Sacro GRA
di Gianfranco Rosi
genere, documentario
Italia 2013
durata, 93'
Qual'è
il
punto in cui la realtà incontra la finzione, e quali sono gli accordi
che permettono di intercettare la loro coabitazione all'interno nel cinema
contemporaneo. E' innegabile che dopo l'11 settembre la percezione delle
immagini non sia stata più la stessa. Gli aerei che si schiantavano
sulle torre gemelli sembravano il frutto del più spettacolare dei
blockbuster hollywoodiano ed invece rappresentavano la fine di un
epoca che si chiudeva in immane tragedia. Di fronte ad un qui ed ora
così amplificato il cinema si era spaccato letteralmente in due,
rimanendo indifeso rispetto ad un senso di assoluto talmente forte da
essere difficilmente riproducibile nella finzione dello schermo. Bisognava
non dico reinventare la settima arte, ma innestare in una forma
improvvisamente invecchiata un'attualità che solo il reale poteva darle.
Parlare del presente, oltrepassando convenzioni e simulacri esigeva
una formula che tenesse conto tanto nei mezzi produttivi (necessità di
apparati di riproduzione flessibili e poco ingombranti, troupe ridotte
all'osso) quanto nelle strategie narrative (sceneggiature ridotte
all'osso o praticamente inesistenti) di una realismo appena filtrato
dalla capacità demiurgiche del regista, e quanto mai aperto ad ospitare
brandelli di pura esistenza.
Il cinema diventava sempre più
documentario
("United 93", 2006 di Paul Greengrass), il documentario sempre più
cinema (se ne potrebbero citare
moltissimi, ma valga per tutti "Grizzly Man" di Werner Herzog) aprendo
la strada ad un ibridazione che di li in poi avrebbe reso difficile
catalogazioni e codificazioni in un senso e nell'altro. Per quanto gli
riguarda il cinema
italiano
ha reagito a questa nuova istanza in maniera laterale e diremo quasi
nascosta, iniziando una ricerca formale che il documentario ha
assecondato fino a diventare l'avanguardia di un movimento
pigramente assestato sulle sicurezze e gli incassi della risata e
del buon umore. Pietro Marcello, Tizza Covi e Rainer Frimmel, Alfredo di
Costanzo, Balsamo e Gabrielli ma anche Pippo del Bono ed il duo Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi appena
visti a Locarno) sono solo alcune delle punte di diamante di un Italian doc
proiettato meritatamente alla conquista delle manifestazioni più
prestigiose del globo per la capacità di fondere in un solo movimento
quello che accade con ciò che è predisposto. Fatti i conti con l'esigenza d'informazione e con
tutto quello che ne consegue (il formato dossier, gli intervistatori
invisibile, microfoni e telecamera fissa, fotografia improvvisata) questo
cinema ha acquistato una fluidità ed una capacità di raccontare sempre
più rivolta agli aspetti personali ed intimi dell'individuo. Il Journal ed
in generale la messinscena della dimensione privata si è affiancata al
reportage epocale ed all'istant movie, provocando una specie di
rivoluzione culminata appunto nella vittoria veneziana di "Sacro Gra" di
Gianfranco Rosi, leggittimazione ai massimi livelli di questo fenomeno. Il
film di Rosi è per antonomasia epressione del tempo presente a
cominciare dai presupposti produttivi, testimoniando un modo di far
cinema che riesce a raccontare riducendo i costi (set prelevati dal
quotidiano ed assenza di attori professionisti) ed al contempo
a rafforzare il potere persuasivo derivato dall'essere rappresentazione di
ciò che già esiste. Il raccordo anulare dunque e con lui il paesaggio
umano e geografico che si sviluppa nelle zone limitrofe alla città
capitolina. Un serpente che si aggomitola sull'urbe richiudendola in un
vortice di movimento e decelerazioni. Da una parte il flusso di macchine
anonimo e ripetitivo, dall'altra i personaggi di un umanità (intesa dal
punto di vista emotivo) in via d'estinzione. Due poli opposti e
coincidenti nell'andamento di un film che si mantiene nel particolare
(in certi casi assomigliando ad un almanacco del giorno dopo pronto ad
illustrare mestieri ed attitudini) ma al contempo diventa astrazione di
un mondo che procede a scarto ridotto rispetto alla velocità della
modernità, e per questo destinato a diventare la risacca di ciò che è
diventato desueto: non solo il lignaggio aristocratico declassato a
ricordo di un passato glorioso che esiste solo in qualche liturgia dimenticata ma
anche il fotoromanzo girato usufruendo della comodità di una
macchinetta fotografica digitale, al pescatore di anguille artefice di
un'artigianalità solitaria ed ostinata, capace di far diventare
importante un cibo dimenticato ed il palmologo intento a gareggiare con i
cicli naturali ed i suoi rappresentanti, ed in particolare l'insetto
che si deposita su quegli alberi fino a distruggerli.
Azioni inserite all'interno di un esistenza che rimane sconosciuta come quella degli inquilini del palazzo che si affaccia sulle strade del raccordo, intenti a riportare le parole di un inquietudine vestita di abitudine e rassegnazione simpaticamente proposta nellla sequenza che ci congeda da un padre e da una figlia con quest'ultima che "mette a letto il padre" preoccupato delle sorti sentimentali di lei. Rosi lavora su un'oggettività rielaborata da un approccio che tiene conto delle tecniche proprie del cinema di finzione, con persone che recitano se stesse, una fotografia curata ed ubiqua (gli interni del palazzo sono ripresi dall'esterno posizionando la telecamera in un punto di vista immaginario e sospeso nel vuoto) ed una poetica che deve molto alla commistione tra il naturalismo delle interpretazione e la capacità di mettere in scena di chi dirige come si evince nello struggente ed insieme tenero quadretto di malinconie familiari tra una madre ed un figlio che Rosi riprende senza un un copione già scritto ma con una luce contrastata che dona a quel momento un aggiunta di bellezza estetica ed intensità emotiva.
Chiamando
a raccolta figure umane ed elementi del paesaggio, Rosi è bravo a
trasformare l'unicità dei singoli frammenti in un unisono capace di
definire una dimensione quotidiana aliena ed allo stesso modo vicina.
Quello che non convince è invece il rapporto tra lo sviluppo urbanistico
e stradale rappresentato dal Grande Raccordo Anulare e la sensazione di
isolamento e straniamento delle vite che il film mette in gioco. Se è
chiara l'allusione ad una prospettiva esistenziale che differisce a
secondo della posizione che si occupa nello scacchiere della vita (la
presenza di una metà individuata dall'insistenza del traffico stradale
opposta alla mancanza di orizzonti di chi da quel movimento ne rimane
sostanzialmente escluso) il sacro GRA del titolo non riesce a far
sentire la sua indispensabilità rispetto al puzzle di umori che
lambisce il suo perimetro. Senza la forza di quel vincolo le microstorie
di Rosi sembrano perdere parte della loro urgenza ed in qualche
passaggio finiscono per retrocedere ad anedotti poco originale,
azzerando quel senso di scoperta a cui il materiale raccolto da Nicolò
Bassetti e ripreso da Rosi invece aspira. Azioni inserite all'interno di un esistenza che rimane sconosciuta come quella degli inquilini del palazzo che si affaccia sulle strade del raccordo, intenti a riportare le parole di un inquietudine vestita di abitudine e rassegnazione simpaticamente proposta nellla sequenza che ci congeda da un padre e da una figlia con quest'ultima che "mette a letto il padre" preoccupato delle sorti sentimentali di lei. Rosi lavora su un'oggettività rielaborata da un approccio che tiene conto delle tecniche proprie del cinema di finzione, con persone che recitano se stesse, una fotografia curata ed ubiqua (gli interni del palazzo sono ripresi dall'esterno posizionando la telecamera in un punto di vista immaginario e sospeso nel vuoto) ed una poetica che deve molto alla commistione tra il naturalismo delle interpretazione e la capacità di mettere in scena di chi dirige come si evince nello struggente ed insieme tenero quadretto di malinconie familiari tra una madre ed un figlio che Rosi riprende senza un un copione già scritto ma con una luce contrastata che dona a quel momento un aggiunta di bellezza estetica ed intensità emotiva.
Filmografia essenziale:
Il passaggio della linea (2007) di Pietro Marcello
Un'ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi
Il mundial dimenticato (2012) di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni
Noi non siamo James Bond di Balsamo e Gabrielli
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