Giovani si diventa
di Noah Baumbach
con Ben Stiller, Naomi Watts, Amanda Seyfried, Adam Drinve
Usa, 2014
genere, commedia drammatica
durata, 97'
Il profondo malessere che è peculiare dell'uomo medio – o uomo-massa – nella società post-industriale, scandagliato in lungo e in largo tanto dalla cinematografia quanto più dalla narrativa che indichiamo come “postmoderna”, qui emerge attraverso la lucida raffigurazione del lento implodere di un rapporto matrimoniale nella società che per storia e cultura (e, ormai, per antonomasia) è la più adatta a rappresentare in modo quasi allegorico l'idea di “crisi”, intesa solo in seconda battuta nell'accezione attuale meramente economica.
La coppia di protagonisti – ben incarnata dal duo Stiller-Watts, aiutato anche da una fisicità “ordinaria” – ricerca nella reiterazione una via di fuga dall'incipiente consapevolezza della vecchiaia e della morte, tentando di farsi scudo di una routine inerziale che lascia trasparire il sotteso disfacimento del proprio rapporto. Un evento che accade fuori scena, filtrato in modo sottile/subliminale da una sceneggiatura che riesce a dire molto con poco, riempiendo le scene di significato, al punto di ottenere in alcuni casi quasi delle puntuali allegorie.
Il deus ex machina sembra essere l'incontro con una giovane coppia hipster, che innesca nei protagonisti un rinvigorito entusiasmo e li porta a emulare attraverso gesti-simbolo la ricerca di una nuova identità del tutto artefatta.
Tutto ciò riscoprendo quelli che per la giovane coppia – preda dello stesso inconscio malessere postmoderno – sono i valori “giusti”, alieni alla cultura americana, banalizzati in una mera emulazione di comportamenti anacronistici che sconfina nell'idealizzazione di un passato ricreato artificialmente attraverso i luoghi comuni.
Ma la storia non si esaurisce in questo puntuale ritratto della società industriale postmoderna, arricchendosi di un'interessante riflessione metafilmica sul valore dell'opera d'arte e sulla sua realizzazione, affrontando la discussione da un punto di vista “generazionale”, che porta la storia alla catarsi e i due protagonisti alla logica conclusione.
Un film posato e interessante che economizza la pellicola e non si accontenta di una valida scrittura, ma rende ogni scena profondamente significativa. Fino al brillante e terribile finale.
Michelangelo Franchini
di Noah Baumbach
con Ben Stiller, Naomi Watts, Amanda Seyfried, Adam Drinve
Usa, 2014
genere, commedia drammatica
durata, 97'
Il profondo malessere che è peculiare dell'uomo medio – o uomo-massa – nella società post-industriale, scandagliato in lungo e in largo tanto dalla cinematografia quanto più dalla narrativa che indichiamo come “postmoderna”, qui emerge attraverso la lucida raffigurazione del lento implodere di un rapporto matrimoniale nella società che per storia e cultura (e, ormai, per antonomasia) è la più adatta a rappresentare in modo quasi allegorico l'idea di “crisi”, intesa solo in seconda battuta nell'accezione attuale meramente economica.
La coppia di protagonisti – ben incarnata dal duo Stiller-Watts, aiutato anche da una fisicità “ordinaria” – ricerca nella reiterazione una via di fuga dall'incipiente consapevolezza della vecchiaia e della morte, tentando di farsi scudo di una routine inerziale che lascia trasparire il sotteso disfacimento del proprio rapporto. Un evento che accade fuori scena, filtrato in modo sottile/subliminale da una sceneggiatura che riesce a dire molto con poco, riempiendo le scene di significato, al punto di ottenere in alcuni casi quasi delle puntuali allegorie.
Il deus ex machina sembra essere l'incontro con una giovane coppia hipster, che innesca nei protagonisti un rinvigorito entusiasmo e li porta a emulare attraverso gesti-simbolo la ricerca di una nuova identità del tutto artefatta.
Tutto ciò riscoprendo quelli che per la giovane coppia – preda dello stesso inconscio malessere postmoderno – sono i valori “giusti”, alieni alla cultura americana, banalizzati in una mera emulazione di comportamenti anacronistici che sconfina nell'idealizzazione di un passato ricreato artificialmente attraverso i luoghi comuni.
Ma la storia non si esaurisce in questo puntuale ritratto della società industriale postmoderna, arricchendosi di un'interessante riflessione metafilmica sul valore dell'opera d'arte e sulla sua realizzazione, affrontando la discussione da un punto di vista “generazionale”, che porta la storia alla catarsi e i due protagonisti alla logica conclusione.
Un film posato e interessante che economizza la pellicola e non si accontenta di una valida scrittura, ma rende ogni scena profondamente significativa. Fino al brillante e terribile finale.
Michelangelo Franchini
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