domenica, dicembre 06, 2020

NORMAL PEOPLE

Normal people
di: Larry Abrahamson e Hattie Macdonald 
(da un romanzo di Sally Rooney) 

 con: Daisy Edgar-Jones, Paul Mescal, Sarah Greene, Aislin McGuckin, Frank Blake, Leah McNamara, Eanna Hardwicke 

 Stag. I ep. I-XII [durata media: 28’ ca./ep.] 
- Irl, 2020 - 



Inside me I feel alone and unreal 
and the way you kiss will always be 
a very special thing to me 
— Syd Barrett — 

 
Se è vero che, a stringere, ogni azione e relativo aire, ogni progetto e connessa risoluzione, è riconducibile a una qualche forma di passione intesa come insopprimibile moto interiore, allora è possibile farsi un’idea di cosa parliamo quando parliamo d’amore - per una volta alla larga tanto dalla miseria ideologica del cinismo contemporaneo che utilizza le relazioni come ennesimo addentellato autoritario allo scopo di avvolgere in un cellophane auto-assolutorio il disegno di mercificazione assoluta dell’esperienza umana (del resto oramai pressoché ultimato), quanto dalla tendenza ad appiattire le differenze e gli attriti in un ecumenismo melenso e subdolo che di quella mercificazione non è che il neurolettico alla portata di qualunque tasca - anche a partire da un frutto dell’ispirazione (nel nostro caso, una serie televisiva) conseguenza diretta di una genitura letteraria (un romanzo, dal medesimo titolo, dell’irlandese Sally Rooney, poi coinvolta nel ruolo di sceneggiatore), vale a dire questo “Normal people”, scabro dramma sentimentale distribuito, nella sua prima e attualmente unica stagione, su dodici episodi affidati dalla BBC Three e da Hulu alle mani di Lenny Abrahamson - quello di “Room” - e Hattie Macdonald. 



Connell Waldron/Mescal e Marianne Sheridan/Edgar-Jones frequentano, stessa classe, l’ultimo anno presso il liceo di Sligo, Irlanda (capoluogo dell’omonima contea situato a nord-ovest dell’isola verde e affacciato su una baia). Lui vive, poco fuori città, nel paese (immaginario) di Carricklea, in un appartamento assieme alla madre Lorraine/Greene, giovane donna che lavora a servizio presso le dimore borghesi del posto (tra cui proprio la villa di proprietà della famiglia di Marianne). Calmo, gentile e riservato - “Tu sai sempre bene quello che pensi. Per me non è così. La maggior parte delle volte non so cosa voglio”, confida a Marianne durante uno dei loro primi e non superficiali scambi di vedute - Connell divide il suo tempo tra l’apprendimento (è un avido lettore e uno studente brillante) e il calcio gaelico (in cui si distingue anche grazie a un fisico longilineo ma prestante) nel cui campionato di categoria milita difendendo i colori della scuola. Comprensivo e disponibile, Connell dissimula l’innata irresolutezza (forse anche figlia della mancanza della figura paterna) grazie a una sorta di equidistanza enigmatica ma possibilista che stimola la curiosità - in specie quella femminile - e alimenta la già spontanea fiducia nei suoi confronti da parte di chi gli sta intorno. D’altro canto, di famiglia agiata quanto affettivamente inerte - la madre, Denise/McGuckin, avvocato di clienti facoltosi, è algida e parca di parole; il fratello maggiore, Alan/Blake, non lesina nei suoi confronti uno stizzito disprezzo, combinazione perversa di presunzione impotente e malcelata invidia; il padre, scomparso, pare non fosse estraneo a episodi di violenza domestica - Marianne, sottile, occhi scuri, di incarnato madreperlaceo, è un carattere altrettanto schivo epperò travagliato da una più sfaccettata inquietudine. Per natura poco incline alle amicizie, riflessiva e di spiccata sensibilità, come sovente accade agli animi scopertisi prematuramente avvezzi a stare sulla difensiva tende ad assecondare una vena sarcastica con risvolti aggressivi che la relega, sia agli occhi dei coetanei che a quelli degli sbigottiti insegnanti entrambi ogni volta presi in contropiede dal suo intercalare allusivo/provocatorio quanto pure formalmente ineccepibile, al rango della stramba della situazione, circostanza, quest’ultima, cui di norma consegue l’accollo di punizioni inflittele dal corpo docente a mo’ di fiducioso strumento dissuasivo contro le reiterate intemperanze verbali. Non stupisce, pertanto, che le giornate si concludano talvolta in meste passeggiate solitarie, a braccia conserte, lungo le vie al tramonto parimenti desolate della cittadina o, allo stesso modo, non è raro che i pasti si consumino senza interlocutori all’interno degli ambienti fin troppo quieti di una grande e bella casa. Entrambi circospetti ma per quelle sintonie imperscrutabili che sembrano ogni volta organizzarsi allo scopo di avvicinare in un modo o nell’altro gli spiriti concordi, tra l’altro accomunati da particolari affinità elettive - ritrosia, composto ritegno in equilibrio sul crinale di una flemmatica sociopatia, scarsa autostima, il timore del giudizio altrui, il gorgo dei sensi di colpa, quelli e questi tenuti in frizione dalla perspicacia, dalla capacità di osservazione e immedesimazione al cui fondo riposa integro ma vulnerabile un indomabile bisogno di lealtà; più di tutto, animati dalla pretesa - quindi esposti all’ispessimento del margine di delusione a tale pretesa sottintendibile - di non accontentarsi, per quanto in apparenza allettante sia, di un’anima che non sia davvero gemella - Connell e Marianne prendono a frequentarsi - e a scoprirsi - a dispetto e all’insaputa di tutti, casuale e complice l’intercessione involontaria di Lorraine la quale, una volta terminate le mansioni nella dimora degli Sheridan, preparandosi al ritorno a casa, concede a Connell, nel frattempo e come da consuetudine sopraggiunto in auto a prelevarla, qualche minuto - dapprima imbarazzato, poi via via sempre più educatamente confidente - di conversazione privata con Marianne. Il resto lo fa la speranza in un sollievo alla frustrazione di sentirsi sempre fuori posto e il prepotente appetito dei corpi. E da qui all’amore il passo è breve, sebbene duplice e non necessariamente in linea retta: sensuale, schietto, scevro da qualunque reticenza (come da ogni ombra di volgarità nella sua rappresentazione tanto esplicita quanto dolcemente intima), quando gli viene concessa la possibilità di ritagliarsi quella magia fragile ma esaltante in grado di escludere il mondo degli uomini e la sua greve reiterazione; impacciato, esposto all’equivoco, zavorrato da dubbi e insicurezze, allorché si perde l’attimo in cui manifestare la disponibilità ad affidarsi completamente all’altro. 

A stratificare in senso conflittuale i termini di un rapporto di certo sincero ma appesantito all’origine da un vago ma persistente alone di sfiducia (assimilabile alla stanchezza coestensiva all’affanno che permea un’intera Civiltà, quella Occidentale, giunta allo stadio terminale anche nella sua dimensione emotiva: approdo, il predetto, tra i possibili, del cosiddetto fallimento del futuro e, a rimorchio, del Capitalismo, assurto/retrocesso a vero e proprio disagio psichico), oltreché da un comprensibile sentimento di inadeguatezza - vista l’età e nonostante lo spessore umano dei contraenti (sovente impegnati a ribadire, anche in pubblico, la superiorità intellettuale dell’altro) - interviene il carnevale ambivalente delle consuetudini quotidiane - in specie l’incalzare dei doveri o, per meglio dire, delle aspettative che quei doveri implicano, a cui è onesto sommare, per fortuna ancora nella forma di un pegno la cui reale portata non può essere sul momento quantificata, l’attraversamento di una prima linea d’ombra, quella che sancisce l’uscita dal giardino incontaminato della prima giovinezza - dopo il liceo ulteriormente ampliate e quindi rese allo stesso tempo più stimolanti ma anche più contundenti dalla decisione - quasi inerziale per Connell, pur nell’evidenza dei suoi meriti; nella logica delle cose a cui è abituata e si ritiene consone a lei, per Marianne - di affrontare il Trinity College a Dublino, abbandonando la provincia e con essa i parenti e - almeno per Connell - gli amici. A margine di corsi di Letteratura per lui - che più o meno convintamente coltiva sogni da scrittore - e di Scienze Sociali per lei, la tensione e la chimica che malgrado tutto li avevano tenuti sulla stessa orbita prendono a diluirsi negli orari diversi, nelle nuove conoscenze e relative altalenanti infatuazioni (tutto sommato deludenti - Connell - a volte addirittura umilianti - Marianne. “Con te era diverso”, gli confessa un giorno al tavolo di un bar. “Non dovevo fare giochetti” dice, alludendo alla triste pantomima sadomasochista che si è autoinflitta. “Era già reale”), nella calcificazione di fastidiosi dissapori che macchiano la tenerezza e il fervore di un passato recentissimo con la diffidenza e l’insinuante rancore del presente [confuso e insicuro, Connell, tra le altre cose, non invita Marianne al ballo delle Debs (omologo del Prom americano) che suggella l’esperienza liceale, ammettendo, qualche tempo dopo, roso dal rimorso ma sincero fino all’autolesionismo, che non aveva proprio avuto intenzione di farlo, preferendo alla sua presenza quella di Rachel/McNamara, una delle bellezze della classe, verso cui non provava nessun serio trasporto. Marianne: “Mi avresti portato al ballo delle debuttanti, poi ?”. Connell: “A essere sincero… no”]. Si intacca e si smarrisce, così, l’incanto del primo incontro ma non quel sentirsi reciproco che li aveva irretiti nell’eterna illusione di rappresentare l’uno il completamento dell’altra e viceversa, in un equilibrio spontaneo e armonico le cui sembianze elusive altrove e nel quotidiano non riescono mai a rintracciare - confermando, semmai ce ne fosse bisogno, i limiti di quell’aporia dolorosa che ci assedia come Cultura quantomeno dalla speculazione greca - e che, sempre, ciclicamente, li costringe a cercarsi, a (ri-)vedersi, per provare a condividere ancora i rispettivi sentieri interrotti. Neanche l’avvicendarsi delle circostanze - il conseguimento per entrambi di una borsa di studio; il periodico ritrovarsi con o senza nuovi compagni a fianco (assistiamo anche - e poteva essere altrimenti ? - a uno struggente interludio vissuto sullo sfondo di incantevoli paesaggi nostrani durante il più tipico dei britannici viaggi in Italia culminato poi in un mesto ritorno in patria sulle note inermi di “Love will tear us apart” dei Joy Division); la solitudine amara che conduce Connell a patire istanti di angosciata depressione (resi ancor più tetri dalla notizia riguardante il suicidio di uno dei suoi più cari amici d’infanzia, Rob/Hardwicke) e Marianne a scendere ulteriori gradini verso il disgusto di sé e l’atonia, fino a constatare ciò che forse ognuno aveva sempre saputo in cuor proprio ma non aveva mai provato a dire. Marianne: “Non mi sento mai sola quando sono con te”. Connell: “Non credo di essere mai stato davvero felice prima di averti conosciuto” E: “Noi vediamo il mondo in modo simile” - annullerà, infatti e del tutto, questa scommessa di riconoscere nell’altro/-a qualcuno in grado di riscattare l’inesorabile destino mortale dei giorni, anche se, per contro, nemmeno tale speciale prossimità potrà evitare l’insorgere di nuove incognite e di nuove sofferenze. 

Il rischio di ogni narrazione sentimentale, come sopra accennato e a maggior ragione durante questa nostra penosa fine che non finisce mai di finire che, da un lato, rimastica ogni afflato allo scopo di risputare qualcosa da convertire, illico et immediate, in moneta o in generica transazione remunerativa; dall’altro, in apparente contraddizione ma per medesima finalità, non fa che agitare senza costrutto e sempre con esiti speciosi e/o consolatori e/o semplicemente stupidi il gran lavorìo delle passioni umane davanti a un uditorio oramai assuefatto a qualunque presunta alzata d’ingegno, è più che altro quello di risultare insignificante al momento stesso in cui ci si azzarda a mettervi mano. Isterismi, patetismi, idiozie, colpi bassi, ammicchi, esagerazioni assortite, superficialità spacciata per concretezza e adesione allo spirito del tempo, pseudo-trasgressioni, indigesti pastiche e pistolotti moralistici affossano, difatti e nella stragrande maggioranza dei casi, quello che è il discorso che ci riguarda più da vicino e ci differenzia come specie, a dire la vertigine e l’abisso di fare dono di sé all’Altro. Ebbene: “Normal people” non è uno di questi casi. E in prima istanza proprio perché rivendica sin da subito la normalità dei suoi assunti, ovvero l’importanza di restituire alcuni campioni del genere sapiens al di là della tentazione di rivestirli dal punto di vista spirituale di una versione migliorata (e spettacolarmente appetibile) di sé stessi. Particolare meno banale di quello che può sembrare, l’intenzione perseguita dagli autori, concentrata nel far risaltare, grazie all’insistenza indagatrice dei primi piani (non di rado muti, assorti o come disorientati dalla propria stessa titubanza) e alla assertività disadorna dei dialoghi (appunto mai enfatici anche quando portano con sé, ad esempio, la durezza di stati d’animo conflittuali o scorati, al punto da apparire più indifesi che polemici, e per tacere del meraviglioso tono evocativo/erratico a essi impressi dalla pronuncia anglosassone, di preferenza chiusa sulle vocali e dura sulle consonanti, con buona pace dello sfinente miagolìo somministratoci da quasi tutto ciò che proviene da oltreoceano), il tratto comune e consuetudinario di una esperienza sovrapponibile a quella di ipotetici innumerevoli altri secondo il viatico di una subitanea e orizzontale immedesimazione, sgombra il campo della messinscena cinematografica, mano mano che si sviluppa l’iterazione del racconto e in ragione di una semplice ma precisa torsione espressiva, tanto dalla retorica ricattatoria e fondamentalmente fasulla delle passioni-sublimi-per-animi-sublimi quanto dalla componente melodrammatica che giustappone, sovente per mera inerzia accumulativa, scene madri e sconvolgenti agnizioni. Marianne e Connell, in altre parole, giungono a confessarsi di essersi scelti reciprocamente senza ricorrere all’armamentario dialettico/comportamentale a cui ci ha abituato una prassi che per lo più vede nell’apologo romantico il rifugio idilliaco (e innocuo) delle anime belle o la tavolata iper-calorica per i palati ingenui, mentre la vita autentica si consuma/consumerebbe altrove, ossia e manco a dirlo sui palcoscenici spietati dei do ut des mercantili e delle astuzie inconfessabili del Potere. Al contrario i due (e quindi la scrittura che ne sostiene la progressione drammaturgica delle scelte e delle azioni) non si dilungano in spiegazioni, non lasciano trasparire l’ambizione a un possesso esclusivo, non si usano vicendevolmente e opportunisticamente come sfogatoi a portata di mano, non piantano bandierine per ipotecare il domani. Le tensioni, il desiderio, lo sconforto, la soddisfazione corrono in via privilegiata sulla linea dei loro sguardi, sulle dita che si cercano o si evitano nel frastuono di una discoteca o di un pub, nei lunghi silenzi che possono o no preludere a un bacio sotto cieli il più delle volte grigi o durante i rari rifiati clementi nel regalare il conforto di una morbida luce obliqua, nella cura oblativa mostrata dai piccoli gesti, dalle attenzioni minute, oppure fanno mostra di sé, si rivelano, infine, ma allora ci si trova già in quello spazio a parte che prevede la presenza di due sole creature, l’istante in cui la richiesta di trascendere la propria finitezza trova tregua nello splendore passeggero della carne, nella sua intesa segreta, prefigurando ancora una volta il campo di applicazione di quella congettura così misteriosa e così umana che proprio uno dei personaggi carveriani richiamato in apertura, a modo suo, tenta di circoscrivere: “Non saprei”, dice. “Bisognerebbe conoscere i particolari. Ma forse quello che stai dicendo tu è che l’amore è qualcosa di assoluto”.
TFK

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