Prima di “Tango
libre” il contributo cinematografico di Frederic Fonteyne almeno in Italia era
fermo a due opere come “Una relazione privata”(1999) e “La donna di
Giles”(2004) che da soli erano comunque in grado di delineare le preferenze di
un regista particolarmente interessato a storie di amori impossibili declinati
da uno sguardo tendenzialmente pessimista. Se infatti nelle prime due opere per
motivi diversi le relazioni dei protagonisti erano costrette a subire le
ricadute di una condivisione fuori dal comune, moralmente anticonformista e con
una fine nota ancor prima di cominciare – “Una relazione privata” era
l’autopsia di un rapporto già concluso e rivissuto in prospettiva nelle
interviste degli ex amanti – con quest’ultimo film presentato nella sezione
“orrizonti” della rassegna veneziana il romanticismo eccentrico ed un po’
malato di un menage a trois trova una variante positiva (ma non per questo meno
eclatante)nella passione per il tango che fa incontrare Alice moglie di Antonio
ed Amante di Dominic - compagni di cella per una rapina conclusasi con
l’assassinio di un poliziotto - e Jean Christophe il secondino innamorato della
donna, incontrata per caso durante una serata danzante. Una coincidenza che fa
da detonatore ad una storia di passione e di gelosia che rimetterà in
discussione le posizioni di partenza.
Se la vicenda
raccontata da Fonteyne risulta piuttosto tradizionale nella messa in scena
delle emozioni, così non è per le dinamiche relazionali che il regista traduce
facendo coesistere l’anomalia delle situazioni con il modo di fare scontato e
la naturalezza un po’ idiota di chi si trova a viverle. E’ così per Alice
chiamata a sdoppiarsi per corrispondere all’immagine del partner di turno, ed è
così anche per i suoi amanti che accettano di condividere la stessa donna
nonostante uno (Antonio) sia un uomo violentemente geloso e l'altro (Dominic)
refrattario a qualsiasi forma di compromesso. Un carrozzone al quale appartiene
di diritto anche Jean Christophe votato ad un amore passivo e rassegnato,
disposto ad accettare le vessazioni e gli insulti del marito di Alice pur di
portare avanti il coacervo di desideri repressi destinati ad esplodere nel
rocambolesco finale. Fonteyne è bravo a sporcare il sottofondo drammatico con
tocchi di non sense ed a caricare i personaggi di una goffaggine dai toni
surreali che è evidente nelle postura allampanata e nello sguardo un po’ vacuo
di Jean Christophe, oppure per parlare anche del contorno, nella personalità
ottusa e bambinesca del suo capo, incapace di capire ciò che lo circonda.
Altrettanto credibile è la resa di una condizione di marginalità che investe
non solo gli ambienti, a parte quello della prigione strutturalmente separato,
anche la sala da ballo volutamente dimessa, le abitazioni di periferia in cui
vivono Jean Christophe ed Alice, arredate in maniera vistosa oppure dozzinale,
e persino le musiche quando virano ad un vintage dal sapore provinciale. Ma
come gli è solito, ai film di Fontane manca sempre qualcosa. In questo caso a
dividersi le colpe sono una scrittura senza sfumature nella caratterizzazione
dei personaggi ed incapace di cambiare ritmo quando si tratta di uscire fuori
dall’empasse che deciderà il destino dei personaggi, e poi una mancanza
generale di empatia che alla fine determina il senso di freddezza tipico dei
film troppo costruiti.
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