venerdì, dicembre 19, 2014

"Into my way of things: the Curtis' division".

- a margine di "Control" di A.Corbijn -


"Can you stay for these days ?"
- Joy Division -


L'esistenza, allora, che importanza ha? Io esisto al meglio che posso. Il passato e' parte del mio futuro, ora. Il presente e' inaccessibile" - Heart and Soul - Versi/riflessioni, questi, sullo scabro crinale tra desolato bilancio intimo e lucida affermazione di una poetica, che Ian Curtis - voce e autore delle liriche dei brani dei Joy Division - elabora durante l'estremo interludio creativo precedente la sua morte (a nemmeno ventiquattro anni, un giorno di mezzo Maggio del 1980: morte a lungo evocata in innumerevoli allusioni, ed infine trovata nella cucina della moglie Deborah - dal cui testo "Touching from a distance" il film di Corbijn e' in parte tratto - nella foggia di una corda con cui impiccarsi) e che scandiscono le prime immagini di un'opera contrassegnata dallo sconforto, da un silenzio coriaceo, da una sorta di afflitta inesorabilità vocata all'annichilimento: impossibilita' fatta materia di liberarsi dalla solitudine e dal disgusto; persino inetta a produrre il tentativo di lenirli condividendoli. Soprattutto - e per l'esattezza - caratterizzata dalla distanza, a dire da quella condizione dello spirito che guarda al mondo con l'impassibilità inquieta che si riserva alla contemplazione di un reperto di archeologia avveniristica.

Distanza dalle prospettive, innanzitutto (l'ambiente retrogrado e conformista della provincia britannica della meta' degli anni '60 - Macclesfield, quasi un tiro di schioppo da Manchester - su cui sarebbe tornato, altrettanto sconsolato, altrettanto impietoso, Morrissey qualche anno dopo -: crogiolo logoro a misura di destini diluiti in lavori umili, spesso mal pagati, a loro volta passaporti esenti da timbro per vite mediocri, invisibili, le luci già accese in casa in piena mattina...). E distanza da orizzonti non necessariamente angusti e intrinsecamente violenti ("L'ampia distesa di villette a schiera posta dietro la stazione ferroviaria di Macclesfield venne demolita nei tardi anni '60 per fare spazio ad un nuovo complesso di case popolari. Ciascun edificio era identico agli altri. Con quei lunghi ballatoi in comune e le squallide scale, quei palazzi erano destinati a diventare luoghi ancora più malsani delle abitazioni che avevano sostituito" - D.Curtis, op.cit.: descrizione sovrapponibile quasi alla lettera ai "quartieri sinistri come obitori" del Laforgue più inconsolabile e con puntualità annotata dallo stesso Ian, a testimoniare, al tempo, l'intollerabilità di una condizione nella sua indifferente evidenza senza scampo e il sospetto, altrettanto pacifico quanto tendenzialmente rassegnato, circa il suo riproporsi nel futuro immediato in forme ancor più radicali e spietate: "Ci si può aspettare che si materializzi altro che panico dell'era moderna dietro colline lontane, in città violente, paesi quieti e case di proprietà ?" - I.Curtis, appunti - come pure "Looked beyond the day in hand/There's nothing there at all" - Twenty-four hours -). Più nel profondo, distanza dalle aspirazioni e dai sentimenti (il timbro cupo, mai disteso o ingenuamente assecondato, che marchia il rapporto - almeno quello di Curtis - con il successo: consacrazione di una propria via all'espressione artistica, da un canto, e malattia diffusa, perverso rapporto parassitario con platee di sconosciuti a volte adoranti, di certo voraci/insaziabili, dall'altro; l'ambiguità interiore e la croce del senso di colpa - di qui la moglie Deborah; di la' Annik Honore', giornalista belga scomparsa nel Luglio scorso, tra l'altro ferma nel ribadire il carattere essenzialmente platonico della sua relazione con Ian - come poli opposti ma di uguale intensità di un animo acerbo, quindi confuso, di per se' tagliato sull'insoddisfazione e indirizzato anzitempo verso lo scoraggiamento); dal gelo secreto dalla prematura coscienza della propria anomalia (dall'epilessia resa solo più evidente), spinta oltre le soglie di un insistito autolesionismo : "Empty station/Too long waiting/In a hurry to get somewhere/Divorced from anythng so early/All a waste of nothing really/You were never there, always out of touch" - Out of touch -


D'altra parte, proprio uno sguardo attonito e lontano s'irradia dal viso chiaro di Curtis - come dall'indagine silenziosa ma perentoria di Corbijn: prevalenza d'inquadrature frontali con scarso movimento al loro interno; sfuggenti squarci di paesaggio rurale od urbano, a mattino inoltrato o sul far della sera; piani piuttosto stretti sui corpi e su volti poco propensi al dialogo o come per mezzo di quello distolti da un più serrato lavorio interiore - nel tentativo (e con la speranza) d'individuare una via di fuga praticabile dai ben presidiati possedimenti dell'omologazione e del grigiore, e col persistente rovello che, forse, anche la grande illusione incarnata dalla Musica cela al suo interno compartimentazioni e trappole non dissimili da quelle da cui già quasi pare impossibile stare alla larga ("You've been seen things, in the darkness, not in learning/Hope the truth will pass" - No love lost -), gettando sulla vicenda e sui destini in essa coinvolti ulteriori sprazzi di una luce avvilita, per niente indulgente, in grado cioè di aggiungere separazione a separazione e, che, nella tavolozza di "Control" (a proposito: non può darsi alcun controllo visto che, oltre lo smarrimento e la stessa patologia - l'epilessia, come accennato - testimoniata e patita, ciò che e' dato arranca "On the wasteline/Heartbreak, mainline.../All a waste of nothing really/Arrive too late - don't you know you're out of touch ? - Out of touch -) assume i toni di un b/n solo in apparenza tale (Corbijn viene dalla fotografia), in realtà di continuo mutevole in un gioco d'ombre fatto di chiaroscuri in cui i grigi spesso sbiadiscono entro bianchi opachi e i neri perdono profondità adagiandosi in oscurità indecise, spalancate su qualunque esito ("This is the hour when mysteries emerge/A strangeness so hard to reflect" - Komakino - tra l'altro, ennesimo sentiero interrotto dei Division, questo; percorso di straziante attualità nella sua amalgama di idealismo masochista e preveggenza senza conforto, sul tappeto di un illusorio moto perpetuo dall'ordito di danza giapponese)...


Come si suole dire, una delle caratteristiche della vera arte e'/dovrebbe essere quella di precorrere i tempi o quanto meno di leggere le fratture nel suo tessuto al momento in cui esse si aprono e restano, sovente, perlopiu', nella considerazione generale, ignorate o fraintese. E' noto che le vicende umane prevedono, nella loro relativa circolarità, l'alternarsi di periodi di stabilita' - e magari di benessere - ad altri di tensioni e contrasti: alle propaggini di ognuno di questi intervalli, prendono forma, spesso come estenuazione di uno dei due estremi, più o meno lunghi interludi che - a volte rabbiosi, non e' detto intrisi di fiducia, comunque ambivalenti - traghettano speranze, illusioni, interrogativi, da un contesto logoro, come che sia sperimentato a fondo, ad uno in ogni caso vergine, nel senso di esente da controprove. La seconda meta' degli anni '70 rappresenta proprio uno di questi spartiacque, e la musica dei Joy Division - per ciò che attiene la cultura giovanile o, genericamente, la cultura di massa - ne e' stata una delle testimonianze, sebbene laterali e circoscritta entro un intermezzo fugace, tra le più chiaroveggenti oltreché sofferte ("All the noise in too much/And tue seeds that are sown /Are no longer your own... Thousand words are spoken loud/Reach the dumb to fool the crowd" - Leaders of men - ).
L'incedere percussivo secco e profondo di Hook (basso) e Morris (batteria); i fendenti gelidi della chitarra di Sumner; il semi-recitativo baritonale di Curtis, tacendo il lavoro oculatissimo di sperimentazione sonora elaborato per il gruppo da Martin Hannett, parlano già, infatti e a freddo, verrebbe da dire, di tempi - i famosi/famigerati anni '80 - che non solo sono ancora intorno a noi ma nei decenni abbiamo ampiamente interiorizzato a colpi di atteggiamenti, di riflessi condizionati, di aspettative più o meno consce, passibili - queste e quelli - di mere trasformazioni quantitative, sul doppio registro della loro sistematica velocizzazione, da un lato, e dall'accumulazione/sostituzione, dall'altro ("Left to blind destruction/Waiting for our sight" - Transmission - ). Come intendere, altrimenti, la meraviglia desolata del ritornello di "The only mistake", con la voce cavernosa di Curtis a snocciolare versi come da una cabina telefonica sistemata chissà dove, di sicuro ben lontano dal-centro-dell'Impero: "Strain, take the strain/These days we love". Stesso discorso per l'ultima strofa di "These days" (ancora questi giorni, di la' da venire, in teoria ma in un certo qual modo già visti - se non vissuti - senza trasporto, senza desiderio): "We'll drift through it all/it's the modern age"; brano la cui tensione interna prelude, di fatto, all'instaurazione di un nuovo ordine - i New Order, appunto, dopo l'uscita di scena di Curtis, lo smarrimento iniziale e il tentativo di opporsi alla frustrazione da parte dei tre superstiti - proprio allo scopo di sollevare questioni nuove a fronte di scenari inediti.


La presa e la stretta di una morsa dalla quale non e' chiaro se e come riusciremo ad affrancarci ("Looking ahead in the grip of each fear/Recalls the life that we knew" - Komakino - ), abile come e' stata a capovolgere completamente l'assillo di un disagio ampio e doloroso che dalle sollecitazioni degli anni '60 s'era andato via via - di delusione in delusione, e' leale ribadirlo - sedimentando nelle incognite di un conflitto psicologico segnato da pulsioni di disgusto e conseguente distacco dalla realtà con annesse nemmeno tanto striscianti tentazioni autodistruttive, nell'assunzione passiva quanto compiaciuta di un ventaglio limitato di comportamenti fondati su un superficiale piacere/-rsi, sulla priorità del superfluo, su una sorta di soffice oblio placebo, percorre in lungo e in largo il lavoro di Corbijn. L'iconografia stessa dei Joy Division, del resto, compiuta nella sua essenzialità fin dagli esordi e ben restituita dal regista/fotografo olandese - abiti dimessi neri o comunque scuri, dal taglio anonimo o démodé, al limite di una crepuscolare trasandatezza; il frasario laconico e le pose raccolte e silenziose; i rari sorrisi, spesso solo accennati - retrospettivamente si staglia con ancora maggiore nitidezza sullo sfondo di questo contesto quasi destinato ad imporsi e che, nel concreto, pressoché senza colpo ferire, nel volgere di qualche stagione, ha, per così dire, ritorto il furore disordinato e programmaticamente senza speranza del punk - dal quale, bene o male, i Division avevano attinto per rinvigorire di energia residua la fibra scoperta delle loro melodie tenute insieme dalla prostrazione - traendone un languore innocuo, colorato e senza pensieri, sostanziato da un ottimismo che per la sua parte migliore era più una reazione alle sistematiche e cocenti sconfitte dell'immaginazione negli anni precedenti che l'affermarsi di un autentico - perché reale, operante e significativo - nuovo-spirito-dei-tempi ("The things that we've learnt are no longer enough/No language, just sound/That's all we need to know/To synchronise hearts to the beat of the show" - Transmission - ). L'abbraccio, progressivo ma inesorabile, di una spensieratezza mani e piedi ben salda alle luccicanti zavorre del consumo e del disimpegno, favorita anche dal cambiamento del quadro economico e oggi come oggi data per scontata e senza alternative da milioni di persone, alla luce di un'esperienza bruciante e travagliata come quella di Curtis e soci - alla fin fine,
quest'ultima, quasi struggente dato il suo modo tragico ma austero di ritirarsi nel buio un attimo prima che questo prenda il sopravvento mascherandosi da evidenza tanto abbagliante da impedire di vedere il solco che andava aprendosi tra due mondi, uno dei quali, a bagliori scemati, sarebbe sprofondato di colpo nel passato - racconta e riafferma, così, quella distanza da cui siamo partiti, evidenziando altri punti di vista possibili: ad esempio l'impotenza, frammista a senso d'inutilità e ansia per il futuro, che impedisce di aggrapparsi ancora a modelli e riferimenti crollati una volta chiamati a misurarsi con la Storia (non a caso il primo mini-EP dei Division reca il titolo, che e' già un'istanza, di "An Ideal for living", e siamo a cavallo tra il '77 e il '78); o anche la constatazione in base a cui il disfarsi di quei paradigmi concorre a favorire l'affermarsi di una frammentazione sociale - che e' sempre, innanzitutto, ricordiamolo, un fatto privato che interessa l'individuo, i suoi propositi, i suoi sogni, le sue disperazioni ("Guess your dreams always end/They don't rise up just descend/But I don't care anymore/I've lost the will to want more" - Insight - ) - da intendersi in primis come il venire meno degli stimoli ad indagare la natura delle metamorfosi che essa subisce, ripulendo, certo, l'orizzonte dai rottami delle ideologie e dei massimalismi ma pure aprendo la strada ad una convivenza che sempre più somiglia ad un'asettica sommatoria di monadi isolate, perplesse, disorientate, di fatto abbandonate a se stesse al cospetto del Mercato: derive anguste e spersonalizzanti che i Joy Division e Curtis in particolare sembrano aver preannunciato o, quantomeno, messo in conto, al punto da arrendersi in un giorno di Maggio all'illusione che bastasse anche solo una corda per arginarle. "All the conflicts inside/all the problems beside/As the questions arise/and the answers don't fit/Into my way of things/Into my way of things... (Komakino).

TFK

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