Fahrenheit 11/9
di Michael Moore
USA, 2018
genere, documentario
durata, 128'
Allora non potevamo saperlo perché all'epoca di "Fahrenheit 9/11", il film che ne aveva decretato la fama, permettendogli addirittura di essere il primo documentarista ad aggiudicarsi (nel 2004) la Palma d'oro del festival di Cannes, la filmografia del nostro era ancora troppo esile per mostrarne le prove. Dopo di quello c'erano stati altri film, quattro per l'esattezza, in cui però il regista pur continuando a tirare fuori scheletri dall'armadio non era più riuscito a ritrovare l'antica verve. Al termine di "Fahrenheit 11/9", presentato in anteprima italiana alla Festa del cinema di Roma, appare chiaro che quella di Moore era una disaffezione dovuta alla mancanza di un nemico reale. Troppo astratti per essere tali erano stati a suo tempo i fantasmi del sistema sanitario ("Sicko") e di quello capitalistico finanziario ("Capitalism: A Love Story"), ambedue lontani dalla maschera grottesca e dall'umorismo involontario di un repubblicano che diventa Presidente. A ridestare l'ispirazione è, non a caso, un personaggio politico come Donald Trump, carica istituzionale capace di modellare le prerogative della sua leadership su un immaginario presidenziale di stampo populista, la cui retorica si è perfezionata nei trascorsi imprenditoriali e soprattutto televisivi, quelli che ancora oggi gli permettono di reclamizzare gli slogan del suo pensiero.
Consapevole di non poter stilare un giudizio definitivo sul nuovo eletto, avendo quest'ultimo ricoperto solo un segmento del suo mandato - iniziato come dice il titolo il 9 novembre 2016 - il film allarga la sua analisi a un arco temporale più ampio, che, rivolgendosi all'America pre-trumpiana, tira in ballo nientemeno che il premio Nobel Barak Obama, accusato senza mezzi termini di aver tradito la fiducia dei votanti e, cosa più grave, dello strato più debole della popolazione, abbandonata a se stessa quando si trattava di aiutarla a salvarsi da rapacità e disuguaglianza. A questo proposito a tenere banco è il caso della crisi idrica della città di Flint nel Michigan, in cui lo stesso Moore è nato e dove migliaia di cittadini sono rimasti sotto lo scacco del governatore repubblicano, disposto a tutto, anche ad avvelenare - di nascosto - uomini donne e bambini pur di sponsorizzare l'appalto di un nuovo quanto inutile acquedotto. Un misfatto avallato persino da Obama, che, accolto a Flint come il salvatore, è tornato a casa portandosi dietro la delusione e la rabbia di quanti lo hanno visto sposare la causa dei cattivi con una pantomima, quella di far finta di bere un bicchiere di acqua contaminata, che era solo il modo per avallare l'operato del presunto responsabile.
Quando Moore arringa lo spettatore facendo risalire il declino del partito democratico all'episodio in questione, sa bene che il disamore delle classi disagiate è la risultante di concause ben più complesse di un singolo episodio. D'altro canto è altrettanto vero che gli avvenimenti di Flint altro non sono che il paradigma di una situazione estendibile al resto del paese. Ed è qui la genialità del regista, il quale, come nei momenti migliori, diverte e si diverte a fare a pezzi la storia ufficiale per rimontarla secondo una ricostruzione che, oltre a una prospettiva del potere visto dietro le quinte, può contare su un umorismo dissacrante e provocatorio dal quale è difficile non farsi contagiare.
Quando questo si verifica con la convinzione con cui lo fa Moore in "Fahrenheit 11/9", poco conta sapere il grado di verità delle notizie apprese o se, per esempio, ciò che vediamo sia in parte il frutto di forzature operate sulla logica del racconto. Moore conosce il senso dello spettacolo e sa prendere il pubblico laddove è più sensibile, ossia mettendolo nella condizione di prendersi la rivincita sul potere, messo alla berlina per interposta persona, attraverso gli sberleffi e le provocazioni del simpatico "ciccione". Guai, dunque, a sottovalutarne l'arte, anche perché, oltre all'affabulazione, "Fahrenheit 11/9" è bravo a colpire con la potenza delle immagini: ce ne sono molte che varrebbe la pena citare ma quella in cui vediamo Hitler doppiato con la voce di Trump e, ancora, l'intera sequenza volta ad ipotizzare la casualità della sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti sono opera di un cineasta che sa il fatto suo. Dopodiché, come nota a margine, fa piacere apprendere che l'Italia non arriva sempre a ruota dell'America. Chi andrà a vedere il film si accorgerà che quanto gli è stato raccontato, con i germogli di una nuova classe politica formata da comuni cittadini pronti a insidiare lo scranno dei soliti noti, sembra la ripetizione di ciò che è accaduto all'interno dei nostri confini con l'ascesa del movimento 5 Stelle.
In uscita come evento speciale, "Fahrenheit 11/9" è un film da vedere e di cui discutere.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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