Il capolavoro di Francis Ford Coppola come non l'avete mai letto. Da lunedi 4 novembre con cadenza settimanale icinemaniaci ripercorreranno le tappe salienti di uno dei film più importanti del cinema americano attraverso un analisi che partendo dalle parole di Joseph Conrad e del suo "Cuore di tenebra", fonte primaria dell'ispirazione Coppoliana, cercherà di allargare lo sguardo sul quadro storico e culturale, ma anche sulle vicissitudini che hanno influenzato la realizzazione dell'opera. Consapevoli del rischio di una sovrapposizione ridondante e superflua abbiamo cercato di offrire un punto di vista se non inedito almeno stimolante. Al lettore il giudizio finale, noi intanto ringraziamo la penna ed il coraggio di TheFisherKing che si è cimentato nell'impresa, e la fantasia di Parsec che ne ha curato la pubblicazione.
giovedì, ottobre 31, 2013
Un viaggio personale nel cinema americano: Apocalypse Now
Il capolavoro di Francis Ford Coppola come non l'avete mai letto. Da lunedi 4 novembre con cadenza settimanale icinemaniaci ripercorreranno le tappe salienti di uno dei film più importanti del cinema americano attraverso un analisi che partendo dalle parole di Joseph Conrad e del suo "Cuore di tenebra", fonte primaria dell'ispirazione Coppoliana, cercherà di allargare lo sguardo sul quadro storico e culturale, ma anche sulle vicissitudini che hanno influenzato la realizzazione dell'opera. Consapevoli del rischio di una sovrapposizione ridondante e superflua abbiamo cercato di offrire un punto di vista se non inedito almeno stimolante. Al lettore il giudizio finale, noi intanto ringraziamo la penna ed il coraggio di TheFisherKing che si è cimentato nell'impresa, e la fantasia di Parsec che ne ha curato la pubblicazione.
Post archiviato nelle categorie:
New Hollywood
martedì, ottobre 29, 2013
La vita di Adele
La vita di Adele
di Abdellatif Kechiche
con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos
Francia, 2013
genere, drammatico
durata, 179
Adele è una liceale che sogna il grande amore, quello da romanzo,
un po' come tante della sua età. Consuma una relazione breve e poco
intensa con Thomas, suo coetaneo, al quale si concede senza troppo trasporto.
In un locale gay conosce Emma, eccentrica studentessa dell'accademia
delle belle arti.
E qui bisogna fermarsi, bisogna fermarsi perchè la vita di Adele
inizia a prendere forma in sè stessa e in chi guarda, l'amore vissuto
senza accenni di morbosità, trasparente; carne e spirto si fondono
senza sfiorare reticenza ridondante o vano richiamo trasgressivo, ed
Emma prende per mano Adele e l'accompagna nel suo diventare donna, la
dipinge immolando i contrasti di un'animo che fuoriesce da quel viso
dilagante di vero, che incanta e sturba in ogni sguardo ed ogni lacrima
versata.
Abdellatif Kechiche porta sullo schermo tre ore che diventano Attimo,
quell'attimo fugace e intenso che poche volte è possibile cogliere
sullo schermo, Léa Seydoux ed Adéle Exarchopoulos si buttano a capofitto
nel travolgente flusso narrativo, senza interpretare ma semplicemente
"vivendosi". Ed il resto è tutto sensazione, atmosfera, essenza.
Quei primi piani che vanno oltre il cogliere le espressioni e tendono
la mano all'illimite, e la telecamera, sospesa, segue ogni gesto
spontaneo o apparentemente superfluo, come una carezza lungo la schienza,
come se gli interpreti ne fossero i burattinai, mettendoci a confronto
con il reale.
"...Nell'ora
in cui tremiamo
Di tenerezza
Le labbra
che vorrebbero baciare
Innalzano
una preghiera a quella pietra infranta".
Mi vengono
in mente queste parole di Thomas Stearns Eliot per descrivere l'emozione
che rimane cucita addoso alla fine di una visione sconvolgente, che
non ha paura di guardare e gettarsi nell' immenso abisso umano, cruda
e mera autopsia dell'Io. Il blu è un colore caldo, e rimane dietro
ogni angolo, e Adele se ne va col suo vestito blu, ma ci lascia li,
come una dolce carezza d'abbandono.
di Antonio Romagnoli
di Antonio Romagnoli
Immaginario cinematografico: Questioni di tempo
Post archiviato nelle categorie:
immaginario cinematografico
Runner Runner
Runner Runner
di Brad Furman
con Ben Affleck, Justin Timberlake, Gemma Arterton
Usa 2013
genere, thriller
durata, 91
Viene certo da pensare di fronte a un'operazione come quella di "Runner Runner", thriller diretto dal semisconosciuto Brad Furman, capace di annoverare tra i suoi produttori una star assoluta come Leonardo Di Caprio, ed in grado di accaparrarsi tra gli altri un divo sulla cresta dell'onda come Ben Affleck, consacrato dal successo personale ottenuto nell'ultima edizione degli Oscar ("Argo" è stato premiato tra l'altro come miglior film) e artefice di una resurrezione artistica che ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, le possibilità intrinseche del sogno americano. Le perplessità non nascono dal basso cabotaggio produttivo di un film che strizza l'occhio al genere, infilandosi nelle convenzioni e nei codici di una classica crime story, con la scalata sociale del protagonista ad innescare una spirale di violenza e sensi di colpa. D'altra parte fin dalle origini il genere in questione scaturiva dalla necessità di organizzare uno spettacolo efficace senza il bisogno di grossi investimenti finanziari. Nel caso di "Runner Runner" a non funzionare, prima ancora di entrare nei dettagli è la mancanza d'empatia tra gli attori principali ed i ruoli a loro assegnati. Il copione prevedeva Justin Timberlake nella parte di Richie, studente di belle speranze condotto sulla strada della perdizione dal tentativo di procurarsi i soldi per pagare la retta universitaria, mentre per Affleck si trattava di indossare i panni del diavolo tentatore nascosto dietro i modi compassati ma letali di Ivan Block, magnate delle scommesse on line costretto ad organizzare il suo impero in Costarica per sfuggire alle maglie della giustizia americana che lo ritiene un lestofante. A farli incontrare una scommessa finita male, e la certezza di Richie di essere stato raggirato dal dispositivo messo a punto da Block.
Fino
a quando si tratta di delineare gli aspetti più convenzionali e meno
sorprendenti dei rispettivi tipi umani, Timberlake riesce almeno in
parte a cavarsela. Con la faccia da bravo ragazzo e la sensazione di non
perdere mai la calma l'attore non fatica ad entrare nella dimensione
austera e composta dell'università di Princeton da cui la nostra prende
le mosse. Per Affleck al contrario si fa subito dura quando
l'introduzione ce lo mostra in atteggiamenti da padrino, all'interno di
una sauna e ripreso di spalle, intento a blandire due politici
corrotti. Un vantaggio che Timberlake si impegna a pareggiare per
mancanza di carisma, nel momento in cui opportunamente sedotto (un po di
colpa ce l'ha anche una ragazza che ha il corpo di Gemma Arterton più
statuaria che mai) ed entrato nella scuderia di Block, si ritrova
invischiato in una vicenda di intrighi e corruzione, tra le minacce
della polizia che lo vorrebbe pronto a collaborare per incastrare il suo
mentore, e l'ambiguità di Block, costantemente impegnato a manipolare
la versione dei fatti. Insomma una specie di tragedia shakesperiana,
simile nella tenzone tra allievo e pigmalione a quella appena vista ne "Il potere dei soldi"
di Richard Luketic, con tanto di figura paterna sfruttata in chiave
psicanalitica per giustificare il sacrificio, reale e figurato, delle
figure dominanti. Ma nel doppio gioco che il film mette in piedi ed a
cui fanno da contorno i sussulti passionali della bellona di turno e le
comparsate da cane sciolto dello sbirro di Anthony Mackie, a mancare è
il contributo di una scrittura senza sfumature e piena dl luoghi comuni -
basterebbe vedere con quale paternalismo viene trattata la scoperta
delle attività illegali praticate da Richie all'interno dell'università,
o la velocità con cui il personaggio di Gemma Arterton si innamora del
protagonista- capace di rasentare il ridicolo nella scena in cui per
costruire l'indispensabilità di Richie nei confronti di Block fa
sembrare machiavellico il raggiro orchestrato dal ragazzo per far
capitolare uno scomodo rivale, con un offerta sessuale che avrebbe
insospettito anche il più ingenuo degli uomini e che invece viene
accettata dall'uomo con assoluta nonchalance. Soluzione di una
banalità sconcertante che Block accoglie però con un tripudio di lodi e
congratulazioni. E diciamo noi tra il totale disimpegno degli
spettatori, a quel punto definitivamente convinti sul velleitarismo
dell'intera operazione. E se per Timberlake il cinema continua ad essere
un passatempo dagli impegni musicali, rimane inspiegabile il passo
falso di Affleck, in predicato di interpretare il personaggio di Bruce
Wayne nel prossimo film sull'uomo pipistrello, e quindi bisognoso di una
credibilità attoriale che "Runner Runner" rischia di far crollare ai
minimi storici.
(pubblicato su ondacinema.it)
di Brad Furman
con Ben Affleck, Justin Timberlake, Gemma Arterton
Usa 2013
genere, thriller
durata, 91
Viene certo da pensare di fronte a un'operazione come quella di "Runner Runner", thriller diretto dal semisconosciuto Brad Furman, capace di annoverare tra i suoi produttori una star assoluta come Leonardo Di Caprio, ed in grado di accaparrarsi tra gli altri un divo sulla cresta dell'onda come Ben Affleck, consacrato dal successo personale ottenuto nell'ultima edizione degli Oscar ("Argo" è stato premiato tra l'altro come miglior film) e artefice di una resurrezione artistica che ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, le possibilità intrinseche del sogno americano. Le perplessità non nascono dal basso cabotaggio produttivo di un film che strizza l'occhio al genere, infilandosi nelle convenzioni e nei codici di una classica crime story, con la scalata sociale del protagonista ad innescare una spirale di violenza e sensi di colpa. D'altra parte fin dalle origini il genere in questione scaturiva dalla necessità di organizzare uno spettacolo efficace senza il bisogno di grossi investimenti finanziari. Nel caso di "Runner Runner" a non funzionare, prima ancora di entrare nei dettagli è la mancanza d'empatia tra gli attori principali ed i ruoli a loro assegnati. Il copione prevedeva Justin Timberlake nella parte di Richie, studente di belle speranze condotto sulla strada della perdizione dal tentativo di procurarsi i soldi per pagare la retta universitaria, mentre per Affleck si trattava di indossare i panni del diavolo tentatore nascosto dietro i modi compassati ma letali di Ivan Block, magnate delle scommesse on line costretto ad organizzare il suo impero in Costarica per sfuggire alle maglie della giustizia americana che lo ritiene un lestofante. A farli incontrare una scommessa finita male, e la certezza di Richie di essere stato raggirato dal dispositivo messo a punto da Block.
(pubblicato su ondacinema.it)
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
domenica, ottobre 27, 2013
DOWN IN THE VALLEY
"Down in the valley"/id.
di: D.Jacobson
con: con: E.Norton, D.Morse, E.R.Wood, R.Caulkin, B.Dern
- USA 2005 -
Drammatico - 115 min

Da groppo alla gola la colonna sonora di Peter Salett.
TFK
giovedì, ottobre 24, 2013
Film in sala da Giovedì 24 Ottobre
La Vita di Adele
LA VIE D'ADELE
di Abdellatif Kechiche
con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos
2013 FRA - 179 min - Drammatico
Cani sciolti
TWO GUNS
di Baltazar Kormakur
con Mark Wahlberg, Denzel Washington, James Marsden, Bill Paxton
2013 USA - 109 min - Azione/Poliziesco
Il Quinto Potere
THE FIFTH ESTATE
di Bill Condon
con Benedict Cumberbatch, Carice van Houten,
Daniel Bruehl, Stanley Tucci
2013 USA - 129 min - Drammatico
RUNNER, RUNNER
di Brad Furman
con Ben Affleck, Gemma Arterton, Justin Timberlake
2013 USA - 91 min - Drammatico/Thriller
DARK SKIES - Oscure Presenze
di Scott Stewart
con Keri Russell, Dakota Goyo, Josh Hamilton, J.K. Simmons
2013 USA - 97 min - Horror
OH BOY - Un Caffé a Berlino
di Jan Ole Gerster
con Tom Schilling, Friederike Kempter,
Marc Hosemann, Katharina Schuttler
2012 GER - 83 min - Commedia
NOI, ZAGOR
di Riccardo Jacopino
2013 ITA - Documentario
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2013
Cani Sciolti
Cani Sciolti
di Baltasar Kormakur
con Denzel Washington, Mark Whalberg, Paula Patton
genere, thriller, drammatico
durata, 109
Ci sono diversi modi di aprire un festival. Sarà quindi per alleggerire
la formalità di un protocollo necessariamente affollato da
presentazioni, ringraziamenti e auspici beneauguranti che l'apertura
delle danze dell'ultimo Locarno sia stata affidata a un film come "Cani
sciolti" ("2 Guns"), fumettone americano diretto da un regista islandese
(Baltasar Kormakur, dopo "Contraband" alla sua seconda regia americana) e ispirato all'immancabile graphic novel.
Il punto centrale del film, quello per cui vale la pena comprare il
biglietto e anche sfidare l'acquazzone che ha complicato non poco la
proiezione serale in Piazza Grande, è la presenza di due divi dello star system
come Denzel Washington e Mark Wahlberg, qui nel ruolo di due agenti
sotto copertura, Bobby/Washington agente della DEA, e Stig/Whalberg
appartenente all'intelligence della Marina, costretti a collaborare,
seppur di malavoglia, per salvarsi dall'ordalia di manigoldi che
vorrebbe far loro la pelle ed impossessarsi dei milioni di dollari
frutto di una rapina che i due hanno organizzato per provocare la
reazione del cartello della droga, in cui sotto mentite spoglie, ed
all'insaputa uno dell'altro, sono riusciti ad infiltrarsi.
Incastrati
in una trama ad orologeria, tanto scontata nella proposizione di un
soggetto che strizza l'occhio all'amicizia virile ed in generale ad un
superomismo espresso di puro muscolo, quanto puntuale nella costruzione
delle situazioni che permettono al film di mantenersi in costante
progressione, i due attori si prestano con professionalità e
verosimiglianza ai meccanismi del buddy movie, genere a cui
"Cani sciolti" appartiene di diritto, adeguando la propria performance
alle necessità di una recitazione dinamica, costruita come vuole il
genere sulla continua oscillazione tra prestazione fisica e rispetto dei
tempi comici. Una puzzle di possibilità attoriali che Kormakur
trasforma in una danza tribale, scandita da un repertorio sonoro e
visuale all'insegna della potenza e del machismo, con possibilità
balistiche, esplosioni ed inseguimenti che riescono però preservare la
caratterizzazione dei personaggi, ed in particolare il continuo scambio
di battute e le schermaglie che alimentano il rapporto tra i due bad guys.
Così accanto a una serie continua di smargiassate e a frasi da fumetto del tipo "Conosci il detto, non rapinare mai una banca vicino alla caffetteria che fa le ciambelle più buone della zona", "Cani sciolti" riesce a far convivere estetica da blockbuster e pochade di alta classe, con Washington e Wahlberg perfettamente amalgamati nel dar vita ai rispettivi understatement. Abituati a frequentare ruoli di questo tipo, ma quasi sempre saturi di una drammaticità a forti tinte, i due attori dimostrano, se mai c'è ne fosse bisogno, una versatilità che il cinema fatica a sfruttare (ma Wahlberg dopo il successo di "Ted" pare aver trovato una nuova dimensione) e che qui invece emerge in una commistione di solidità e voglia di non prendersi troppo sul serio. Girato con una regia robusta e sporca, il film ed il suo regista sono bravi a far coincidere la dimensione da frontiera di un paesaggio da film western, con la predisposizione interiore delle figure che lo attraversano. In questo modo la natura selvaggia ed asciutta della prateria americana, le sue strade dimenticate ed assolate, ed il predominio degli elementi naturali su quelli architettonici - la luce soprattutto, accecante o tenebrosa a secondo dei casi - diventano lo specchio d'individualità, quelle dei protagonisti ma anche di chi gli sta attorno (il boss della droga di Edward James Olmos ma anche il perfido agente della Cia del redivivo Bill Paxton) abituate a ragionare con meccanismi di causa effetto che trovano sfogo in un istinto di morte perpetrato ad oltranza. E se il messaggio del film non è dei più rassicuranti, con la rappresentazione di un mondo endemicamente aggredito dalla violenza e dalla corruzione - dalla Cia alla Marina nessuno è immune al suo retaggio- rimane la speranza d'amicizia e di condivisione che il film ci lascia, con Bobby e Stig che si allontano dall'ennesimo massacro sostenendosi uno con l'altro, in una atmosfera di totale e reciproca condivisione.
(ondacinema.it/speciale 66 Festival Cinema di Locarno)
di Baltasar Kormakur
con Denzel Washington, Mark Whalberg, Paula Patton
genere, thriller, drammatico
durata, 109

Così accanto a una serie continua di smargiassate e a frasi da fumetto del tipo "Conosci il detto, non rapinare mai una banca vicino alla caffetteria che fa le ciambelle più buone della zona", "Cani sciolti" riesce a far convivere estetica da blockbuster e pochade di alta classe, con Washington e Wahlberg perfettamente amalgamati nel dar vita ai rispettivi understatement. Abituati a frequentare ruoli di questo tipo, ma quasi sempre saturi di una drammaticità a forti tinte, i due attori dimostrano, se mai c'è ne fosse bisogno, una versatilità che il cinema fatica a sfruttare (ma Wahlberg dopo il successo di "Ted" pare aver trovato una nuova dimensione) e che qui invece emerge in una commistione di solidità e voglia di non prendersi troppo sul serio. Girato con una regia robusta e sporca, il film ed il suo regista sono bravi a far coincidere la dimensione da frontiera di un paesaggio da film western, con la predisposizione interiore delle figure che lo attraversano. In questo modo la natura selvaggia ed asciutta della prateria americana, le sue strade dimenticate ed assolate, ed il predominio degli elementi naturali su quelli architettonici - la luce soprattutto, accecante o tenebrosa a secondo dei casi - diventano lo specchio d'individualità, quelle dei protagonisti ma anche di chi gli sta attorno (il boss della droga di Edward James Olmos ma anche il perfido agente della Cia del redivivo Bill Paxton) abituate a ragionare con meccanismi di causa effetto che trovano sfogo in un istinto di morte perpetrato ad oltranza. E se il messaggio del film non è dei più rassicuranti, con la rappresentazione di un mondo endemicamente aggredito dalla violenza e dalla corruzione - dalla Cia alla Marina nessuno è immune al suo retaggio- rimane la speranza d'amicizia e di condivisione che il film ci lascia, con Bobby e Stig che si allontano dall'ennesimo massacro sostenendosi uno con l'altro, in una atmosfera di totale e reciproca condivisione.
(ondacinema.it/speciale 66 Festival Cinema di Locarno)
Post archiviato nelle categorie:
anteprime,
recensioni
La prima neve
La prima neve
di Daniele Segre
con Jean-Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterutzner, Giuseppe Battiston
Italia 2013
genere, drammatico
durata,105
Rispetto all'argomento in questione "La prima neve" di Andrea Segre offre più di uno spunto per il fatto di essere diretto da un'artista proveniente dal documentario, e quindi abituato a camminare sul filo del rasoio che separa la realtà dalla sua rappresentazione. In questo caso a fronteggiarsi si trovano da una parte il paesaggio e la natura della valle dei Mocheni, in Trentino, intessuta dalle abitudini di un quotidiano che di recente ha dovuto confrontarsi con il fenomeno dell'immigrazione, mentre dall'altra c'è la voglia di raccontare un incrocio di solitudini e di dolore rappresentato dal rapporto d'amicizia tra Dani, fuggito dal Togo attraverso un viaggio che gli ha tolto la moglie e l'ha lasciato con la figlia neonata, e Michele, adolescente alle prese con un quotidiano segnato dalla morte del padre. In altre parole si trattava d'armonizzare "sopralluogo" e romanzo, ricerca antropologica ed ispirazione creativa, verità e finzione.
Partendo dalla condivisione di un lutto che lacera e fa soffrire Segre costruisce una favola moderna, tenera ed insieme drammatica, che utilizza l'archetipo - il gigante ed il bambino raffigurati nell'eterogeneità fisica di Dani e Michele, ma anche la paura, la rabbia ed il senso di morte, stati d'animo che il film materializza mediante la potenza evocativa del sublime naturale dell'ambiente - ma anche la cronaca - attraverso il rapporto tra Dani ed i suoi connazionali veniamo a conoscenza delle vicissitudini della piccola comunità d'immigrati ospitata nel centro di accoglienza del paese - per descrivere un percorso di salvezza che si colora di sfumature e di silenzi. A fargli da contorno una serie di figure scolpite nel solco di un'emozione trattenuta e pudica come quella della madre di Michele interpretata da una rarefatta Anita Caprioli, e del nonno presso cui Dani andrà a lavorare, testimoni impotenti di quella condizione.
Segre è perfetto nel depotenziare la tecnica di solidi professionisti come Giuseppe Battiston, Anita Caprioli e di Jean Christophe Folly (Dani), uniformandola alla spontaneità della prima volta di Matteo Marchel, perfetto nei "400 colpi" di Michele. Così come funziona l'integrazione tra la dimensione del reale e quella della finzione. A far calare le quotazioni è invece il desiderio di inquadrare il particolare della storia su un pianod’universalità che il film avrebbe già, e che viene riproposto quando chiede a Dani di tenere alta la bandiera degli umiliati ed offesi, con l'affermazione della propria condizione di profugo che sembra dettata più che altro dal desiderio di solidarizzare in maniera evidente con il destino del personaggio. Sono passaggi di breve durata ma resi con una drammaturgia che fa sentire di colpo la sua presenza. La sensazione è allora quella di un’invasione di campo che interrompe la magia creata da quella giusta distanza di cui si parlava in principio, e che Segre prometteva di mantenere fino in fondo. Ci si distrae con movimenti che non sanno più di scoperta ma che si muovono nella superficie del conosciuto, come succede per l’inversione di tendenza rappresentata dallo zio di Michele (Battiston che aspettiamo in un ruolo di prima fila),emblema di quell’Italia costretta a pensarsi di nuovo migrante per riuscire a sbarcare il lunario. Rimane l’eccezionalità di un’amicizia insolita e la virtù di un film che assegnando alla diversità – quella di Dani- una funzione catartica e diremo quasi salvifica, sancisce in maniera profonda il diritto all’uguaglianza ed alla pari dignità di uomini e donne. Sotto questo punto di vista la favola di Segre merita attenzione e rispetto.
mercoledì, ottobre 23, 2013
The Bling Ring
Siamo lieti di accogliere Antonio Romagnoli che da oggi inizia la sua collaborazione con il blog. Se son rose fioriranno e senza perdere tempo iniziamo a dargli spazio.
The Bling Ring
di Sofia Coppola
con Emma Watson, Leslie Mann, Taissa Farmiga, Erin Daniels
Usa 2013
genere, drammatico
durata, 95'
Alcuni adolescenti di Hollywood, nonostante il benestare dilagante,
sono alla costante ricerca di emozioni e trasgressioni, e arrivano ad
irrompere nelle ville di Vip quali Paris Hilton e Orlando Bloom, per
collezionare un bottino di quasi tre milioni di dollari.
Sofia Coppola usa una storia vera quanto stravagante, pubblicata
da Vanity Fair, per gettare il suo ormai consueto sguardo sull'adolescenza.
Ma questa volta sorprende, non scivola mai in introspezioni esasperate,
sostiene sempre un buon ritmo e non è mai noioso. Calzante la scenografia
composta da night club privati, infinite collezioni di scarpe e gioielli
e i boulevard californiani. Credibilissimo il lavoro del cast, in particolare
di Emma Watson, che continua a confermare di essersi sganciata dal ruolo
che l'aveva resa celebre fra streghe e maghetti (a differenza del suo
collega Daniel Radcliffe). A rendere ancor più inaspettatamente piacevole
la visione è lo sguardo totalmente obbiettivo della regista,
con una telecamera che non è giudice ma spia, posta spesso in lontananza
o nascosta dietro angoli con oggetti sfocati in primo piano.
Ed era forse questo l'unico modo di mettere su pellicola una storia
che rispecchia tristemente l'inspiegabile malessere giovanile, un mondo
costantemente attratto dal superfluo e dal vacuo, che va perdendosi
tra borse griffate, feste, cocaina e quel mondo virtuale piacevolmente
ingannevole. Le stesse dichiarazioni dei giovani colpevoli, rilasciate
dopo essere stati presi, sono metafora indotta del flusso di incoscienza
che li travolge come se nulla fosse. Il lavoro della regista sembra
essere un docu-fiction ben congegnato dove il sogno americano si
è spinto troppo oltre, e Sofia Coppola ce lo mostra con discrezione
e amoralità, lasciando trarre a chi vede le dovute riflessioni.
di Antonio Romagnoli
lunedì, ottobre 21, 2013
Una piccola impresa meridionale
Una piccola impresa meridionale
di Rocco Papaleo
con Rocco Papaleo, Riccardo Scamarcio, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza
Italia, 2013
genere, commedia
durata, 103'
Come uno swing il cinema di Rocco Papaleo
sembra nascere da un bisogno che va oltre la coerenza dell'impianto,
procedendo per accumulazioni successive, quasi sempre scaturire da una
sensazione o da un particolare stato d'animo. Che si tratti di
raggiungere un luogo geografico come accadeva al gruppo d'amici in
viaggio verso il festival in cui devono suonare ("Basilicata Coast to
Coat", 2010) oppure di ricostruire uno spazio esistenziale ormai logoro
nel quale si trova accomunata l'umanità di questo "Una piccola impresa
meridionale" a prevalere non è mai la precisione dei fatti, o la
complessità dell'intreccio bensì il mood che Papaleo riesce a
trasmettere attraverso una serie di variazioni che vivono e prendono il
ritmo da un motivo musicale. Un'ispirazione che nel film d'esordio si
armonizzava con la necessità di costruire lo spartito autobiografico dei
protagonisti, tutti quanti, nessuno escluso, appassionati di note e
parole. Di tutt'altra fattura invece quella che scorre nelle vene della
storia in questione, organizzata attorno al faro di proprietà della
famiglia di Costantino, prete che ha rinunciato alla tonaca per un
illusione d'amore e ora relegato per motivi di opportunità in
quell'insolito eremo. Fatiscente ed abbandonato il vecchio rudere
diventa il posto ideale in cui confessare e smaltire delusioni e
fallimenti che altrove non sarebbero accettati. Per metterlo a posto ci
vorrà la fantasia e lo spirito di sacrificio di una tribù di personaggi
eccentrici, stravaganti ed un pò sgangherati a cui Costantino darà asilo
nel corso del suo soggiorno. La ricostruzione materiale del manufatto
finira' per coincidere con quella interiore della simpatica manovalanza.
Se
lo spunto iniziale, quello che pone i protagonisti nella condizione di
mettersi in discussione attraverso la convivenza forzata fornisce da
solo il carico di suggestioni e di riferimenti alla nostra
contemporaneità - la casa da ristrutturare e l'impegno di soddisfare
collettivamente quella necessità sembra da una parte la metafora di un
paese in rovina ed allo stesso tempo l'indicazione di una possibile via
d'uscita- "Una piccola impresa meridionale" sulla scia del film
precedente continua ad essere la rappresentazione di un mondo personale
ed insieme ideale che risponde quasi in tutto al gusto ed alle passioni
di chi ne è l'autore. Una piccola anarchia conquistata dopo anni di
gavetta e ruoli laterali che si riversa nell'assoluto protagonismo del
regista e nella libertà creativa con cui mette insieme il suo puzzle esistenziale: dalla musica Jazz, avamposto
di una passione che avevamo imparato a conoscere, e che ritorna
struggente ma anche buffa nel personaggio di Arturo il cognato di
Costantino (Riccardo Scamarcio in un ruolo che si fa beffa della icona
di sex symbol) marito abbandonato e musicista frustato da
ambizioni che non si sono mai realizzate, alla meridionalità più
viscerale, espressa nelle dinamiche familiari dominate dalla presenza di
genitori rispettati ed un pò temuti, ma anche nell'importanza del
decoro sociale che fa dire a mamma Stella "il paese non deve sapere"
costringendo Costantino a trasferirsi nel faro per salvaguardare l'onore
famigliare.
Ma c'è soprattutto l'attenzione per le fragilità umane che
un mestiere come quello dell'attore impara a riconoscere, e che Papaleo
diluisce nei caratteri dei personaggi, persino in quello della
disinibita Magnolia (Barbora Bobulova in versione nude look), pragmatica
e disillusa ma alla fine vinta dalle ragioni del cuore. Una miscela a
base di sound, poesia e buon umore che funziona fino a quando Papaleo,
forse per dimostrare la sua bravura, o per la voglia di superarsi decide
di contaminare la propria ispirazione con temi da dibattito come quello
sulla religiosità che il personaggio di Costantino con i suoi
comportamenti eterodossi ma caritatevoli esorta ad essere meno formale e
più sensibile ai bisogni dei fedeli, e sul diritto di amare al di là di
ogni discriminazione, come dimostrano le vicissitudini che incontrerà
Rosa Maria nel corso del suo percorso sentimentale.
Una nobiltà d'animo
che pesa sul film obbligandolo a rispettare certe tappe obbligatorie (la
scena del matrimonio con gli invitati che abbandonano la cerimonia
disgustati è forse l'apice di questa tendenza) che portano il film
nell'alveo di quel conformismo corretto ma di maniera da cui invece
Papaleo voleva stare alla larga. Incapace di tenere insieme la sua
doppia natura, "Una piccola impresa meridionale" perde ritmo e
compattezza, spezzato nella seconda parte da inserti un po casuali e
realizzati all'insegna di un buonismo un pò facile, com'è quello
relativo all'istruzione scolastica della figlia degli operai che
lavorano alla manutenzione del faro, oppure della sequenza che ci
"regala" la riconoscenza di Magnolia nei confronti di chi l'ha aiutata a
superare un momento difficile. E se la confezione è diventata più
elegante nelle carrellate e nei dolly che inglobano i personaggi nella
magnificenza dello scenario naturale, e nonostante il metacinema che si
affaccia in maniera circolare, all'inizio ed alla fine, attraverso la
soggettiva di occhi finalmente liberi di vedere - un allusione al potere
catartico e rivelatore del mezzo cinematografico- a mancare è la
ruvidità umorale e sghemba dello stesso Papaleo, imbrigliata dalle
portate di un menù troppo ricco. Nel tabellino delle cose riuscite la
chimica di interpreti perfettamente amalgamati ed un intrattenimento
certamente cool. Non poco per una commedia italiana.
(pubblicato su ondacinema.it)
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
sabato, ottobre 19, 2013
Film Telecomandati: THE DESCENT - Discesa nelle Tenebre
di: N. Marshall
con: S.MacDonald, N.Mendoza, A.Reid, S.Mulder, M.Buring, N-J Noone
- GB 2005 -
Horror - 100 min
E letteralmente nell'abisso rovista e ne viene fagocitata la compagine muliebre (a nome dell'umanità intera) di "The descent"/"Discesa nelle tenebre" (2005) del britannico Neil Marshall, autore di altre pellicole interessanti, tipo "Dog soldiers" (2002), "Doomsday" (2008) e "Centurion" (2009). L'opera, finanziata con un ammontare risicato - qualche milione di sterline - genitrice di un seguito (inedito da noi) e un ipotetico terzo capitolo, risulta nel suo complesso vincente perché in grado di dire qualcosa di coinvolgente sulla paura
Per scendere a patti con un grande dolore, un anno può bastare. Forse.
["The descent". Sabato 19/10, RAI 4, ore 23 ca.]
TFK
Post archiviato nelle categorie:
Film Telecomandati,
recensioni
venerdì, ottobre 18, 2013
Killing Your Darlings
Killing Your Darlings
di John Krokidas
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 143'
di John Krokidas
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 143'
E'
passato più di un decennio dall'uscita di "L'ultima volta che mi sono
sucidato" di Stephen Kay, eppure se rapportiamo il numero di giorni
trascorsi da quel momento al grado di consapevolezza del cinema americano
rispetto ad uno dei suoi movimenti artistici e letterari più importanti
sembra quasi impossibile poterlo affermare. Il film di Kay raccontando
seppur lateralmente la beat generation attraverso il dialogo
confessione tra Neal Cassidy e Jack Kerouac provava a dire la sua a
proposito dei cosiddetti "artisti maledetti". Alla complessità della
trasposizione dovuta alle caratteristiche di una vita artistica e
personale troppo scandalosa per un paese puritano come l'America si
sommava la difficoltà di finanziare riduzioni cinematografiche di
dubbia commercialità. Basti pensare al lungometraggio tratto da "The
Naked Lunch" del mitico William Burroughs, più
volte sul punto di essere filmato (Mick Jagger tento invano di portarlo sullo schermo) ed
infine realizzato dopo lungo travaglio da David Cronemberg in quella che resta ad oggi la
testimonianza più valida sul significato di quel periodo, unico film
capace di andare oltre l'etichetta della diversità per scandagliare i territori sensoriali di quella ribellione.
Ma chi erano in realtà questi scrittori così temuti dall'establishment
americano, e quali erano i motivi della rottura culturale di cui si
fecero portatori. "Killing Your Darlings" di John Krokidas cerca di
rispondere alla domanda nel modo più ovvio, e cioè tornando alle origini
del loro incontro in quella Columbia University che fu in qualche modo
artefice di una
presa di coscienza che si tradusse nell'affermazione di uno stile di
vita ed una concezione artistica che trasgrediva le regole ed il sentire
comune. Collocato nella New York dei primi anni 40, proprio a ridosso degli ultimi
scampoli del secondo conflitto mondiale, il film ha come protagonista
principale il giovane Allen Ginsberg in fuga dalla famiglia ed ansioso di affermare se stesso ed il
proprio talento artistico. L'occasione gli viene offerta da Lucien Carr e
dal sodalizio di cui è a capo: Jack Kerouak, William Burroughs ma
anche David Kammerer amante di Lucien, e con loro varie altre figure
che
in un modo o nell'altro consentono alla storia di mettere in moto la
dialettica e le istanze di cui il gruppo si fece promotore. Una
rivoluzione che si decise sul piano della scrittura innanzitutto, rimodellata
nella sua struttura interna e poi nella funzione della parola,
svincolata dalle logiche grammaticali e sintattiche più convenzionali, e reinventata secondo una libertà di assonanze e d'ispirazione mai viste prima di allora. Soffocati
da un sistema restrittivo e conformista Ginsberg e compagni se ne
sottraggono prima di tutto con la forma della loro opera artistica. Il
film ne dà qualche accenno, ed alla stessa maniera (edulcorata) da conto
della tensione sessuale che si sviluppa tra i vari personaggi, poi confluita nel drammatico episodio che scompagina le file di quel
consesso. Derubati della loro carica eversiva e psicologicamente alla stregua di un esistenzialismo di stampo televisivo, Ginsberg, Burroughs e Kerouac si vestono di un'ordinarietà che non gli è mai appartenuta. Krokidas fa il resto con un immaginario visivo patinato ed artificiale, in cui l'imitazione prevale sul verosimile. Naturalmente irriducibile la beat generation è consegnata ad un prodotto confezionato per un pubblico generalista. Una contraddizione in termini che pesa sul film e sui suoi risultati. Daniel Radcliffe nella parte di Ginsberg sembra ancora non riuscire a liberarsi dalla dolcezza adolescenziale di Harry Potter, diventando in questo caso la misura dell'inadeguatezza dell'intera operazione.
Post archiviato nelle categorie:
anteprime,
recensioni
mercoledì, ottobre 16, 2013
Film in sala da giovedì 17 ottobre 2013
Giovani Ribelli
KILL YOUR DARLINGS
di John Krokidas
con Daniel Radcliffe, Dane DeHaan, Michael C. Hall,
Elizabeth Olsen, Jennifer Jason Leigh
2013 USA - 104 min - Thriller
Two Mothers
ADORE
di Anne Fontaine
con Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel,
Ben Mendelsohn, Sophie Lowe, James Frecheville
2013 AUS/BEL/FRA - 100 min - Drammatico
ESCAPE PLAN - Fuga dall'inferno
di Mikael Håfström
con Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone, James Caviezel,
Vincent D'Onofrio, Sam Neill, Vinnie Jones, 50 Cent 2013 USA - 116 min - Azione/Thriller
Cose nostre - Malavita
THE FAMILY
di Luc Besson
con Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Tommy Lee Jones,
2013 FRA/USA - 112 min - Drammatico/Thriller
UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE
di Rocco Papaleo
con Riccardo Scamarcio, Rocco Papaleo, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum
2013 ITA - 103 min - Commedia
LA PRIMA NEVE
di Andrea Segre
con Giuseppe Battiston, Anita Caprioli, Roberto Citran, Jean Christophe Folly
2013 ITA - 104 min - Drammatico
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2013
Oltre i confini del male-Insidious 2
Oltre i confini del male-Insidious 2
diretto da James Wan
con Patrick Wilson, Rose Byrne, Barbara Hershey, Lin Shaye
Usa, 2013
genere, horror, thriller
durata, 105
Ed
anche le citazioni - quella di "Psycho" (1960) introdotta fin dalla
prima sequenza nella prospettiva della villa dei Lambert, inquadrata dal
basso ad esaltare la sua aurea minacciosa ed anomala, oltreche l'assoluta atipicità rispetto al resto del contesto, e poi ripresa nel rapporto di subordinazione e dipendenza che intercorre tra gli emissari del maligno - quandanche presenti, lo sono in modo necessario ad un meccanismo dichiaratamente imitativo, e perciò subalterno senza infigimenti al cinema che saccheggia.
James Wan è un
giocoliere dello spettacolo riuscito ad entrare chissà come nella stanza
dei bottoni. L'impressione è che si stia divertendo un sacco.
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
martedì, ottobre 15, 2013
Immaginario cinematografico: Joaquin Phoenix, tra genio e follia

"Her" di Spike Jonze
Post archiviato nelle categorie:
immaginario cinematografico
lunedì, ottobre 14, 2013
Two Mothers
Two Mothers
di Anne Fontaine
con Naomi Watts, Robin Wright
Australia, Francia, 2013
genere drammatico
durata, 111'
A volte capita che la presenza di un attore o di un'attrice nel cast di un certo film sia motivo sufficiente a mettere in circolo una curiosità altrimenti destinata ad interessi differenti. Nel caso di "Two Mothers" di Anne Fontaine l'attenzione era ulteriormente stimolata da un cartellone che annunciava addirittura il privilegio di vedere all'opera due eccellenze del cinema contemporaneo come Naomi Watts, in questi giorni sugli schermi con la biografia di Lady Diana, e Robin Wright, finalmente prestata ad un ruolo da protagonista seppur in coabitazione con la più attiva collega australiana. A convincerle aveva concorso certamente la possibilità di recitare in un copione che si annunciava quantomeno scottante - per il tabù che andava a toccare ed anche per il fatto di implicare un uso del corpo emancipato da calcoli di opportunismo e convenienza - e quindi adatto a personalità forti e carismatiche come quelle delle due attrici in grado di sopportare le reticenze e le pressioni legate alla scelta di far parte di una storia che mette in primo piano una vicenda amorosa non comune: Liz (Watts) e Roz (Wright) infatti sono due amiche cresciute in una sorta di laguna blu australiana che ad un certo punto della vita si innamorano contemporaneamente l'una del figlio dell'altra. Un fatto certamente possibile ed ancor più giustificato dalla bellezza genuina e selvaggia del convivio amoroso e dalla sostanziale mancanza di impegni nei confronti di eventuali partners (Roz è agli sgoccioli di un matrimonio ormai finito, Liz è vedova) se non fosse che trattandosi della trasposizione di un libro di Doris Lessing, ed essendo il film un autentico melò, questa tendenza dapprima sensuale e poi giocosa si trasforma con i minuti in una parabola di afflizione e sensi di colpa che coinvolgerà non senza conseguenze persino le giovani fidanzate degli aitanti dongiovanni nel frattempo subentrate nel carnet ufficiale delle amanti sfortunate ed ignare.
Approfittando della bellezza di un paesaggio che non si distacca di molto dagli scenari da paradiso perduto utilizzati dal cinema americano come sfondo privilegiato per amori proibiti e travolgenti, Anne Fontaine è brava a far corrispondere l'ossessione amorosa che si impossessa dei protagonisti alla dimensione edenica e sospesa dell'elemento naturale che circonda ed accoglie i loro corpi discinti. Ma a lungo andare la sorpresa di quelle unioni tardive e scandalose si colora di una routine che riguarda una messinscena troppo scolastica per far sentire gli slanci ed i ripensamenti che destabilizzano l'equilibrio dei personaggi. Manca soprattutto un pensiero che rifletta sulla questione morale che il film pone in essere attraverso gli atteggiamenti e le prese di posizione espresse da Liz e Roz sull'opportunità o meno di quella liason. Al suo posto "Two Mothers" preferisce un empatia a buon mercato, stimolata da una buon numero di scene madri, oppure stuzzicata dalle pruderie vojeristiche a cui fanno finta di prestarsi le sequenze, peraltro molto caste, relative ai rendez-vous amorosi tra madri e figli. In questa maniera è inevitabile che il film della Fontaine si consegni interamente alla bravura delle sue "mothers", ma ciò non basta a salvarlo da una superficialità che lo rende sostanzialmente innocuo. Esattamente il contrario di ciò che si era prefissato.
di Anne Fontaine
con Naomi Watts, Robin Wright
Australia, Francia, 2013
genere drammatico
durata, 111'
A volte capita che la presenza di un attore o di un'attrice nel cast di un certo film sia motivo sufficiente a mettere in circolo una curiosità altrimenti destinata ad interessi differenti. Nel caso di "Two Mothers" di Anne Fontaine l'attenzione era ulteriormente stimolata da un cartellone che annunciava addirittura il privilegio di vedere all'opera due eccellenze del cinema contemporaneo come Naomi Watts, in questi giorni sugli schermi con la biografia di Lady Diana, e Robin Wright, finalmente prestata ad un ruolo da protagonista seppur in coabitazione con la più attiva collega australiana. A convincerle aveva concorso certamente la possibilità di recitare in un copione che si annunciava quantomeno scottante - per il tabù che andava a toccare ed anche per il fatto di implicare un uso del corpo emancipato da calcoli di opportunismo e convenienza - e quindi adatto a personalità forti e carismatiche come quelle delle due attrici in grado di sopportare le reticenze e le pressioni legate alla scelta di far parte di una storia che mette in primo piano una vicenda amorosa non comune: Liz (Watts) e Roz (Wright) infatti sono due amiche cresciute in una sorta di laguna blu australiana che ad un certo punto della vita si innamorano contemporaneamente l'una del figlio dell'altra. Un fatto certamente possibile ed ancor più giustificato dalla bellezza genuina e selvaggia del convivio amoroso e dalla sostanziale mancanza di impegni nei confronti di eventuali partners (Roz è agli sgoccioli di un matrimonio ormai finito, Liz è vedova) se non fosse che trattandosi della trasposizione di un libro di Doris Lessing, ed essendo il film un autentico melò, questa tendenza dapprima sensuale e poi giocosa si trasforma con i minuti in una parabola di afflizione e sensi di colpa che coinvolgerà non senza conseguenze persino le giovani fidanzate degli aitanti dongiovanni nel frattempo subentrate nel carnet ufficiale delle amanti sfortunate ed ignare.
Approfittando della bellezza di un paesaggio che non si distacca di molto dagli scenari da paradiso perduto utilizzati dal cinema americano come sfondo privilegiato per amori proibiti e travolgenti, Anne Fontaine è brava a far corrispondere l'ossessione amorosa che si impossessa dei protagonisti alla dimensione edenica e sospesa dell'elemento naturale che circonda ed accoglie i loro corpi discinti. Ma a lungo andare la sorpresa di quelle unioni tardive e scandalose si colora di una routine che riguarda una messinscena troppo scolastica per far sentire gli slanci ed i ripensamenti che destabilizzano l'equilibrio dei personaggi. Manca soprattutto un pensiero che rifletta sulla questione morale che il film pone in essere attraverso gli atteggiamenti e le prese di posizione espresse da Liz e Roz sull'opportunità o meno di quella liason. Al suo posto "Two Mothers" preferisce un empatia a buon mercato, stimolata da una buon numero di scene madri, oppure stuzzicata dalle pruderie vojeristiche a cui fanno finta di prestarsi le sequenze, peraltro molto caste, relative ai rendez-vous amorosi tra madri e figli. In questa maniera è inevitabile che il film della Fontaine si consegni interamente alla bravura delle sue "mothers", ma ciò non basta a salvarlo da una superficialità che lo rende sostanzialmente innocuo. Esattamente il contrario di ciò che si era prefissato.
Post archiviato nelle categorie:
anteprime,
recensioni
venerdì, ottobre 11, 2013
GRAVITY
di: Alfonso Cuaron
con: Sandra Bullock, George Clooney
- USA/GB 2013 -
90 min
TFK
giovedì, ottobre 10, 2013
Immaginario Cinematografico: Javer Bardem e Michael Fassbender
Post archiviato nelle categorie:
immaginario cinematografico
mercoledì, ottobre 09, 2013
Film in sala da giovedí 10 ottobre 2013
PER ALTRI OCCHI
2013 ITA - 95 min - DOC
di Silvio Soldini, Giorgio Garini
GLORIA
2012 SPA - 110 min
di Sebastián Lelio
con Paulina García, Sergio Hernandez
OLTRE I CONFINI DEL MALE
insidious 2
2013 USA -105 min
di James Wan
con Patrick Wilson, Rose Byrne, Barbara Hershey
ASPIRANTE VEDOVO
2013 ITA - 84 min
di Massimo Venier
con Fabio De Luigi, Luciana Littizzetto, Roberto Citran, Bebo Storti
Il Ragioniere della mafia
>2013 ITA
di Federico Rizzo
con Lorenzo Flaherty, Rosalinda Celentano, Nando Irene, Luca Lionello
EMPEROR
2013 USA - 105 min
di Peter Webber
con Tommy Lee Jones, Matthew Fox, Kaori Momoi
CATTIVISSIMO ME
Despicable Me
2013 USA - 98 min
di Pierre Coffin, Chris Renaud
Baggage Claim
L'amore in valigia
2013 USA - 97 min
di David Talbert
con Paula Patton, Adam Brody
martedì, ottobre 08, 2013
Anni Felici
Anni felici
di Daniele Lucchetti
con Kim Rossi Stuart, Michela Ramazzotti
Italia,Francia 2013
genere, commedia
durata,100'
Arriva alla fine di una lunga corsa di storie e di umori questo "Anni felici", il nuovo film di Daniele Lucchetti, autobiografia romanzata di una famiglia - quella del regista - normalmente disfunzionale. Sponsorizzato dalla Sacher di Nanni Moretti produttore del suo primo film (Domani accadrà,1988) Lucchetti ha attraversato in lungo ed in largo la commedia italiana con una personalità che gli ha permesso di realizzare opere magari non sempre riuscite ("I piccoli Maestri", 1998 "Dillo con parole mie",2003) ma nel complesso originali, capaci di alzarsi alle vette surreali di "Il portaborse" (1991) e "Arriva la bufera" (1992), per poi planare con le ultime uscite su un realismo dapprima contaminato dai peccati di gioventù (Mio fratello è figlio unico, 2007) e poi definitivamente maturato con la selezione del concorso ufficiale al festival di Cannes del 2010, ed il premio ad Elio Germano protagonista de "La nostra vita". Questo per dire di una versatilità autoriale che da sempre si esprime attraverso l'attenzione per le interpretazione attoriali e ruoli da mattatore. Questa volta toccava a Kim Rossi Stuart e Michela Ramazzotti tenere alta la bandiera della categoria per raccontare la parabola di un connubio famigliare sacrificato alle aspirazioni dell'arte ed al desiderio di libertà vissuti nello spirito appassionato ed anticonformista dei '70. A dargli anima e soprattutto corpo le figure di Guido (Stuart), artista in cerca d'affermazione e Serena (Ramazzotti), moglie ed amante sottratta ai doveri famigliari da femminismo e nuove consapevolezze. Ad accompagnare quella parabola lo sguardo dei figli Dario - alterego del regista- e Paolo, testimoni interessati degli alti e bassi di una relazione destinata a diventare il simbolo delle contraddizioni di un'epoca per l'impossibilità dei protagonisti di tenere fede sul piano pratico agli ideali della grande rivoluzione culturale proveniente dal 68. Una dicotomia che il film esprime attraverso il bisogno di appartenenza e di calore umano riflesso nei festosi convivi della famiglia di Serena a cui Guido partecipa per compensare l'affetto negatogli da una madre severa e distante, e contemporaneamente nell'egogentrismo della sua condizione di artista bisognoso d'affrancarsi da un ordinarietà che ne soffoca slanci ed aspirazioni. Stanca di subirne le conseguenze Serena incomincerà a frequentare Helke un'affascinante gallerista che l'aiuterà a considerare la sua esistenza da una prospettiva nuova ed inaspettata.
Tra dramma e commedia "Anni felici" si sviluppa in una dimensione privata e nel ricordo di un esperienza lontana nel tempo. Ne consegue una ricostruzione emotiva, volutamente epurata da quegli eventi forti (l'escalation terroristica, la lotta politica, la vivacità del mondo culturale ed artistico analizzati solo negli aspetti funzionali alla storia) che rischiavano di togliere forza al nucleo centrale del film imperniato sulle vicende sentimentali di Guido e Serena e sulle conseguenze di queste sul resto della famiglia. In questo modo tutto diventa accessorio rispetto al primo piano delle ragioni dell'uno e dell'altra, al loro modo di prendersi e lasciarsi, ma anche alla temperatura emotiva che si sviluppa attorno alle vicende legate ai tentativi di Guido di imporre il suo talento artistico cercando il consenso della critica che conta, ma anche ai continui smacchi subiti da Serena, prima subordinata non senza sofferenza agli estri ondivaghi del compagno e per questo disposta ad assecondarlo passando sopra alle sue infedeltà; successivamente trascinata in un vortice di sensualità inaspettato e fuori dalla norma quando diventa oggetto di un desiderio che si trasforma in qualcos'altro. Ambientato in un paesaggio colorato ed astratto in cui luoghi ed ambienti identificano non tanto uno spazio geografico ma una dimensione dell'anima (la Camargue per esempio, chiamata ad esternare e contenere con la sua natura edenica e selvaggia la rinascita di Serena) "Anni felici" riesce a mantenere inalterata la sua vena autoriale senza aver paura di manifestare una ricerca di empatia, affermata in maniera evidente dalla scelta di due attori tanto bravi quanto fotogenici. Ed è proprio l'interpretazione di Michela Ramazzotti più di quella di un Kim Rossi Stuart un pò troppo sopra le righe a valere da sola il prezzo del biglietto. Chiamata a confrontarsi con un personaggio che rischiava di cristallizzarla nel ruolo di "povera ma bella" più volte recitato, l'attrice si dimostra all'altezza del compito mettendo in mostra, oltre alla consueta fisicità, un caleidoscopio di sentimenti e di sfumature che le permette di diventare il barometro emozionale di un film che coinvolge senza il bisogno di essere ruffiano. Lucchetti mette il suo eclettismo a disposizione della storia costruendo una corrispondenza tra l'eterogeneità dello stile (da quello classico improntato ad una bellezza estetica che coincide spesso con la cura del dettaglio ad un altro più nervoso e sporco, pronto a restituire frenesia e voglia di vivere) la contaminazione di formati (filmini in super 8, pellicola e digitale) e l'eterogeneità del registri narrativi (nella prevalenza del realismo emotivo trovano spazio momenti surreali e quasi onirici) con l'esuberanza caratteriale e la simpatica folia dei personaggi, tutti nessuno escluso, alla continua ricerca di una felicità da vivere e condividere. Ma è nell'equilibrio del ritratto di due genitori complicati ma irrestibilmente veri che Luchetti vince la sua sfida perchè il ricordo del passato, lungi dall'essere un tributo nostalgico ed irreprensibile è il segno di un affetto sincero ed irriducibile che colpisce al cuore.
di Daniele Lucchetti
con Kim Rossi Stuart, Michela Ramazzotti
Italia,Francia 2013
genere, commedia
durata,100'
Arriva alla fine di una lunga corsa di storie e di umori questo "Anni felici", il nuovo film di Daniele Lucchetti, autobiografia romanzata di una famiglia - quella del regista - normalmente disfunzionale. Sponsorizzato dalla Sacher di Nanni Moretti produttore del suo primo film (Domani accadrà,1988) Lucchetti ha attraversato in lungo ed in largo la commedia italiana con una personalità che gli ha permesso di realizzare opere magari non sempre riuscite ("I piccoli Maestri", 1998 "Dillo con parole mie",2003) ma nel complesso originali, capaci di alzarsi alle vette surreali di "Il portaborse" (1991) e "Arriva la bufera" (1992), per poi planare con le ultime uscite su un realismo dapprima contaminato dai peccati di gioventù (Mio fratello è figlio unico, 2007) e poi definitivamente maturato con la selezione del concorso ufficiale al festival di Cannes del 2010, ed il premio ad Elio Germano protagonista de "La nostra vita". Questo per dire di una versatilità autoriale che da sempre si esprime attraverso l'attenzione per le interpretazione attoriali e ruoli da mattatore. Questa volta toccava a Kim Rossi Stuart e Michela Ramazzotti tenere alta la bandiera della categoria per raccontare la parabola di un connubio famigliare sacrificato alle aspirazioni dell'arte ed al desiderio di libertà vissuti nello spirito appassionato ed anticonformista dei '70. A dargli anima e soprattutto corpo le figure di Guido (Stuart), artista in cerca d'affermazione e Serena (Ramazzotti), moglie ed amante sottratta ai doveri famigliari da femminismo e nuove consapevolezze. Ad accompagnare quella parabola lo sguardo dei figli Dario - alterego del regista- e Paolo, testimoni interessati degli alti e bassi di una relazione destinata a diventare il simbolo delle contraddizioni di un'epoca per l'impossibilità dei protagonisti di tenere fede sul piano pratico agli ideali della grande rivoluzione culturale proveniente dal 68. Una dicotomia che il film esprime attraverso il bisogno di appartenenza e di calore umano riflesso nei festosi convivi della famiglia di Serena a cui Guido partecipa per compensare l'affetto negatogli da una madre severa e distante, e contemporaneamente nell'egogentrismo della sua condizione di artista bisognoso d'affrancarsi da un ordinarietà che ne soffoca slanci ed aspirazioni. Stanca di subirne le conseguenze Serena incomincerà a frequentare Helke un'affascinante gallerista che l'aiuterà a considerare la sua esistenza da una prospettiva nuova ed inaspettata.
Tra dramma e commedia "Anni felici" si sviluppa in una dimensione privata e nel ricordo di un esperienza lontana nel tempo. Ne consegue una ricostruzione emotiva, volutamente epurata da quegli eventi forti (l'escalation terroristica, la lotta politica, la vivacità del mondo culturale ed artistico analizzati solo negli aspetti funzionali alla storia) che rischiavano di togliere forza al nucleo centrale del film imperniato sulle vicende sentimentali di Guido e Serena e sulle conseguenze di queste sul resto della famiglia. In questo modo tutto diventa accessorio rispetto al primo piano delle ragioni dell'uno e dell'altra, al loro modo di prendersi e lasciarsi, ma anche alla temperatura emotiva che si sviluppa attorno alle vicende legate ai tentativi di Guido di imporre il suo talento artistico cercando il consenso della critica che conta, ma anche ai continui smacchi subiti da Serena, prima subordinata non senza sofferenza agli estri ondivaghi del compagno e per questo disposta ad assecondarlo passando sopra alle sue infedeltà; successivamente trascinata in un vortice di sensualità inaspettato e fuori dalla norma quando diventa oggetto di un desiderio che si trasforma in qualcos'altro. Ambientato in un paesaggio colorato ed astratto in cui luoghi ed ambienti identificano non tanto uno spazio geografico ma una dimensione dell'anima (la Camargue per esempio, chiamata ad esternare e contenere con la sua natura edenica e selvaggia la rinascita di Serena) "Anni felici" riesce a mantenere inalterata la sua vena autoriale senza aver paura di manifestare una ricerca di empatia, affermata in maniera evidente dalla scelta di due attori tanto bravi quanto fotogenici. Ed è proprio l'interpretazione di Michela Ramazzotti più di quella di un Kim Rossi Stuart un pò troppo sopra le righe a valere da sola il prezzo del biglietto. Chiamata a confrontarsi con un personaggio che rischiava di cristallizzarla nel ruolo di "povera ma bella" più volte recitato, l'attrice si dimostra all'altezza del compito mettendo in mostra, oltre alla consueta fisicità, un caleidoscopio di sentimenti e di sfumature che le permette di diventare il barometro emozionale di un film che coinvolge senza il bisogno di essere ruffiano. Lucchetti mette il suo eclettismo a disposizione della storia costruendo una corrispondenza tra l'eterogeneità dello stile (da quello classico improntato ad una bellezza estetica che coincide spesso con la cura del dettaglio ad un altro più nervoso e sporco, pronto a restituire frenesia e voglia di vivere) la contaminazione di formati (filmini in super 8, pellicola e digitale) e l'eterogeneità del registri narrativi (nella prevalenza del realismo emotivo trovano spazio momenti surreali e quasi onirici) con l'esuberanza caratteriale e la simpatica folia dei personaggi, tutti nessuno escluso, alla continua ricerca di una felicità da vivere e condividere. Ma è nell'equilibrio del ritratto di due genitori complicati ma irrestibilmente veri che Luchetti vince la sua sfida perchè il ricordo del passato, lungi dall'essere un tributo nostalgico ed irreprensibile è il segno di un affetto sincero ed irriducibile che colpisce al cuore.
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
Iscriviti a:
Post (Atom)