sabato, dicembre 26, 2020

INVISIBILI: 6 YEARS

6 years

di: Hannah Fidell

con: Taissa Farmiga, Ben Rosenfield, Joshua Leonard, Lindsay Burdge, Dana Wheeler-Nicholson

- USA 2015 -

77’





He’s watching time

he’s watching, marching to his end

He knows time

he sees it

know it, know it, know it

— Throwing Muses —



Sarebbe il caso di frequentare con maggiore assiduità la schizofrenia. Se non altro si arriverebbe - perché no ? - a inquadrare con più accurata approssimazione almeno l’inutilità caleidoscopica di tanti aspetti della cosiddetta realtà, tipo quella che presiede alla compilazione dei palinsesti delle piattaforme televisive. Poca cosa, si obietterà. D’accordo. Eppure, talvolta, rovistando tra le loro glitterate interiora - nel caso, quelle di Netflix - può capitare di imbattersi in segmenti cinematografici che stonano talmente con la logica di base (eh ?) dei rispettivi contenitori da riuscire a risaltare oltre i propri meriti (leggi, volendo: limiti).


Coppia covalente dai sobborghi residenziali di Austin Tx (il film è stato girato in loco contemplando fuggevoli squarci riconducibili alle astrazioni allusive di certe ricorrenze care a Hockney), Melanie Clark, detta Mel/Farmiga (Taissa, figlia di Vera) e Dan Mercer/Rosenfield - la cui gestalt e l’ubi consistam sono rappresentati da una prossimità elettiva ed esclusiva, dorata e semi-impermeabile che rimonta indietro nel passato di una giovinezza ancora in costruzione per i fatidici 6 anni del titolo - stanno di preferenza appiccicati come lappole, ciarlano, scazzano, si accoppiano, assecondano personali inclinazioni (la musica per Dan, come praticante per una agguerrita etichetta alternative-rock; l’idea dell’insegnamento coi più piccoli per Mel), con il mondo, allo stesso tempo, lontano sullo sfondo indistinto a ruminare gli eterni precetti della cosiddetta età adulta e qua e là dappresso grazie al digrignare impercettibile ma caratteristico dei suoi denti da sempre pronti ad affondare nelle aspettative delle carni nuove e a rimescolare equivoci, minute bassezze, goffaggini travestite da insolenze, scampoli di egoismo ignorati per non intaccare l’incanto di giorni in apparenza senza confini.



80 minuti scarsi; confezione tardo-indie, un po’ retromania perduta, un po’ inventario sentimentale, un po’ effetto neve senza schermo; dietro le quinte i fratelli Duplasse edotti nelle descrizioni succinte di stati d’animo disadorni e sofferenze dissimulate a riparo di una relativa sicurezza sociale e di una coscienza avvertita perché fondamentalmente adusa a essere informata, istruita e ambiziosa; dialoghi in linea con una quotidianità post-adolescenziale eccitata e prodiga di sé, languida e inquieta; un cuore espressivo che pulsa addosso ai suoi protagonisti - efebici e spontanei - cercandoli, lambendoli, braccandoli per far balenare lo splendore momentaneo di una intuizione presto lasciata cadere (pensiamo, per dire e per restare in territori ben disposti verso melodie timido-aggressive e/o sbilenche, a “Shocker in gloomtown” di The Breeders); lo smarrimento atono o l’esaltazione incongrua per un comune contrappunto emotivo; la fatica sorridente di passare da una distrazione all’altra con il sospetto privo di spiegazione per cui la vita autentica si stia svolgendo altrove (un altrove, manco a dirlo, che si allontana a ogni promessa partorita dalla stordente cripto-dittatura digital-commerciale); lo spettro intramuscolare di una solitudine la cui vastità e pienezza non si è più nemmeno in grado di disprezzare ma si contempla, nel silenzio e assorti, come frutto essiccato così incredibilmente reperibile a poco prezzo…



Per questo, allora, e perché rappresentano una evidenza innegabile quanto sottomano, si usano i corpi anche come strumenti di smemoratezza, in una maieutica dell’apprendimento che giocoforza include la menzogna e il succedaneo delle tentazioni (Dan ci da dentro con Amanda/Burdge - sua collega alla casa discografica dalla quale attende un inserimento in pianta stabile con tanto di ventilato trasferimento a New York - con l’animo astioso/contrito per le ruggini ricorrenti con Mel; Mel, sbronza, si libera appena in tempo di un tizio rimediato proprio malgrado a una festa e assai intrigato dalla sue lattee grazie); si pende dagli sguardi dell’altro/-a con quella radicalità ingenua ma pensierosa che - mettiamo - il Cinema di Sofia Coppola ha barattato per una arguzia e una sofisticazione formale figlie dell’attuale girare a vuoto attorno a pose/mode comunque reversibili in disinvolte abiure delle medesime. Si galleggia, in sostanza, sulla schiuma insidiosa di una modernità agonizzante che pare non esigere nulla da nessuno ma implica, per la natura subdola della propria pervasiva efficacia capace di svuotare ogni cosa del suo ipotetico valore allo scopo di apporvi sopra, banalmente, un prezzo (mesta trappola delle culture ossessionate dal raggiungimento di uno scopo), la marginalizzazione immediata di qualunque comportamento riluttante ad assoggettarsi alla sua inerzia. Ai bordi del crinale affacciato sull’orrido che sancisce la fine degli anni migliori Mel e Dan infine si ritrovano, si guardano, si apostrofano spergiurando di amarsi, ma si accorgono di non riconoscersi più (Mel: ”Tell me you love me and you want to spend the rest of your life with me”. Dan: ”… I … I’m sorry…”). E’ poco ? O addirittura troppo ?

TFK

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