Kurt Cobain - Montage of Heck".
di Brett Morgen
Usa, 2015
genere, documentario
durata, 132'
"I feel
stupid and contagious/Here we are now: entertain us". Era cominciata
così, almeno sui grandi numeri. E con feroci contorsioni di stomaco da
un lato del palco ("Ho subito dieci interventi diversi nelle zone
gastrointestinali superiori e inferiori che hanno rivelato una brutta
infiammazione. Ho consultato quindici medici diversi e ho provato una
cinquantina di medicine per l'ulcera. L'unica cosa che funzionasse erano
gli oppiacei pesanti... Ho provato l'eroina per la prima volta nel
1987, ad Aberdeen e l'ho usata per circa dieci volte ancora dall'87 al
'90... Per un po' ha funzionato come palliativo ma poi il dolore e'
tornato per cui ho lasciato perdere... Soffro di cattive abitudini nel
sonno e nell'alimentazione. Soffro di aver fatto un tour di sette
cazzo di mesi..." - K.Cobain, "Diari" -), con annesso ribrezzo verso un
sistema ben al di sotto di ogni sospetto nella sua foga cieca per la
grande-giostra-a-pagamento, e masse già abbondantemente sfessate
dall'abuso del cocktail forse più velenoso in circolazione - quello a
base di dosi variabili di buona fede e disperata necessita' di
aggrapparsi a qualunque appiglio simbolico risarcitorio - dall'altro. E
più dal primo versante si tentavano manovre, magari ingenue, di
disassuefazione forzata, più dal secondo s'invocavano beveraggi sempre
più massicci e di maggiore gradazione...
Se e' la vecchia trappola del successo quella
a cui abbiamo per sommi capi alluso, il documento di B.Morgen,
"K.Cobain - montage of Heck - il titolo del quale raccoglie
un'intestazione apposta dallo stesso chitarrista/cantante di Aberdeen
(Wa), località a non molti chilometri sia da Seattle che da Portland, ad
una personale raccolta di temi sparsi, distorsioni, nenie macabre,
s'incarica di allargare lo spettro delle considerazioni possibili
avvalendosi di un corposo materiale messo a disposizione dalla famiglia
naturale nonché da quella costruita nei primi anni '90 assieme a C.Love,
organizzato a mo' di collage con lo scopo di ripercorrere pressoché per
intero la forsennata a travagliata parabola di un tale che amava
talvolta firmarsi Kur-d-t Koebane.
In
quella che col solito e comodo senno di poi appare una scomposta
iattazione verso il niente-di-niente punteggiata di tregue spossate e
intermezzi di appartata ispirazione, il film tenta di assemblare un
itinerario allo stesso tempo sentimentale e di formazione poggiandosi,
pero', in prevalenza sul versante morbido e un tanto giulebboso, sul genere quanto-ci-manca-lui-e-il-suo- tormentato-talento
(e forse non e' proprio un caso che all'appello semi-celebrativo manchi
la versione dei fatti di Dave Grohl, l'unico della compagnia, tra
l'altro, ad essere rimasto attivo nel music show-biz), che prevede un'alternanza asincrona tra le dichiarazioni rese da alcuni co-protagonisti e comprimari e il flusso storico di
una narrazione che si sforza di essere individuale e collettiva
(arricchita in via ulteriore di brevi animazioni a colmare gli ovvi
vuoti di un'avventura umana e artistica agli inizi, del tutto
congetturale perciò nei risvolti più prosaici). Il risultato di un
lavoro siffatto, che trova nella composizione di strumenti espressivi
disparati - super 8 domestici, istantanee, disegni, pagine di diario,
video amatoriali delle primissime esibizioni e delle fantasie private,
reperti giornalistici, immagini rubate sopra e dietro il palco a deflagrazione avvenuta
- la sua più evidente ragion d'essere stilistica, seppur niente affatto
inedita, e' da considerarsi interessante al momento di circostanziare
il paesaggio fisico e immaginativo della pre-adolescenza di Cobain,
allineando dettagli - con ogni probabilità casuali, non per questo meno
significativi - di quell'America profonda, provinciale, silenziosa, non
di rado tetra, all'interno della quale si comincia da subito a prendere
dimestichezza con il lato più esigente, cioè meno letterario, del ben
noto american way of life (fatto per sua buona parte della
presenza costante degli oggetti di consumo, tante volte nella loro
versione di rifiuto inutilizzabile destinato ad una accumulazione
marginale eppero' ineludibile, tale da impregnarsi sovente di una qual
maligna carica allusiva sottolineata con veemenza, ad esempio, nel
Cinema di Korine; dalla simmetrica latenza/assenza di una sincera e
costante empatia intergenerazionale; di un rapporto con la wilderness che
nasce e si sviluppa secondo i codici incerti di una grammatica perlopiù
incapace di superare quelle dicotomie semplicisticamente radicali che
separano senza possibilità di mediazione la verde desolazione residuale
suburbana dal rigoglio incontaminato, di frequente avvolto nel mistero
della sua irriducibilita' e un tanto sinistro, dei grandi spazi aperti),
a metabolizzarlo, a subirlo, a rigettarlo, anche, fino al punto di
farne persino il centro delle proprie ossessioni, dei propri incubi
ricorrenti, la causa e l'effetto delle proprie apatie.
Se
a ciò si aggiunge, poi, il subitaneo abbandono da parte degli affetti
di riferimento - Kurt all'età di sette, otto anni, agli albori del riflusso post-Vietnam,
assiste al divorzio dei genitori e a ruota comincia il mesto periplo
degli affidamenti più o meno duraturi presso individui che sebbene
appartenenti in vario grado alla sfera materna o paterna si rivelano
poco o punto interessati al suo rovello interiore - diventa addirittura
banale, per un carattere ricettivo ma introflesso, trovarsi collocato ante aetatem nei
territori del risentimento e dell'alienazione, sfuggire dai quali si
scopre essere assai complicato mano mano che il tempo passa, la
consapevolezza del mondo
si delinea e si svelano insoddisfacenti pure gli atti vandalici,
l'assunzione di sostanze, il ripiegamento a volte salutare ma più spesso
nevrotico in se stessi. Proprio qui, forse, galleggia quel grumo
irrisolto ma fecondo di frustrazioni, di speranze, di precoci
disillusioni, di sogni quasi sempre e solo infranti, che abbiamo
imparato a conoscere e a riconoscere nella forma di quella immediatezza
riconducibile ad una manciata compatta di note, tanto in apparenza
docili nel disporsi secondo architetture essenziali, quanto una per una
carica di una energia primordiale - al tempo brutale, infantile e
stranita - in stretto rapporto con strofe crudamente naïf in
grado, tra un paradosso, uno sconforto e una strafottenza, di produrre
risonanze metaforiche sconcertanti, quasi sempre in oscillazione su
un'altalena spirituale che incastra il grido mezzo sguaiato alla
cantilena, al mormorio monotono, alla lamentazione esausta. Nucleo
enigmatico, questo (che, a pensarci, non escluderebbe neanche il
rapporto di fascinazione/ripulsa nei confronti dell'ingranaggio dei media,
argomento, nel caso, tutt'altro che sviscerato) che l'opera di Morgen
via via smarrisce, appiattendosi su una ricapitolazione prevedibile e
piuttosto consolatoria (quand'anche appesantita da insistenze e
lungaggini, a corroborare perversamente un'affermazione proprio di
Cobain secondo cui "credo che il problema con la nostra storia sia che
non c'è roba vera e interessante per trarne un bel racconto" - K.Cobain,
op. cit.) circa l'artista sensibile poco più che ventenne, catapultato nella privilegiata/scomoda ma soprattutto non richiesta posizione di icona di una generazione, quella detta X,
con tutto ciò che di spropositato, pleonastico, ricattatorio,
pseudo-messianico, trito e demenziale tale etichetta si porta dietro,
dipendenza da qualsivoglia circostanza esterna ma dal possente impatto
psicologico, inclusa: denaro, popolarità, oggetti, giudizi, rapporto con
l'altro sesso, et. O sull'arte varia dei di lui eccessi e stravaganze,
così in potenza anticonformisti e giocati sempre sul filo del rasoio
come, di fondo, meramente autolesionisti, se non funzionali ad un
meccanismo commercial-propagandistico tarato sull'antico epater le bourgeois (sempre
ammesso che tale riflesso condizionato sia ancora sul serio efficace)
che ripone comunque nella consolidata capacita' di assimilare ogni asprezza lo scarto decisivo del suo quinto asso, sempre sfilato al momento giusto dalla proverbiale manica e sempre, manco a dirlo, vincente.
Si
potrebbe, allora, ognuno per se', insistere. Magari con "In bloom" ("We
can have some more/Nature is a whore/Bruises on the fruit/Tender age in
bloom"). Magari con qualcos'altro. O forse, ormai, e' davvero tardi.
Troppo. Con una punta di arreso cinismo, tutto sembra essere accaduto un
milione di anni fa o non aver mai smesso di accadere, milioni di volte.
Inutilmente. "A denial, a denial, a denial...", non e' bastato, dunque.
Qualche giorno fa, Sawyer Sweeten, diciannovenne stella del piccolo schermo, si e' sparato un colpo in testa. Sotto un altro. There's no business like show business.
TFK
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