domenica, luglio 31, 2016

sabato, luglio 30, 2016

LA NOTTE DEL GIUDIZIO - ELECTION DAY

La notte del giudizio - Election Day
di James DeMonaco
con Frank Grillo, Elizabeth Mitchell, Mykelti Williamson 
USA, 2016 
genere, horror 
durata, 105'



Durante la campagna elettorale presidenziale americana prendono piede le proteste contro la "notte del giudizio" che alcuni ritengono sia solo un metodo del governo per ridurre la popolazione povera e le relative spese di assistenza. La candidata alla presidenza, senatrice Charlie Roan, che visse una terribile esperienza 18 anni prima, intende eliminare la notte in cui ogni crimine è concesso. Ma i cosiddetti Nuovi Padri Fondatori, che l'hanno introdotta, non stanno con le mani in mano: sostengono Edwidge Owens, un religioso rivale di Charlie, e, soprattutto, vogliono sfruttare l'imminente notte del giudizio per eliminare la rivale. Leo Barnes, protagonista del film precedente, "Anarchia - La notte del giudizio", ora si occupa della sicurezza per Charlie Roan. Intanto turisti da tutto il mondo arrivano negli Stati Uniti. Leo verifica che le misure di sicurezza per la casa di Charlie Roan siano a posto, cecchini sul tetto compresi. Purtroppo, però, quando la notte comincia ogni certezza viene disintegrata e nessuno è esentato dal pericolo. Se il primo film della serie, "La notte del giudizio", era claustrofobico e il secondo, "Anarchia - La notte del giudizio", era agorafobico, questo terzo film cerca di ampliare i contenuti e i significati riflettendo sulla natura del futuro distopico, descritto per trarne una posizione di carattere filosofico- politico: nella trama, infatti, sono chiari i riferimenti a "1997 - Fuga da New York". L'intento è encomiabile, la resa è limitata dallo schematismo eccessivo e dalla semplicistica rappresentazione delle posizioni in gioco, con un ritratto dei sostenitori dello "sfogo" sostanzialmente parodistico, a tratti divertente, ma non troppo efficace ai fini drammatici. Il film resta comunque in gran parte godibile sotto l'aspetto spettacolare, perché non viene trascurata la parte di intrattenimento: i momenti migliori sono quelli di pura azione, svincolati dal sottotesto politico-sociale. 

Come l'episodio precedente, anche questo è, in sostanza, articolato in una lunga fuga all'interno della città, percorsa dall'ondata di violenza, con inaspettate alleanze e tradimenti. In questo senso, come spesso capita ai sequel, è una ripetizione. Ritmo e tensione sono tenuti a buon livello, ma la sensazione di déjà vu si avverte. Le violenze vendicative e catartiche dello "sfogo" finiscono però sullo sfondo della vicenda fantapolitica della lotta tra i candidati, con intrighi di stampo spionistico e complottista. È apprezzabile il cambio di prospettiva, ma prolungato per troppo tempo lo svolgimento. Le ambizioni di trovare un significato più profondo nella vicenda contribuiscono a diminuirne la resa, nonostante si tratti di approfondimenti non del tutto banali. Il finale e le scene che immediatamente lo precedono sono poco azzeccati, perché troppo vincolati alla trasmissione del messaggio. James DeMonaco, desideroso di sviluppare un arco narrativo più ampio di quanto appariva possibile nel primo episodio, si conferma capace di creare uno spettacolo avvincente e ben orchestrato. Lo aiuta un cast come sempre efficiente, pur non famoso. Frank Grillo ritorna nel ruolo, qui più professionale e meno ieratico, del duro Leo Barnes e si conferma attore affidabile e carismatico, nonostante il suo ruolo sia più convenzionale e generico.
Riccardo Supino

venerdì, luglio 29, 2016

NOVITA' HOMEVIDEO: AVE CESARE

DISPONIBILE IN DIGITAL HD DAL 23 GIUGNO 2016
IN BLU-RAY, DVD E VIDEO ON DEMAND DAL 6 LUGLIO 2016

CON UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA


AveCesare
di Joel ed Ethan Coen.
con Josh Brolin, George Clooney, Alden Ehrenreich, Scarlett Johansson, Ralph Fiennes, Channing Tatum, Tilda Swinton, Jonah Hill, Frances McDormand.
USA, 2016 
genere, commedia
durata, 105' 


Quantunque l'umana Idiozia - idiozia nei comportamenti, a ritroso nelle intenzioni e negli scopi - assieme alla confidenza assimilata con l'Immaginario Americano e col Cinema (la Storia del), siano tratti ricorrenti nel discorso della coppia di St.Louis Park (dalle parti di Minneapolis, Mn), è indubbio che, in specie la prima, sia stata al tempo con oculatezza vezzeggiata, dopodiché arginata dal guinzaglio avvertito di determinazioni concordi circa l'inevitabilità del suo imporsi, quanto persuase del valore antalgico della di lei emersione senza infingimenti, come della sistematica sottomissione della medesima al regime dello sberleffo. Più o meno da sempre, cioè, la ditta Coen sbircia il termometro della dabbenaggine sapiens e, con pazienza pari alla sagacia, annota a margine glosse in forma di referti cinico-sarcastici: all'assommarsi ominoso delle insensatezze oppone poi, comunque, somministrazioni omeopatiche di humour  freddo e sommesso disincanto.

Stavolta si torna nel cuore della Hollywood-del-cuore - quella dei musical del prediletto Busby Berkeley o, nel caso, dei marinai canterini e danzanti alla Gene Kelly; delle pellicole acquatiche con Esther Williams; dei western ingenui e delle high-society comedies - che è poi quella di "Barton Fink" e della Capitol Pictures, tutta presa - allora - a mettere in piedi un film sul wrestling da cucire addosso a Wallace Beery, e qui è quella tenuta alla stanga dal polso di Eddie Mannix/J.Brolin, scaltro risolutore-di-problemi, nix-man il cui solo intento è di far funzionare il meccanismo/il Cinema, oltre il quale - suggeriscono con la nota impassibilità i Coen - forse c'è solo, addirittura, la fine-del-mondo (occhio alla Lockheed e ai progetti di sperimentazione della Bomba H a spasso per gli atolli del Pacifico: leve teoriche e pratiche, queste - lauto stipendio e prospettiva di "non dover lavorare più dopo la pensione" inclusi - che a ripetizione tentano Mannix al fine di convincerlo a recidere il cordone che lo lega al circo delle evasioni di celluloide).


Tra l'apocalisse e la placida dittatura dell'Idiozia, ecco che si frappone il rapimento della star in mezza tunica e sandaloni Baird Whitlock/G.Clooney, fatto sparire durante la lavorazione dell'"intrattenimento per le masse ansiose di sognare" dal titolo Hail, Caesar - A story of Christ, ad opera nientepopodimeno che di un manipolo di vendicativi sceneggiatori/intellettuali sedicenti comunisti (siamo in zona pre-McCarthy, per intendersi, ennesimo crinale all'interno di un lavoro della ditta, a scongiurare, nella ciclica chimera di una metanoia impossibile e forse immeritata, il vecchio, doloroso sospetto di un altro mesto azzeramento funzionale sempre e solo ad una nuova e più feroce Idiozia), capitanati da un perplesso, non per questo meno vaniloquiente, Herbert Marcuse. In contrapposizione allo sgangherato disegno, s'adopera ancora il tetragono Mannix - barlume di pragmatismo (coeniano) in un oceano di scipita demenza - più che mai deciso a far sì che, bene o male, l'illusione sia ancora possibile nonostante tutto, eminentemente nonostante il brancolare a casaccio di una vasta torma d'inetti, di uomini-che-non-ci-sono: divi vacui e/o capricciosi (Whitlock/Clooney non trova di meglio che punzecchiarsi il sedere con la daga di scena ogni volta che i movimenti richiedono un minimo d'accortezza; DeeAnna Moran/Johansson litiga col suo "culo di pesce" che le comprime, nelle fogge plastiche della sirena in eterno ammollo, le incipienti morbidezze di una maternità casuale); maneggioni annoiati (Joe Silverman/Hill sbarca il lunario, blindato in un'ebetudine tutta sua che gli risulterà paradossalmente fruttuosa, garantendo per le scempiaggini commesse dai nomi di cartellone); eroi proprio malgrado (l'inghippo viene fiutato - non a caso, in modo quasi incidentale - dal cowboy ritardato Hobie Doyle/Ehrenreich, incapace d'intonare una battuta che è una ma pronto a seguire la più evidente delle tracce); pensatori frustrati e ipocriti (ossessionati dal demone del Capitale al punto di giocarselo in maniera grottesca e, giustamente, umiliante); giornalisti astiosi, queruli e... doppi (a dire che la stampa, come la giri, quella è: non un granché): tutti con lo stesso stupore prossimo ad un nirvana cretino stampato su visi nove volte su dieci assorti o increduli, specchi sbilenchi della grinta di Eddie the fixer, il cui sguardo, al contrario strizzato e diffidente, soppesa e distanzia come può l'universale Idiozia.

Tra giochi grafici e quinte fasulle, campi/controcampi scientemente didascalici, inquadrature strette ad isolare, evocativa attenzione agli oggetti e ai congegni, la luce soffice ma nitida di Deakins a palesare/camuffare la finzione di un'onnicomprensiva messinscena atta a dissimulare, nel migliore dei casi, l'inutilità di qualunque agitazione che voglia proporsi come rimedio ad una realtà vuota perché, di fondo, non tragica ma caricaturale, "AveCesare" si propone all'occhio in una nudità quasi inerme - il film si apre e si chiude con una confessione - mostrando di sé oltre all'ordito (le singole figure, i loro atteggiamenti manierati, il frasario stereotipato, l'annaspare nella futilità persino con fatica), la trama, ossia quello sfondo imponderabile e con ogni probabilità insensato (l'esistenza ? La sua allucinazione ?) su cui stagnano le miserie di un umano mediocre e vile, sconfitto in partenza causa tare ineliminabili quanto - spesso - compiaciute, impossibilitato a migliorare e a trovar tregua se non nella ripicca senza scopo del Cinema, ingranaggio pretestuoso ma ludico, scherzo costruito allo scopo di non andare mai a vedere come-va-a-finire, perché lo si sa già e non vale la pena. Continuare, allora. Differire, procrastinare. A qualunque costo (la montatrice interpretata da F.McDormand rischia di strangolarsi alla consolle per mantenere in vita il girato), secondo lo schema di Mannix per cui "la gente non vuole i fatti, vuole credere". E per indurre a credere, vale tutto. Anche protrettici sganassoni. AveCinema, dunque. Morituri te salutant.
TFK

INVISIBILI - THE MYTH OF THE AMERICAN SLEEPOVER

The Myth of the American Sleepover
di, David Robert Mitchell
con Nikita Ramsey, Jade Ramsey, Amy Seimetz
Usa, 2009 
genere, commedia
durata, 97'


Il mito americano del pigiama party (sleepover in lingua inglese), nottetempo importato anche nelle abitazioni nostrane, ha alimentato le adolescenze di milioni di ragazzi, punto di riferimento di intere generazioni a cavallo tra l’infanzia e l’età matura. Riunioni notturne e pseudo - segrete di individui dello stesso sesso, organizzate in case prive di sorveglianza genitoriale, durante le quali il divertimento sovverte ogni regola usuale, comportando utilizzi fuori norma di alcool e stupefacenti, il tutto solitamente accompagnato a diletto sessuale senza freni. Il lungo d’esordio di David Robert Mitchell si propone di analizzare le fondamenta di tale mitologia, istituzionalizzata nell’immaginario collettivo a vero e proprio rituale di passaggio adolescenziale, esplorando queste feste con occhio clinico ed indiscreto, allungando sullo stesso un velo malinconico ed avvicinandovisi con fare nostalgico. Le storie d’amore che si intrecciano sul finire dell’estate sono effimere come il periodo di transizione a cui vanno incontro i protagonisti, fuochi di paglia destinati a spegnersi col sopraggiungere dell’autunno e con il ritorno, forzoso e mai veramente accettato, alla vita scolastica. 

Ci sono coppie di amici in cerca di un’avventura, sconsolati all’inseguimento di amori iniziati in età infantile, ragazzi alla deriva sentimentale,  colpi di fulmine improvvisi ed il tutto è abilmente connesso, intrecciato in una trama quasi invisibile, impercettibile nei suoi minimi slittamenti narrativi. Mitchell si muove cauto lungo il canovaccio estivo da lui orchestrato, relega la macchina da presa ad una perenne condizione di staticità, limitandone i movimenti all’inverosimile e lasciando sviluppare gli eventi autonomamente, perseguendo un’impronta stilistica che non abbandonerà nel suo lavoro successivo. Ed è proprio ad It Follows che sembra ricollegarsi questo primo lavoro del filmaker americano, presentato a suo tempo alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes; l’adolescenza ed i suoi strascichi nostalgici per i momenti che non torneranno, la costante consapevolezza di un futuro rimpianto per attimi all’apparenza indelebili, ma pronti a dissolversi come neve al primo sole invernale, sono il collante tra due pellicole all’apparenza costruite come un unico trattato audiovisivo sull’età giovanile, privo di sentimentalismi o abusati percorsi psico-sociologici. 

Il grande piacere di Mitchell nel calarsi nell’età rappresentata sullo schermo fa il paio con la voglia di evasione di Maggie, Marcus, delle gemelle Abbey e di tutto l’universo periferico di Detroit in cui transitiamo; il regista getta l’ancora del presagio di una imminente nostalgia, impossibile da distruggere, e riesce nel tentativo di non lasciarla cadere nel vuoto, ma incagliandocela nell’animo e impedendone il distacco. Questo perché, alla fine,  l’adolescenza è l’epoca dello svago incontrastato a cui tutti ambiamo regredire, il periodo delle follie organizzate con gli amici, le notti trascorse nelle abitazioni altrui consumate tra leccornie proibite e segreti insvelabili, un momento d’oro e ricco di spunti narrativi che Mitchell raccoglie solo in parte, consegnandoci un lavoro che tratteggia adeguatamente questa tematica, dimenticandosi, contrariamente, l’importanza del ritmo in una esposizione così particolare. Laddove termina The myth of the American Sleepover si riallaccia il successivo lavoro di Mitchell, una dissezione minuziosa della paura che segue le orme della precedente analisi sul timore dell’imminente età adulta, un sentimento costante di apprensione per il futuro in cui, ognuno di noi, è sprofondato almeno una volta nella sua vita.
Alessandro Sisti

giovedì, luglio 28, 2016

INVISIBILI - AIR DOLL

Air Doll
di Hirokazu Kore-eda
con Bae Doona, Arata Iura, Itsuji Itao
Giappone, 2009
genere, fantasy/drammatico
durata, 125’



Settimo film del regista giapponese, “Air Doll” è una favola poetica su una bambola gonfiabile che improvvisamente prende vita e inizia a guardare il mondo. Storia che ricorda il Pinocchio collodiano (con tanto d’incontro con il suo creatore, “falegname” moderno costruttore di bambole gonfiabili oggetti sessuali per uomini soli).
Film ricchissimo dal punto di vista tematico e stilistico, Kore-eda tocca temi a lui cari come il senso della nascita, della vita e della morte; la solitudine dell’uomo moderno, immerso nella periferia di una grande città come Osaka, metonimica di qualsiasi centro urbano nel mondo; il tema del cinema come evento salvifico; la difficoltà dei rapporti umani; il senso di vuoto della società contemporanea.
Nozomi è oggetto sessuale di un uomo abbandonato dalla fidanzata che si costruisce un simulacro di (stra)ordinarietà e vive anomicamente senza rendersi conto della realtà crudele che lo circonda. Una mattina, dopo l’ennesimo rapporto sessuale, Nozomi inizia a respirare e a prendere vita. Bambola di gomma che cammina e si muove verso la luce della finestra gocciolante per la pioggia della notte appena passata, tende una mano che viene bagnata. Magicamente l’acqua la trasforma in un essere “umano”, con un cuore e una coscienza. Burattino che vuole essere donna, inizia a uscire di casa e seguire le persone, osservarle con sguardo pieno di stupore infantile, creatura alla scoperta del mondo e della vita. Kore-eda basa tutto sul potere del respiro, come insufflare la vita all’interno di corpi spenti; e dell’acqua come elemento di vita, di (ri)nascita.

Nozomi trova lavoro in una videoteca e s’innamora del giovane commesso che ben presto si scoprirà aver perso la fidanzata. Kore-eda in un montaggio alternato, ci mostra la vita solitaria di diversi personaggi che la donna-bambola incontra nelle sue passeggiate. Il padrone del negozio che parla di una moglie che non c’è più e vive in una casa da solo, cercando inutilmente una normalità quotidiana; una donna bulimica, rinchiusa nella disperazione di un appartamento immerso nei rifiuti; un ragazzo ossessionato dal web e da Nozomi, che riprende di nascosto; una vecchia che guarda spettacoli di cronaca nera e va al posto di polizia; una bambina orfana di madre; un vecchio malato al termine della vita. Tutti monadi il cui unico, flebile, collegamento è una bambola che sogna la vita, sogna di essere donna. Il primo uomo sostituisce Nozomi con una nuova bambola e quando si accorge, una sera, che lei ha un cuore si spaventa e le chiede di tornare a essere “una bambola”, perché i rapporti umani non possono essere tollerabili. Nozomi viene ricattata dal padrone e le chiede un rapporto sessuale: ella rimane oggetto di desiderio, mai vista come essere umano, mentre proprio in questo suo vivere in transito la porta a essere più umana di tutti i personaggi che la circondano e che sono molto più “vuoti” di quanto possa essere lei.
Durante un allestimento del negozio, Nozomi si provoca uno strappo al braccio e l’aria fuoriesce. Il ragazzo la rattoppa e poi dall’ombelico, dove è posizionata la valvola, inizia a soffiare per ridarle la vita. L’insufflargli l’alito, il fiato, è una forte metafora sia sessuale sia creatrice di nascita. La scoperta della sua condizione porta a un rapporto masochistico tra i due: l’uomo le chiede di poter “sgonfiarla e rigonfiarla” in un rapporto sessuale translitterato, fatto di dolce morte e continua rivitalizzazione. Nozomi, per un equivoco di comprensione, lo uccide involontariamente, cercando di ricambiare quello che prende come gesto d’amore, invece che un egoistico senso di colpa dell’uomo che non era riuscito a salvare la fidanzata morta in un incidente. Una delle più belle sequenze di tutto il film, come l’intero incipit della trasformazione di Nozomi e la scoperta di un cuore. Del resto l’ombelico, il ventre, è il centro della vita in una visione orientale dell’esistenza.


Il dialogo tra la donna-bambola e il suo creatore poi è significativo sulla fine di tutti noi: l’uomo è fatto di materia riciclabile, le bambole fatte di gomma e finiscono nei rifiuti non riciclabili. In qualche modo ognuno di noi è di passaggio in questa vita ed è emblematico il dialogo tra Nozomi e il vecchio malato, che vorrebbe morire per dimenticare tutto e portarsi dietro un unico ricordo, in un stretto legame contenutistico tra “Air Doll” a “After Life”, altra opera fantastica di Kore-eda.
Del resto, il respiro è un suono allo stesso tempo diegetico (quello del respiro di Nozomi e il soffio del ragazzo della videoteca) ed extradiegetico, in un finale drammatico, dove la bambola di gomma si “sucida” per rilasciare il suo alito di vita e come un seme far ricrescere la vita in un’umanità (dis)persa. Ma, mentre il corpo del ragazzo morto viene messo nella discarica come scarto riciclabile, il corpo di Nozomi è oggetto di scarto e invisibile ai più. L’unica che la nota è la ragazza bulimica che di fronte alla bellezza del sacrificio in qualche modo guarisce: il sacrificio della donna-bambola non è inutile, ma in realtà diventa germoglio da cui (ri)cresce la vita.
Lo stile di Kore-eda si esprime con carrellate laterali, che seguono la protagonista lungo le strade della periferia, e con movimenti di macchina negli interni che riproducono il respiro metafisico e poetico del film. La fotografia è satura di luce e colori vividi, anche nelle scene notturne, e la messa in scena limpida in una messa in quadro di sequenze che diventano frasi poetiche di ampiezza zen. Emozioni elementari, profonde, allo stato puro, come il respiro, appunto, e l’affascinante bellezza degli oggetti che sono attraversati dalla luce (bottiglie, anelli, oggetti di plastica).
Nozomi è interpretata dall’attrice coreana Bae Doona (già protagonista in “Simpatia per mister vendetta” di Park Chan-Wook e in “The Host” di Bong Joon-Ho, ma soprattutto di Somni in “Cloud Atlas” delle Wachowski e poi anche in “Jupiter Ascending” e nella serie televisiva “Sense8”) che dona una grande sensibilità e dolcezza al personaggio, con una recitazione misurata e intensa di rara bellezza.
Prodotto, sceneggiato, diretto e montato da Hirokazu Kore-eda, “Air Doll” si rivela come un’opera di grande pregio e, soprattutto, di un cinema poetico che confermano la voce autoriale del regista giapponese. Ed è una fortuna poterlo vedere nella rassegna organizzata dalla Fondazione Cineteca di Milano per un film, che inspiegabilmente, non è mai stato distribuito in Italia.
Antonio Pettierre

“Rassegna Hirokazu Kore-eda”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano fino all’11 agosto 2016 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/hirokazu-kore-eda/

martedì, luglio 26, 2016

STAR TREK BEYOND

Star Trek Beyond
di Justin Lin
con Chris Pine, Zachary Quinto e Zoe Saldana
USA, 2016
genere, fantascienza
durata, 122'


La convinzione di essere i leader del mondo e i depositari delle sorti dell'intera umanità sommate all'intraprendenza pionieristica che diede l'impulso decisivo alla nascita della Nazione  sono concetti che appartengono da sempre al patrimonio epico avventuroso della cinematografia americana. Partendo da queste premesse appena aggiornate dalle forme più evolute della science fiction contemporanea "Star Trek Beyond" si ripresenta ai nastri di partenza con molte conferme e la grande novità rappresentata dal passaggio di consegne in cabina di regia tra JJ Abrams, deus ex machina della nuova serie dedicata alle vicende dell'equipaggio del nave spaziale Enterprise, e Justin Lin, new entry promossa sul campo grazie al successo riportato nella direzione di due episodi di "Fast and Furious". 
Una scelta, quella di affidare la guida della saga al  cineasta taiwanese che a ben guardare si adatta non poco al tenore del progetto. Perché, reciso  il cordone ombelicale con le proprie origini cinematografiche (anche se la produzione ha già fatto sapere che nella prossimo film torneranno i riferimenti a personaggi del passato) lo spettacolo di Star Trek decide di fare a meno della fantasia e del citazionismo del proprio mentore  in favore di una pragmatismo che si esprime trasformando in azionele gerarchie e le dinamiche tra personaggi che Abrams aveva tracciato nelle puntate precedenti. In questo modo a tenere banco non sono più le schermaglie sentimentali e le differenze culturali tra la bella Uhura e il dottor Spock e neppure la diffidenza tra il celebrale Venusiano e il capitano Kirk - nel frattempo avviato con qualche titubanza di facciata a replicare le imprese del famoso padre - quanto la voglia di scatenarsi in un tripudio di salvataggi da ultimo minuto giustificati dall'urgenza di difendere la democrazia del Cosmo. Con meno parole ma con la solita vivacità "Star Trek Beyond " si affida al dinamismo di Lin che dopo aver diretto una storia di macchine volanti  trova pane per i suoi denti nel tentativo di tenere testa alle vertigini iper cinetiche di cui sono capaci Kirk e compagni, con le astronavi al posto dei cavalli chiamate a dare vita a un western futuristico meravigliosamente scontato ma sufficiente scaltro da garantire anche questa volta il solito stuolo di ammiratori.

domenica, luglio 24, 2016

venerdì, luglio 22, 2016

MR COBBLER E LA BOTTEGA MAGICA

Mr. Cobbler e la bottega magica
di Thomas McCarthy
con Adam Sandler, Dan Stevens, Steve Buscemi
USA, 2014 
genere: commedia 
durata: 99'


Max è un calzolaio per tradizione familiare che vive nel Lower East Side di New York. Non è più giovane e, forse, interiormente non lo è mai stato. Bloccato dentro una bottega di cui non vede il fascino, costretto a un lavoro che non lo appassiona, non ci sa fare con le donne, fatta eccezione per la madre, rimasta sola dopo l'abbandono del marito, di cui si prende cura quotidianamente. Le cose cambiano il giorno in cui scopre, per caso, nel magazzino, una vecchia risuolatrice dai poteri magici, che gli permette di assumere i connotati di chiunque, a patto di calzarne le scarpe. Si apre così, per Max, la possibilità di vivere finalmente l'avventura della vita e di trovare la propria identità, dopo averne sperimentate molte altre.




Se, in teoria, Adam Sandler poteva sembrare il candidato ideale per questo ruolo, in virtù dell'esperienza simile di "Cambia la tua vita con un click", meno aderente poteva apparire il profilo di Tom McCarthy, specie dopo Il caso "Spotlight". Il primo non delude le attese: mettendosi nei panni di Max il calzolaio, trova l'identità cinematografica migliore da qualche tempo a questa parte. Non più giovane, ma ancora acerbo socialmente, il suo personaggio è un immaturo diverso dai tanti personaggi interpretati dall'attore newyorkese. Bolso all'occorrenza, insolitamente trattenuto, l'attore si adatta in ogni momento al passo del film. Il regista, in "Mr. Cobbler e la bottega magica" torna, per molti versi, al genere umanista dei suoi primi tre film, da cui trae l'idea di un protagonista maschile in preda a un torpore e che si apre alla vita in seguito a un incontro particolare: la componente magica di questa parabola, però, per quanto metaforica e incastonata dentro la cornice di una leggenda yiddish, riscrive completamente le caratteristiche tipiche del genere frequentato con successo dal McCarthy degli esordi e il risultato è meno interessante. Sarà che la magia dell'incontro con l'altro, che finisce per ridefinire il carattere del personaggio, non passa più dalla frequentazione con un essere umano ma da un oggetto, o sarà che la parte di Dustin Hoffman proprio non convince, non suscitando la sorpresa che vorrebbe e non sfruttando le potenzialità che contiene, ma la sensazione ultima è che la trama in sé non abbia sufficiente sentimento né abbastanza avventura per rispondere alle aspettative dell'intro in stile Coen. Non è dunque un difetto di retorica, ma un problema di inconsistenza.
Riccardo Supino

martedì, luglio 19, 2016

NWR/LA BELLEZZA NON CI SALVERA'

NWR/La bellezza non ci salverà


"ero in uno strano viaggio
ma era
privo di senso".
- C.Bukowski -


Illusi circa l'aver disinnescato o, peggio ancora, fruttuosamente introiettato l'incubo ad aria condizionata in forma del sistema di vita globalizzato via via arenatosi in un più che scipito cretinismo di massa, ecco che ci tocca tentare di raschiar via dalle nostre assai idratate epidermidi un ulteriore - forse ultimativo - prurito, vale a dire quello che ci stimola il più recente scherzo di N.W. Refn (anzi, come si firma lui, NWR) a nome di demone al neon, diffuso al volgo nell'anodina formula di miraggio-della-bellezza, quella - sia chiaro - a misura dell'apparato mercantile-propagandistico che sulla manipolazione della stessa prolifera, per di più nutrendosene, secondo la peristalsi (tenuta ben oliata dal Capitale) consumo/deiezione, in un contesto, l'attuale (occidentale, sedicente moderno, nelle intenzioni - e non solo - da replicare ovunque e bla, bla...), che, a stringere, finisce per produrre, perverso paradosso, pressoché  solo mostri (e non nel senso etimologico del termine).


Jesse invece è Altro (o forse la rifrazione danneggiata di una mania ai nostri giorni puramente fittizia ?). Jesse è appena arrivata nella città degli angeli. A new kid in town, novella Alice che si rimira negli sguardi golosi di tutti e scivola tra gli specchi di un immaginario sbriciolato i cui frantumi sembrano rimandare sempre e solo la sua figura (Elle Fanning, dunque, ancora Alice, come lo era stata, di nome, nel "Super 8" di Abrams). E' sola al mondo, Jesse. Così dice. "E' un unicum", sussurra divertito Refn. S'è lasciata alle spalle una scheggia anonima della Georgia e ha da poco compiuto sedici anni - Oh, sweet sixteen ! - ("Ma tu dì sempre che ne hai diciannove. Diciotto darebbe troppo nell'occhio"). Jesse irradia luce ("Quando tu entri in una stanza", si sente apostrofare, "è come se... in pieno inverno spuntasse il sole"), benché assediata da una volontà, quella del Denaro, quella dello Sviluppo, quella del Cinema, che per unico scopo ha quello di riprodurla, ossia di falsificarla nel senso di banalizzarla, di costringerla cioè entro un'idea sempre e comunque fruibile, qualcosa priva della più miserabile possibilità di trasfigurazione e quindi di alterità autentica (come nota, ad esempio, M.Belpoliti nel suo Crolli: "La banalità appare attualmente senza fine, o meglio: senza interruzioni di sorta, come se non esistessero luoghi o spazi sottratti ad essa". Banalità a cui non sfugge - volendo o no, non importa - nemmeno Refn. La scena d'apertura con Jesse distesa su un divano d'epoca per un servizio fotografico spiazzante reperta, infatti, scampoli di un'iconografia talmente vasta, talmente masticata nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, da La morte di Marat di David, passando per le deposizioni di Raffaello e di Caravaggio, per giungere a La morte di Chatterton di Wallis - Bevuta liscia la vita/E' un veleno migliore che in bottiglia, aggiunge Thomas nella poesia omonima - e solo per fare mente locale, da flirtare, oggi come oggi, inesorabilmente, col banale. A dire: proprio il languido strazio ritratto da Wallis, può prestarsi senza troppe forzature come immediata allegoria per cui nell'autoeliminazione romantica di un poeta pre-romantico è ipotizzabile leggere un altrettanto romantico suicidio della bellezza. E via banalizzando). Jesse ha altresì una grazia e uno splendore entrambi impareggiabili, perentori, insolenti. Jesse si mostra umile, ingenua, per certi aspetti davvero al-passo-coi-tempi ("Non so cantare. Non so ballare. Non so scrivere. Non ho alcun talento. Però sono carina e posso guadagnarci con questo") ma il desiderio che nutre - diventare la modella numero uno, quella contesa da ogni occhio e non una qualunque provinciale attraente che appassisce in un diner asciugando cucchiaini a vita - è a sua volta divorante e irresistibile, proprio di quel furore umbratile e spietato che solo il desiderio adolescente sa incarnare, al punto di doverlo manifestare, al dunque, senza remore: "So che sembro indifesa ma non lo sono". E: "Io sono una ragazza pericolosa". Dunque: chi è, anzi, cos'è Jesse ? 

In questo mondo sublunare che tratta la Morte alla stregua di un esorcismo di terz'ordine - rifiutandosi addirittura di chiamarla per nome, tanto presuppone di averne allontanato l'inesorabilità dal suo orizzonte - Refn tratteggia, a nessuna edificazione e in perenne complicità, il proprio e personale trionfo della medesima, in perfetta linea con questo millennio e alla stregua dell'omonima visione di Breugel, già combinazione d'imperturbabile, disilluso ammonimento e opprimente, morboso realismo, partendo da quei territori delle fantasie contemporanee dove è maggiore - quindi ancor più patetico e grottesco - l'affannarsi attorno alla sua negazione, irrorata, quest'ultima, dal concime sterile della bellezza (ai-tempi-del-Denaro): ovvero la serra fredda della Moda come fabbrica di corpi e dei Corpi come variabile dipendente del Denaro, in un'estenuazione a ripetere (e a cibarsi della propria ripetizione) che assimila l'universo della bellezza ad una sorta di pornografia iper-stilizzata (che il Cinema, a sua volta, ritrae, stigmatizza magari ma contribuisce a tenere in circolo), così intimamente e tragicamente (?) nostra, e fatta anche - insiste Refn - di colori vistosi, fluorescenze; di squarci stroboscopici di un futuro già presente; di occhiate assorte presunte allusive; di staticità e pose plastiche protratte ad imitare/anticipare il rigor mortis o l'assurda asimmetria delle bambole disarticolate; di dialoghi al di là dell'inconsistenza a mo' di segmento sonoro casuale dell'inesausto rumore di fondo planetario... 


Siffatta maniera in cui la modernità possiede e utilizza la bellezza, non può che implicare, allora, schizofrenie e derive (o sarebbe più coerente dire, a questo punto, logiche ?) di carattere vampiresco, antropofagico, necrofilo, che l'autore sfrutta, restituisce e letteralmente ri-vomita contro un occhio/sguardo - il nostro - allo stesso tempo lusingato/nauseato da una reiterazione senza approdo, eppure assuefatto ai dettami insondabili, tutt'interni al mistero di ciò che resta del desiderio, di questa malattia terminale stabilizzata - l'apparenza - di fatto elusiva e carente in farmacopee efficaci, degenerazione imponderabile che vaga senza posa di corpo in corpo ammiccando ad un annuncio di morte in grado oramai di far capolino persino dai gesti minimi e tradendo la misura del proprio stadio-di-avanzamento da qualche lucore annichilito (anch'esso - si badi bene - latore di una sua inumana fascinazione) che qui scruta dagli occhi crudeli ma avidi di J.Malone/Ruby inondata di sangue e che, moltiplicati senza fine, sono gli occhi con cui ci guata il-nostro-modo-di-vivere, indolente ma famelico, esausto ma ossessivo, frigido ma feroce e di cui Jesse - eccola, al fine - non è che il brandello più appetitoso e indigesto (nonché, a ben vedere, l'eccipiente dolciastro di altri resti, da quel dì ampiamente rigettati: la Democrazia, la Libertà, la Felicità, et.), quello da smembrare e smerciare nel rito deforme della più oscena delle eucarestie, in un silenzio senza tempo (tutto sembra accadere contemporaneamente all'interno di una vaga ma palpabile impressione di dislocazione) e in uno spazio algido e ostile (strade, piazze, corridoi, stanze, quasi senza vita) in cui la poltiglia del reale vibra al negativo di un'entropia laida e immemore, tra l'opulenza cadaverica delle sfilate, lo squallore aggressivo delle bettole, la levigatezza artificiosa dei lineamenti, gli stati emotivi incongrui, i profili taglienti degl'interni, mentre l'Occidente, landa crostosa, affonda muto in un tramonto inerte. Ancora una Fine, insomma. Alla prossima.
TFK 



domenica, luglio 17, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA


























Shame di Steve McQueen, UK 2011

Hirokazu Kore-eda, l’eternità dei ricordi e le forme sentimentali

Hirokazu Kore-eda, l’eternità dei ricordi e le forme sentimentali
     
Presso Spazio Oberdan Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016 Fondazione Cineteca Italiana presenta una rassegna dedicata a uno degli autori più importanti del cinema giapponese contemporaneo: il regista, sceneggiatore, montatore e produttore Hirokazu Kore-Eda. L’omaggio prevede otto film, ben sei dei quali mai distribuiti in Italia. Nelle righe che seguirano una breve introduzione sul lavoro e le opere del regista giapponese.


Più che una nuova voce, il regista Hirokazu Kore-eda è una certezza del nuovo cinema giapponese. Classe 1962, nasce come documentarista per poi farsi subito notare alla Mostra del Cinema di Venezia del 1995 con l’opera prima “Maborosi” (Maborosi no Hikari) che vince un premio Osella come miglior fotografia. Con “After Life” (Wandafuru raifu, 1998) si aggiudica il premio alla sceneggiatura al Torino Film Festival di quell’anno e inizia ad affermarsi come un autore che suscita interesse e attenzione nel mondo, restando però relegato sempre nell’ambito festivaliero. Perché sia riconosciuto anche dal grande pubblico (oltre che da una nutrita e crescente folla di estimatori e cinefili in tutto il mondo), si deve aspettare il successo al Festival di Cannes del 2013 dove “Father and Son” (Soshite Chichi Nitaru) si aggiudica il Premio della Giuria e viene distribuito nelle sale cinematografiche italiane. Con il successivo “Little Sister” (Umimachi Diary, 2015), Kore-eda si conferma come autore che ha presa anche su un pubblico generalista.

L’occasione è quindi ghiotta per poter recuperare gran parte della sua filmografia con la rassegna a lui dedicata dalla Fondazione Cineteca Italiana che programma otto dei sui undici film (di cui sei mai distribuiti nelle sale cinematografiche italiane) presso il cinema Oberdan di Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016.


Oltre ai già citati, si potranno vedere: “Nobody Knows” (Dare mo Shiranai, 2004) tratto da una storia vera che racconta di quattro fratellini di padri diversi abbandonati dalla madre e costretti a sopravvivere con le loro forze; “Still Walking” (Aruitemo Aruitemo, 2008) dove viene messa in scena la vicenda privata di una famiglia e il difficile rapporto di un giovane con i propri genitori, dopo anni di assenza e ritornato a casa in occasione del funerale del fratello maggiore; “Air Doll” (Kuki Ningyo, 2009) storia fantastica su una bambola di gomma che diventa umana e s’innamora di un uomo; “I Wish” (Kiseki, 2011) opera tutta incentrata su un gruppo di bambini e la loro quotidianità. Non presenti nella rassegna il suo terzo film “Distance” (Distance, 2001) sul suicidio collettivo perpetrato da una setta religiosa; “Hana” (Hana Yori Monaho, 2006) un gindai-geki, film in costume, dove un samurai compie la sua vendetta contro gli assassini del fratello; e l’ultimo film appena presentato al Festival di Cannes 2016 e ancora da distribuire (Umi Yory mo Mada Fukaku).


Kore-eda ha un occhio sensibile alle dinamiche familiari, soprattutto ai rapporti filiali, e molte volte dal punto di vista dei bambini, o comunque al tema dell’infanzia, dei traumi della crescita. Il rapporto con la vita e la morte, la perdita di un padre, un fratello, una madre, un familiare, sono al centro del suo interesse. Un cinema più che filosofico, a tratti sociale e a tratti poetico, dove la sostanza dei contenuti affrontati si sostanzia con la forma cinematografica. Prendiamo ad esempio l’opera prima “Maborosi”, dove la giovane protagonista viene prima rappresentata, in un prologo, quando bambina non avrà la forza di bloccare la vecchia nonna che fugge da casa scomparendo per sempre; poi in una prima parte, giovane neo mamma e sposa, che vive di poco nella periferia di Osaka in una felicità brutalmente interrotta dal suicidio inspiegabile del marito; e, infine, una seconda parte, la più lunga, mentre si trasferisce in un villaggio costiero con il figlio ormai cresciuto, per vivere con il secondo marito e la sua giovane figlia.  


Se da un lato Kore-eda utilizza un occhio quasi documentaristico e il tema della morte è presente (debitore alla sua produzione documentaria che tratta di malati di AIDS, di suicidi, di morti), dall’altro, la messa in scena, è profondamente poetica per la volontaria presenza dell’autore dietro la macchina da presa che lavora sulla sottrazione del profilmico e sull’essenzialità della messa in quadro: sia negli interni (pensiamo al monolocale a Osaka con il primo marito o alle stanze della casa del secondo marito direttamente sul mare) sia negli esterni (soprattutto nella seconda parte, con i bellissimi campi lunghi e lunghissimi della costa e del mare, sia in inverno che in estate) dove, in particolare, la protagonista appare sempre come l’unico elemento umano all’interno di una natura che si trasforma in un genius loci. La luce del resto, così come il paesaggio, formano un contraltare ai momenti emotivi differenti: la palette di grigi e neri invernali e di verdi e azzurri dell’estate rappresentano anche le punte di tristezza e di ritrovata felicità della protagonista, inerme di fronte al mistero del suicidio del primo marito, di cui non si riesce a dare pace perché non trova nessuna spiegazione e la riempiono di sensi di colpa, così come la scomparsa dell’amata nonna da quando era bambina.


Lo stile documentaristico, con la predilezione di messa scena in interni e la cinepresa all’altezza dello sguardo dei bambini, lo abbiamo ancora di più in “Nobody Knows”. I quattro ragazzini, due maschi e due femmine, abbandonati da una madre infantile ed egocentrica, in un appartamento in periferia di una grande città, dà la possibilità a Kore-eda d’indagare le silenziose emozioni in un’implosione di stile che viene rappresentata dalla messa in scena del piccolo monolocale, dove i quattro (soprav)vivono sotto la guida del fratello maggiore appena dodicenne. Una vita ai margini e marginale, di un’infanzia non solo perduta, ma invisibile agli adulti, che non si chiedono di ragazzini soli in mezzo alla strada, senza nessun sostegno di un adulto, obbligati a una reclusione coatta, non solo fisica, ma anche emotiva. Kore-eda riesce con levità a trasmettere la pesantezza della vita che schiaccia i bambini e che porta alla tragedia finale per una di esse (la sorellina più piccola) in una sequenza in montaggio alternato, dove proprio il fratello maggiore, per un momento, riuscirà a sollevarsi dal sottosuolo della sua esistenza. E la metafora della valigia sotterrata ai margini dell’aeroporto, con gli aerei che partono verso ignote destinazioni, non è niente altro che l’anelito alla fuga verso un’esistenza migliore, dove però l’unico possibile viaggio è quello verso l’Aldilà, una morte che diviene un passaggio verso un’altra possibilità.
Del resto, con “After Life”, questo mondo dopo la vita, Kore-eda lo mette in scena con uno stile da reportage documentaristico per poi mutarlo drasticamente verso il mostrare la creazione del “fare” cinema. Queste anime che arrivano in una “stazione” di passaggio, dove dei ligi e giovani funzionari (anch’essi morti) le accompagnano all’eternità, dandogli una settimana di tempo per scegliere un ricordo (uno solo) e portarselo con sé. Diventa quindi interessante vedere la difficoltà di sintetizzare un’intera vita (breve o lunga essa sia) in un unico momento significativo che la rappresenti tutta. Ma la svolta originale dell’opera di Kore-eda è proprio il lavoro di queste persone che ricostruiscono il ricordo facendo del “cinema”: devono creare le scene, gli effetti speciali, scegliere i luoghi adatti, le luci, per poi girare, come una vera e propria troupe cinematografica, il ricordo scelto dal morto. Nell’ultimo giorno i ricordi (dei cortometraggi) sono proiettati in una sala cinematografica e alla fine i morti scompaiono letteralmente. Il gioco è esplicitato fin dall’inizio e la bellezza di “After Life” è proprio nel racconto e nel suo sviluppo diegetico. Il cinema diventa una grande metafora della vita: una metonimia di un’intera esistenza; il cinema come contenitore di ricordi da trasmettere all’eternità per poi scomparire definitivamente con essa, dopo la fine della proiezione e l’accendersi delle luci in sala. Vedere un film è un po’ come vivere ancora una volta e morire di nuovo.

Con “Father and Son”, il regista giapponese compie un salto, una svolta di grande maturità, abbandonando i temi del lutto, della morte, della tragedia, ma concentrando il suo sguardo sui rapporti filiali. Il caso di due bambini scambiati in culla per un errore dell’ospedale, porta al confronto di due famiglie all’opposto, sia per condizioni sociali sia per rapporto con la vita: la prima è ricca, con un uomo dedito al lavoro in una grande azienda, abitano in un ordinato e moderno appartamento in un lussuoso palazzo in città, con il rapporto con il figlio tutto sorretto da una rigida formalità ed educazione, sempre spinto a dare il massimo in tutti i campi dello studio; la seconda è una caotica famiglia che vive in provincia e gestisce un piccolo negozio, con un padre chiassoso che trasforma il rapporto con i figli in un continuo gioco e divertimento lasciato alla massima libertà espressiva dei propri sentimenti. Già questo continuo confronto netto e contrastante tra le due famiglie che si devono conoscere e decidere lo scambio dei figli naturali dà la cifra della capacità d Kore-eda di creare del cinema dove l’uomo e la sua umanità (con tutte le sue debolezze e incertezze) sono messe al centro della visione. Il confronto qui è tra legami di sangue o legami emotivi e la risposta che dà l’autore è incontrovertibile nella bellissima sequenza finale: l’uomo ricco lascia il proprio figlio alla famiglia naturale; gli dice che si deve fare coraggio e che deve “andare in missione, una missione lunga e pericolosa”; quando alla fine si rende conto che lo scambio dei figli non funziona perché il legame emotivo delle famiglie “adottive” obtorto collo è troppo forte, decidono insieme all’altro padre di lasciare tutto com’era. In un lunga carrellata in un campo-controcampo continuo tra il padre e il figlio che finisce alla fine di un viale alberato, il padre dice al figlio prima di abbracciarlo: “La missione è finita, si torna a casa”, in un momento di altissima emozione rafforzata dall’eleganza formale della messa in quadro di tutta la sequenza.


Questo svolta verso un cinema maturo e più consapevole dei propri mezzi e dell’originalità del suo sguardo, Kore-eda lo conferma anche con “Little Sister”. La ricchezza della sceneggiatura va di pari passo con la messa in scena sempre più complessa e a una messa in quadro che si riempie e lavora adesso sull’accumulo. La storia di tre sorelle adulte che vivono nella casa materna, tre caratteri diversi e complementari, tre età differenti e approcci all’amore e alla vita contrastanti, diverte e commuove allo stesso tempo. E l’occasione di andare al funerale del padre che le aveva abbandonate per risposarsi con un’altra donna, le porta a scoprire una sorellastra più piccola, che rimasta orfana, la accolgono nella loro singolare famiglia tutta al femminile. “Little Sister” diventa un’altra espressione per indagare una diversa forma di famiglia, fatta di solidarietà, di gioiose differenze e contrasti, ma soprattutto di affetti e sostegno reciproco, senza mai scivolare in facili sentimentalismi ma andando invece nella profondità del sentimento come le profondità di campo degli interni di Kore-eda. E la morte in questo caso è presente a latere (la sorella più grande lavora come infermiera in un reparto di malati terminali e assisterà fino alla morte la proprietaria di un piccolo ristorante): inizia con il funerale del padre e finisce con il funerale di una loro amica, in mezzo c’è il pieno di vita e vitalità di queste giovani donne e ragazze piene di speranze e aspettative.
In attesa, e nella speranza, di vedere presto l’ultima opera del regista giapponese, non perdete l’occasione di passare un’estate diversa, scoprendo del grande cinema con film che colpiscono nell’intimo qualsiasi spettatore.

Antonio Pettierre