Big Game
di Jalmari Helander
con Samuel L. Jackson, Ray Stevenson, Onni Tomilla, Jim Broadbent
Usa, 2014
genere, azione
durata, 90'
Al cinema destinato ad andare in scena nel periodo più caldo dell’anno non si può chiedere più di tanto e anche lo spettatore più distratto conosce in anticipo ciò che lo aspetta al momento di entrare in sala. Pur con qualche eccezione, i titoli a disposizione del pubblico sono esuberi di magazzino, programmati nel circuito allo scopo di legittimare la successiva distribuzione home video. Strategie di mercato di cui la Eagle ha sicuramente tenuto conto quando ha deciso di distribuire un film d’azione come “Big Game – caccia al presidente”, che appare fin da subito un’ imitazione delle grandi pellicole blockbuster. Nel caso del lungometraggio diretto dal finlandese Jalmari Helander, il modello è quello derivato da “Air force One” di Wolfgang Petersen, action movie che vedeva il presidente americano trasformarsi in una sorta di Rambo per sbarazzarsi dei dirottatori che lo tenevano in ostaggio. In questo caso però la variante di "Big Game" è quella di presentarci un inquilino della Casa Bianca (Samuel Lee Jackson in versione Barak Obama) distante anni luce da quello intraprendente e pugnace interpretato da Harrison Ford e di affidarne le sorti - queste si altrettanto funeste - al piccolo Oskari, il tredicenne che lo aiuterà a salvarsi da chi lo vuole morto.
Detto che il film, nella linearità della storia e nel totale disimpegno dei contenuti, rispecchia in pieno le caratteristiche del cosiddetto “cinema balneare”, "Big Game" è un racconto di formazione a doppio binario, perchè le conseguenze delle vicende a cui assistiamo saranno motivo di crescita sia per il coraggioso bambino, sia per il simpatico presidente, la cui figura, affabile e carismatica, è del tutto allineata alla correttezza politica con cui il cinema mainstream si rivolge al più importante cittadino americano. Così, volendo, i motivi d’interesse non vanno ricercati nella vorticosa successione degli avvenimenti ne tantomeno nell’esibita consistenza del nemico, depauperata da una serie di motivazioni che la frettolosa sceneggiatura non riesce mai a spiegare. A farsi preferire sono piuttosto l’originalità dello “strano” sodalizio, reso credibile dall’alchimia tra i due interpreti e la scelta di un punto di vista che, nel privilegiare lo stupore fanciullesco di Oskari, giustifica, almeno in parte, l’ingenuità della messinscena allestita dal regista.
di Jalmari Helander
con Samuel L. Jackson, Ray Stevenson, Onni Tomilla, Jim Broadbent
Usa, 2014
genere, azione
durata, 90'
Al cinema destinato ad andare in scena nel periodo più caldo dell’anno non si può chiedere più di tanto e anche lo spettatore più distratto conosce in anticipo ciò che lo aspetta al momento di entrare in sala. Pur con qualche eccezione, i titoli a disposizione del pubblico sono esuberi di magazzino, programmati nel circuito allo scopo di legittimare la successiva distribuzione home video. Strategie di mercato di cui la Eagle ha sicuramente tenuto conto quando ha deciso di distribuire un film d’azione come “Big Game – caccia al presidente”, che appare fin da subito un’ imitazione delle grandi pellicole blockbuster. Nel caso del lungometraggio diretto dal finlandese Jalmari Helander, il modello è quello derivato da “Air force One” di Wolfgang Petersen, action movie che vedeva il presidente americano trasformarsi in una sorta di Rambo per sbarazzarsi dei dirottatori che lo tenevano in ostaggio. In questo caso però la variante di "Big Game" è quella di presentarci un inquilino della Casa Bianca (Samuel Lee Jackson in versione Barak Obama) distante anni luce da quello intraprendente e pugnace interpretato da Harrison Ford e di affidarne le sorti - queste si altrettanto funeste - al piccolo Oskari, il tredicenne che lo aiuterà a salvarsi da chi lo vuole morto.
Detto che il film, nella linearità della storia e nel totale disimpegno dei contenuti, rispecchia in pieno le caratteristiche del cosiddetto “cinema balneare”, "Big Game" è un racconto di formazione a doppio binario, perchè le conseguenze delle vicende a cui assistiamo saranno motivo di crescita sia per il coraggioso bambino, sia per il simpatico presidente, la cui figura, affabile e carismatica, è del tutto allineata alla correttezza politica con cui il cinema mainstream si rivolge al più importante cittadino americano. Così, volendo, i motivi d’interesse non vanno ricercati nella vorticosa successione degli avvenimenti ne tantomeno nell’esibita consistenza del nemico, depauperata da una serie di motivazioni che la frettolosa sceneggiatura non riesce mai a spiegare. A farsi preferire sono piuttosto l’originalità dello “strano” sodalizio, reso credibile dall’alchimia tra i due interpreti e la scelta di un punto di vista che, nel privilegiare lo stupore fanciullesco di Oskari, giustifica, almeno in parte, l’ingenuità della messinscena allestita dal regista.
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