The wolfpack
di C.Moselle
Usa, 2015
genere, documentario
USA 2015
durata, 87'
La
famiglia Angulo - padre sudamericano di ceppo incaico, madre inurbata
dal Midwest e sette figli, ognuno intestatario di un nome in sanscrito
(ad esempio: Jagadisa, Mukunda, Narayama) - vive da sempre in un
appartamento del Lower East Side di NY, nel senso che da li',
praticamente, non s'è mai mossa, se non per gli approvvigionamenti e
solo nelle persone dei genitori. I ragazzi, sei maschi e una femmina di
nome Krsna, passano le loro giornate guardando la Tv e ricostruendo alla
perfezione dialoghi di interi film - da "Pulp fiction" alle "Iene",
passando per uno dei tanti "Batman", di cui poi, spesso e volentieri,
reinterpretano più scene con tanto di costumi e improvvisati oggetti di scena.
La separazione forzosa dal mondo teorizzata in
via prioritaria dal padre ("pressoché certo di essere Dio e di sapere
tutto", come osserva uno dei figli), costruisce negli anni un microcosmo
a tenuta stagna entro cui, da un lato, si lascia di proposito
serpeggiare quella sottile angoscia riconducibile ad una sorta di stato d'assedio permanente
in base al quale l'immagine della realtà viene con metodo tratteggiata
secondo uno schema ripetitivo che privilegia la paura: paura delle
droghe; paura di insegnamenti fuorvianti (i ragazzi non frequentano la
scuola ma vengono educati dalla madre, circostanza che implica,
tra l'altro, la corresponsione di un assegno mensile erogato dai Servizi
Sociali e che rappresenta, di fatto, l'unica vera fonte di
sostentamento del nucleo familiare, avendo il padre decretato - a mo' di
rifiuto delle convenzioni condivise e contro il governo federale
considerato di per se' coercitivo e quindi non riconoscibile come
autorità - il rifiuto del lavoro); paura di germi e contaminazioni: in
particolare, paura di un benché minimo contatto con gli altri esseri
umani. Dall'altro, invece, si lascia, quasi senza discernimento, corso
libero all'immaginazione della prole per l'edificazione di una realtà
parallela quasi per intero cementata da modelli cinematografici e
televisivi, peraltro dal padre stesso messi a disposizione per il
tramite di un nutrito catalogo di DVD.
Il
perverso equilibrio instaurato a partire da tali premesse, com'e'
prevedibile, prende a mostrare delle crepe allorquando - tra patemi,
comprensibili ripensamenti e sensi di colpa - quel prototipo di mondo (e
non secondariamente in ragione dell'età crescente dei giovani), si
rivela troppo angusto per menti in formazione e perciò stesso curiose.
Un colpo di mano singolo, poi, messo a segno nel gennaio 2010 da uno dei
sei ormai diventato adolescente, sebbene risoltosi in un estemporaneo
soggiorno in un reparto psichiatrico e nel ritorno coatto a casa dopo il
fermo di Polizia di prammatica (il ragazzo, pur deciso nel gesto, era
sceso in strada per la sua ricognizione tra passanti e negozi con una
grossa maschera posticcia ad occultargli la testa), innesca un effetto
cascata su tutti gli altri, che condurrà il gruppo/branco (il "wolfpack"
del titolo) alla progressiva scoperta di ciò-che-sta-fuori, con tutte
le conseguenze del caso (la prima volta che insieme raggiungono la
spiaggia di Coney Island, per dire, devono superare una sorta di acclimatazione alla luce diretta del sole e una qual ripulsa nei confronti dell'oceano).
Il
documento dell'esordiente Moselle - presentato e premiato al Sundance -
ha il merito di proporre, scandendo le tappe di un faticoso
affrancamento e per mezzo di sequenze spesso sgranate, assai ravvicinate
- in specie sui volti - come anche assemblate dal repertorio amatoriale
degli stessi Angulo, un ennesimo referto circa una delle tante
possibili contro-derive dell'american way of life, in cui si
mescolano, mai amalgamandosi del tutto, scetticismo, prevaricazione,
sincera volontà di auto-emarginazione, rifiuto - con la socialità -
dell'idea stessa di homo sapiens come essere comunitario. E se il
passo della narrazione e' vigile nell'evidenziare le contraddizioni del
comportamento spesso ambivalente dei ragazzi - giovani lupi,
appunto, divisi tra la sottomissione ai rigidi doveri del (capo)branco,
in fondo mai del tutto e non da tutti superata, e la smania di
cimentarsi con le cose al fine di comprendere se la competizione su
scala allargata non solo sia possibile ma sia sul serio da rigettare in toto -
e' pur vero che la sua linearità lambisce sovente il rischio di una
mera riproposizione dell'assunto di partenza, stemperandosi a volte
nella circolarità dipendenza-agnizione-reazione, cosa che, comunque, non
intacca la possibilità di una sincera immedesimazione.
TFK
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