpretativo della sua star, è tratto da un romanzo del defunto Robert Cormier, autore di un certo interesse per il modo crudo e diretto con cui affronta il disagio del mondo giovanile. Una bella sorpresa che gli esercenti non dovrebbero far mancare al pubblico nostrano.
Uscito anzitempo di prigione trova ad aspettarlo il detective Cristofuoforo (Russel Crowe), convinto della sua natura psicopatica e deciso ad impedire nuovi misfatti, e Lori, una ragazza che in qualche modo sembra essere a conoscenza dell’oscuro passato del giovane. Un triangolo eterogeneo ma unito da una condizione di sofferenza che assume le forme di una dipendenza verso le vite degli altri, scandagliate con metodicità ed umana dedizione (il detective), distorte dalla fantasia di un adolescenza turbata dalle precoci attenzioni degli adulti (Lori), ed infine distrutte (Eric) nel tentativo di afferrare quella felicità negata dalla natura della propria condizione.
Roger Polson dopo una manciata di esperienze dedicate al cinema di genere esordisce in quello d’autore con un opera che deve molto al cinema di Clint Eastwood, a cominciare dall’aspetto visuale, calorosamente raggelato dalla telecamera di Tom Stern, operatore di fiducia nel magnifico settantenne, e anche qui capace di fondere la tensione morale dei personaggi, sempre sul punto di esplodere in un azione definitiva, con l’immota presenza di un paesaggio, geografico ed umano, che sembra confermare nella sua distaccata partecipazione, le insondabili ragione delle meccaniche celesti. Polson filma con discrezione, lasciando fuori campo sensazionalismi e facili pruderie, per concentrarsi sul privato di una vicenda che inizia come un road movie, con i due giovani che si avviano verso un fatidico appuntamento, attraverso un America da quadro Hopperiano, frantumata in una costellazione interminabile di spazi limitati e prospettive siderali, ed assume le caratteristiche di una detection, quando Cristuoforo, a sua volta prostrato da un privato altrettanto straziante (deve accudire la moglie in coma vegetativo), insegue la coppia con un attitudine che trova le proprie motivazioni nel tentativo di arginare, anche per interposta persona, la scia di afflizione che lo pervade. La macchina da presa si cala lentamente nell’inferno quotidiano rispettando gli spazi del pudore e così facendo sembra offrire i margini di un possibile cambiamento; movimenti che traducono in immagini i pensieri dei personaggi, senza alterare la registrazione del presente.
Abiti stazzonati e fisico appesantito Russel Crowe nella parte del malinconico poliziotto è perfetto nel tratteggiare l’impotenza di un uomo che non riesce a cambiare il corso delle cose, mentre i due giovani attori, John Foster, nei panni di un uomo dominato dai propri fantasmi e Sophie Traub, in quelli della innamorata non corrisposta hanno la giusta dose di freschezza, per rappresentare lo smarrimento di una gioventù precocemente interrotta. Il film, ancora non distribuito sul mercato americano, forse per l’eccessivo pessimismo o più probabilmente per l’understatement interpretativo della sua star, è tratto da un romanzo del defunto Robert Cormier, autore di un certo interesse per il modo crudo e diretto con cui affronta il disagio del mondo giovanile. Una bella sorpresa che gli esercenti non dovrebbero far mancare al pubblico nostrano.
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