Fill the Void
Il cinema si era già occupato della comunità ebraico ortodossa ma lo
aveva fatto con uno sguardo critico volto ad evidenziarne le disfunzioni
(“Kadosh”, 1999 di Amos Gitai) oppure come sfondo per raccontare storie di genere (“Un’estranea fra di noi”,
1992 del compianto Sidney Lumet). Sguardi tutto sommato esterni ad un
panorama di valori e tradizioni refrattario a qualsiasi tentativo di
osmosi sociale e conoscitiva, e per questo vittima del pregiudizio
frutto di scarsa conoscenza. A colmare questa lacuna ci pensa il film di
Rama Burshstein, “Fill the void”, arrivato direttamente dal concorso
veneziano dove ha ricevuto parecchi consensi e vinto il premio per la
miglior interpretazione femminile andato ad Hadas Yaron per il ruolo di
Shira, la figlia di una famiglia di religione ebraica ortodossa di Tel
Aviv, messa in crisi dalla proposta di matrimonio di Yochay, il marito
della sorella improvvisamente scomparsa dopo aver dato alla luce un
bambino. Sottolineata da una fotografia che soprattutto negli esterni,
rari e delegati a scene di raccordo, è caratterizzata da una luminosità
quasi lattea, a sottolineare forse la dimensione di purezza dentro la
quale si muove ed agisce la protagonista, “Fill the Void” è soprattutto
il racconto di un lutto e della sua metabolizzazione all’interno di un
gruppo nel quale come al solito le donne fanno la parte del leone: non
solo Shira, appena diciottenne ma già pronta a diventare moglie, ma
anche la madre, deus ex machina della famiglia che progetta di farla
sposare con Yochay per colmare in qualche modo la perdita della figlia
maggiore con la presenza del nipotino altrimenti destinato a seguire il
padre in un altro matrimonio, e poi con altre rappresentanti del gentil
sesso che partecipano con le rispettive vicissitudini al gineceo
immaginato dalla regista. Accanto a loro ma separato per ruolo e
funzioni il corrispettivo maschile, detentore del potere religioso ed
impegnato a provvedere al sostentamento della famiglia. Tra questi due
fuochi si ritrova con mille tormenti e molte responsabilità (la madre
arriva a rinfacciargli la propria infelicità quando la ragazza rifiuta
la proposta di Yochay) Shira, il cui percorso di consapevolezza
diventerà il termometro esistenziale e psicologico dell’intera comunità
Chiamata in causa in prima persona per il fatto di appartenere al medesimo ambiente, la Burshstein sa di cosa parla e lo racconta riuscendo ad integrare, all’opposto di quanto aveva fatto Brillante Mendoza con il suo “Thy Womb”, altro film del concorso veneziano, aspetti antropologici (legati alla rappresentazioni delle liturgie e delle consuetudini) e funzione narrativa. Nel far questo la regista è brava a far sentire quanto spazio abbia nella formazione dei caratteri e delle psicologie, e quindi delle loro scelte, il fervore religioso ed il rispetto delle regole nelle quale sono immersi. La dimensione individuale, quella in cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti con le proprie aspirazioni, e quella collettiva, in cui identità ed appartenenza vengono leggittimate dalla condivisione delle gioie e dei dolori, si traducono in una messa in scena un po’ rigida ma comunque efficace, che alterna momenti di puro intimismo ad altri di sfrenata convivialità con numerose scene di canti e di balli. Partecipando al dramma dei personaggi – la telecamera è quasi sempre incollata alle facce ed ai corpi – ed evitando di schierarsi o di giudicarli (anche Yochai nella sua posizione di predominio nei confronti della ragazza non va mai sopra le righe) la Burshtein restituisce sullo schermo un mondo che sembra avvolgersi su se stesso chiudendosi a qualsiasi tentativo di irruzione esterna. Non c’è mai la voglia di scappare o di interrompere il filo del discorso nelle scelte di Shira, ma solo la voglia d comprendere e di fare la cosa più giusta. Ma forse un film dove l’incipit(la morte della sorella) rappresenta il novanta per cento dell’intreccio e quello che segue è il resoconto di una crisi di coscienza – ad un certo punto Shira afferma di essere cattiva per non aver corrisposto alle scelte delle persone che ama – avrebbe avuto bisogno di un andamento meno compassato, di un cambio di ritmo o di un'invenzione che questo film purtroppo non ha.
Chiamata in causa in prima persona per il fatto di appartenere al medesimo ambiente, la Burshstein sa di cosa parla e lo racconta riuscendo ad integrare, all’opposto di quanto aveva fatto Brillante Mendoza con il suo “Thy Womb”, altro film del concorso veneziano, aspetti antropologici (legati alla rappresentazioni delle liturgie e delle consuetudini) e funzione narrativa. Nel far questo la regista è brava a far sentire quanto spazio abbia nella formazione dei caratteri e delle psicologie, e quindi delle loro scelte, il fervore religioso ed il rispetto delle regole nelle quale sono immersi. La dimensione individuale, quella in cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti con le proprie aspirazioni, e quella collettiva, in cui identità ed appartenenza vengono leggittimate dalla condivisione delle gioie e dei dolori, si traducono in una messa in scena un po’ rigida ma comunque efficace, che alterna momenti di puro intimismo ad altri di sfrenata convivialità con numerose scene di canti e di balli. Partecipando al dramma dei personaggi – la telecamera è quasi sempre incollata alle facce ed ai corpi – ed evitando di schierarsi o di giudicarli (anche Yochai nella sua posizione di predominio nei confronti della ragazza non va mai sopra le righe) la Burshtein restituisce sullo schermo un mondo che sembra avvolgersi su se stesso chiudendosi a qualsiasi tentativo di irruzione esterna. Non c’è mai la voglia di scappare o di interrompere il filo del discorso nelle scelte di Shira, ma solo la voglia d comprendere e di fare la cosa più giusta. Ma forse un film dove l’incipit(la morte della sorella) rappresenta il novanta per cento dell’intreccio e quello che segue è il resoconto di una crisi di coscienza – ad un certo punto Shira afferma di essere cattiva per non aver corrisposto alle scelte delle persone che ama – avrebbe avuto bisogno di un andamento meno compassato, di un cambio di ritmo o di un'invenzione che questo film purtroppo non ha.
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