Quanto c’è di te
in “Pecore in erba”.
A parte gli aspetti produttivi che mi rispecchiano nella
scelta di ambientare la storia a Trastevere, dove sono nato e cresciuto, e per
il fatto che parte della troupe era
composta da persone che conosco da sempre, direi che “Pecore in erba” è la
storia di un personaggio, Leonardo, in cui mi rispecchio soprattutto per quel sentimento di incomprensione che
lui si porta dietro. C’è poi uno sguardo ironico e il gusto per la satira che
fa parte del mio modo di guardare alla realtà. Al contrario, la presenza del
contesto ebraico è venuta da sola, così come l’umorismo tipico di questa
cultura che ho utilizzato come arma da usare contro il senso di minaccia che
attraversa la storia. A questo proposito mi sento di poter dire che la cosa più
ebraica del film consista nella possibilità di osservare le cose con occhi
diversi, proprio in ragione del mio essere allo stesso tempo italiano ed ebreo.
Com’è nato il film e perché la scelta del mokumentary.
Lo spunto è stato quello di rovesciare i termini del
discorso, immaginando di inserire il tema dell’antisemitismo all’interno di una
società in cui tale sentimento si rivela un boomerang per chi lo usa. Questa
opzione mi ha permesso di rompere gli schemi e l’utilizzo del mokumentary è stato solo un modo per rafforzare la veridicità di
ciò che volevo raccontare.
Perché hai deciso di non far parlare il protagonista del
film.
E’ un espediente che mi consentito di sottolineare la
retorica che esiste dietro la persecuzione degli ebrei. Leonardo nasce
antisemita e non ha bisogno della parola per esprimere il suo odio; a
differenza degli altri che ne hanno necessità per formulare l’ideologia capace
di giustificare i propri attacchi.
Come ha reagito la comunità ebraica all’uscita del film.
Non ho fatto il film pensando alla comunità ebraica e al
momento non so dirti quali siano state le reazioni. Prima dell’uscita credevo
che sarei stato attaccato da tutte le parti e invece, a eccezione di qualche blogger
schierato su posizioni radicali e filo palestinesi, non ho ricevuto
critiche in tal senso anche perché “Pecore in erba” non sposa nessun tipo di
politica o ideologia.
L’ultimo festival di Venezia a cui anche tu hai
partecipato ha visto l’esordio di un gruppo di registi che hanno riscosso
successo di critica e di pubblico. A questo proposito ti volevo chiedere cosa
ne pensi del momento che sta vivendo il cinema italiano.
Il difetto principale del nostro cinema è quello di
investire poco o niente sulle idee e quindi sulla scrittura. Intendo dire che
non basta avere un’idea forte per realizzare un film ma ci vogliono tempo e
soldi per realizzare un copione che funzioni. Un processo creativo
sottovalutato dai produttori, che, non a caso, tendono a risparmiare proprio su
questo punto. Poi non ci si può lamentare se il pubblico diserta le sale,
perché la ragione sta proprio nell’eccessiva semplicità e nello scarso
interesse delle storie che si raccontano.
Visto il successo di pubblico di film come “La vita è
bella” e “Train de Vie” non credi che il modo migliore per parlare della
questione ebraica sia quello di raccontarla con toni più leggeri e meno
drammatici.
Innanzitutto le tue parole mi fanno venire in mente che
troppo spesso il confine tra Shoah e
antisemitismo è troppo labile e che la tendenza sia quella di utilizzare –
sbagliando - i due termini come sinonimi. Detto questo, non penso che esista un
modo più giusto per parlare della questione ebraica anche perché non solo i
titoli a cui ti riferisci rappresentano un’eccezione in mezzo a una serie di opere drammatiche, ma anche
perché il loro successo dipende dal fatto che in generale la gente preferisce
andare al cinema per ridere e divertirsi e quindi privilegia le commedie
rispetto al resto dell’offerta.
Tornando al film “Pecore in erba” deve molto alla fisiognomica degli attori. Come sei
arrivato a scegliere gli attori.
Per me era fondamentale mettere insieme volti conosciuti e
facce di gente che non era mai stata davanti a una macchina da presa. Per
ottenere quello che volevo il lavoro di casting è stato decisivo. Visto che il
protagonista della storia non doveva parlare, ho lasciato alla mia assistente
il compito di intervistare i possibili candidati. In questo modo ho evitato di
farmi condizionare nella scelta dell’attore che per me doveva dipendere esclusivamente dall’impatto
della sua immagine. Con Daniele Giordano che nel film interpreta Leonardo
c’eravamo conosciuti sul set di “Qualunquemente” in cui recitava la parte del
figlio di Albanese, e quando c’è stato bisogno di fare il casting mi sono
ricordato di quell’incontro.
Al film partecipano nella parte di se stessi alcune
personalità della società civile e culturale del nostro paese. E’ stato
difficile coinvolgerle.
Dipende, per alcuni c’è voluto un attimo, per altri ho dovuto
faticare ed essere paziente, iniziando un
corteggiamento che è andato avanti per molto tempo. Mi piaceva l’idea di
mettere uno dietro l’altro persone cosi diverse come possono esserlo Corrado
Augias e il vichingo, personaggio che gli abitanti di trastevere conoscono
molto bene.
Pensando al film non posso non chiederti se ti è capitato
di subire discriminazioni di qualche tipo.
Come ebreo non mi sento di vivere discriminazioni diverse da
quelle che subisce un qualunque cittadino. La causa di tutto non è
l’appartenenza religiosa, ne la provenienza sociale, bensì il pregiudizio e
l’ignoranza che nel nostro paese trovano un terreno molto fertile.
Nella sequenza che precede il finale, con l’abbraccio tra
persone appartenenti a opposte fazioni volevi per caso lanciare un messaggio di
pacificazione.
No, per niente, il mio non vuole essere un film buonista,
anzi. La scena dell’abbraccio tra le fazioni rivali è stata inserita non come
segno di speranza quanto piuttosto per sottolineare la follia in cui è immersa
la nostra società. Davvero, penso proprio che nella vicenda di Leonardo non ci
sia alcun tipo di consolazione.
Discutendo del film abbiamo pensato che se esiste un
difetto, questo è legato alla sua durata
che poteva essere un poco più ridotta. Sei d’accordo.
La mancanza di soldi e quindi di tempo ha condizionato la
resa finale del mio lavoro. Bisogna tenere conto che rispetto ai normali
lungometraggi il mio ha circa 340 scene, più o meno il triplo della media
corrente. Se fosse dipeso da me avrei gestito diversamente alcune cose. Mi sono
sentito limitato dal punto di vista estetico, non potendo contare sulla
possibilità di girare con i carrelli che, come si sa, sono molto costosi. Così
è successo anche per la questione legata alla durata del film che certamente
avrebbe avuto bisogno di un montaggio migliore. Anche in questo caso la
mancanza di tempo non me l’ha
permesso. Fortunatamente accanto a me ho avuto un grande direttore della
fotografia come Andrea Locatelli con cui sono entrato subito in empatia. Il suo
talento mi ha aiutato in parte a compensare le altre carenze.
Come sei arrivato a girare il tuo primo film.
Ho lavorato otto anni come assistente alla regia di Ferzan
Ozpetek e, soprattutto all’inizio, è stato naturale identificare il cinema attraverso
il suo lavoro. Poi, con gli anni, ho sviluppato uno sguardo sempre più autonomo
che mi ha permesso di trovare la mia strada. “Pecore in erba” è nato per caso e
in qualche modo è stata la conseguenza di un avvenimento molto frustrante,
perché dopo più di due anni di lavoro alla sceneggiatura del mio primo progetto
ho dovuto metterlo da parte perché costava troppo. A quel punto il produttore
mi ha chiesto di sviluppare una vecchia idea, che avrei dovuto utilizzare per
un corto e che in seguito è diventato invece “Pecore in erba” di cui ho
scritto la sceneggiatura in un
mese e che ho girato in sei settimane.
Quali sono gli autori italiani e stranieri che apprezzi
maggiormente.
Tra gli italiani apprezzo Salvatores e Bellocchio per la
libertà con cui riescono ad esprimersi; e poi Segre, Costanzo e Diritti. Tra
gli stranieri direi Inarritu e Cronenberg, ma tieni conto che per entrambe le
categorie la lista sarebbe molto più lunga.
Con che attori vorresti lavorare in futuro.
Mi piacerebbe aver la possibilità di lavorare nuovamente con
Vinicio Marchioni e Carolina Crescentini, che hanno creduto nel film e mi hanno
dato subito fiducia. Non mi dimenticherò mai delle loro generosità.
di Adele De Blasi e Carlo Cerofolini
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